"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Alfonso Maria Di Nola e Pasolini |
Nota
per un’antropologia poetica della realtà: P. P. Pasolini tra
letteratura, cinema e antropologia.
“Passavo ore di fronte a una foglia o a una mano
per capirle cioè per valicare il limite o la sutura dove io
terminavo e cominciava l’altro, la foglia il tronco.
Non pensavo direttamente a Dio, ma all’Altro,
cosa molto più importante per me”.
P.
P. Pasolini,
Lettere
(1940 – 1954),
Einaudi, Torino 1986.
È ormai un fatto
assodato, e il continuo proliferare di studi specialistici in materia
ne è la conferma più evidente, che Pier Paolo Pasolini sia stato il
più antropologo degli scrittori italiani, tanto che in tempi non
sospetti fu lui stesso a invitare i suoi colleghi a dotarsi di quegli
strumenti, come appunto l’antropologia e la storia delle religioni,
considerati indispensabili per la comprensione di un mondo sempre più
complesso e in continua trasformazione:
“Nei miei urti polemici e nelle mie discussioni con gli stessi miei colleghi letterati, viene sempre fuori che essi sono sistematicamente privi di nozioni etnologiche e antropologiche, che io possiedo, né da professionista, né da dilettante, ma da semplice letterato che ha scelto «pour cause» tali letture.”(1)
Alfonso Maria Di Nola e Pasolini |
E a ben vedere
antropologo Pasolini lo è stato sin dagli esordi. Lo era il suo modo
di osservare luoghi e persone, individui e culture, sebbene l’impulso
primigenio sia stato sempre, prima di tutto, quello poetico. Il suo,
infatti, non era certo, e in origine non poteva esserlo in nessun
modo, il rigido piglio dello scienziato o dello specialista in
materia, ma forse proprio per questo, egli ha potuto cogliere in
maniera assolutamente libera e originale le enormi potenzialità
della disciplina; riconducendola, in un certo senso, nel seno di
quella dimensione anche
letteraria che l’ormai raggiunto pieno riconoscimento accademico le
aveva sottratto, respingendo, più o meno apertamente, tali nervature
del sapere antropologico in un angolo poco frequentato da chi
dell’antropologia aveva fatto il suo mestiere.
Nei racconti
giovanili l’inconsapevole inclinazione antropologica, se così
possiamo definirla, dello scrittore si può già “odorare” nelle
complesse – e raffinatissime - descrizioni della vita contadina,
nei suoi tramonti tratteggiati sulle vite campestri, nelle pagine in
cui il giovane autore indugia nel racconto dell’andirivieni dei
migranti friulani dalle miniere del Belgio scolpendone visi e pose
nel dettaglio; nelle atmosfere e nei lampi poetici che ci giungono
“da quel lontano Friuli” di cui, oltre a una “topografia
sentimentale”, ci ha donato anche una “poetica antropologia” in
cui, leirisianamente, si mescolano letteratura ed etnografia.(2) Intense le suggestioni “protoantropologiche” anche nelle pagine
dell’incompiuto progetto di romanzo sul mare: in maniera
evidentissima nel Coleo
di Samo,
più sotterranee nell’Operetta
marina;
estremi di un disegno narrativo complesso e affascinante che, a mio
avviso, brilla come una vera e propria gemma nella produzione
giovanile dell’autore.(3)
Poi venne Roma e la
scoperta di un mondo sottoproletario che irruppe prepotentemente
nella sua scrittura: nei saggi linguistici, nelle prose e nei versi
in cui quella predisposizione all’indagine sull’Altro
divenne sempre più scoperta, più manifesta, più strutturata e,
pian piano, accompagnata da letture e da “conquiste intellettuali”
che la sostennero e la nutrirono incessantemente. Nei romanzi romani
e nei tanti “non finiti” pasoliniani di quegli anni, infatti, la
lente di osservazione, prima ancora della scrittura in sé, intreccia
squarci lirici intensissimi ad analisi da “antropologia del vicino”
che, per quanto “spontanee”, come direbbero i puristi della
disciplina, si offrono al lettore quasi come fossero un documento di
prima mano di un mondo sommerso eppure vivido nella sua
rappresentazione. Il mondo delle borgate romane, oltre a essere
indagato nel suo vitalismo duro e fangoso, si propone inizialmente
come potente e irrinunciabile forma dell’alterità: quasi fosse
l’unico ariete in grado di scardinare il muro e i muri che le
convezioni borghesi erigevano tra individuo e individuo, tra il
singolo e la società, tra culture particolaristiche e ceto
dominante; il quale, intanto, andava modellando un “universo
orrendo”, fatto a propria immagine e somiglianza, in cui ogni
distinzione era annullata:
“La cosa più odiosa e intollerabile, anche nel più innocente dei borghesi, è quella di non saper riconoscere altre esperienze vitali che la propria: e di ricondurre tutte le altre esperienze vitali ad una sostanziale analogia con la propria. È una vera offesa che egli compie verso gli altri uomini in condizioni sociali e storiche diverse.”(4)
Alfonso Maria Di Nola e Pasolini |
Ben presto, però,
le speranze riposte nel sottoproletariato si rivelarono effimere,
fonte di una angoscia irrimediabile ed espressa con tinte sempre più
fosche. Così “il sogno di una cosa” pasoliniano assume sembianze
indiane, africane e mediorientali. Sono gli anni dell’“Africa
unica alternativa”: grido pronunciato all’inizio degli anni
sessanta e già disperato, lucidamente consapevole di risuonare come
un rimbaudiano canto del cigno di fronte al sempre più disinvolto
processo di omologazione delle menti e dei corpi di cui Pasolini
nelle sue opere seppe dare lungimirante testimonianza. Dall’inizio
degli anni Sessanta, inoltre, Pasolini aveva cominciato a viaggiare
verso i paesi del cosiddetto Terzo Mondo che per un discreto periodo
alimentarono una delle sue stagioni creative più fertili,
coinvolgendo tutti i campi in cui si dispiegava la traboccante
creatività pasoliniana: scritti e inquadrature in cui l’alterità
extraoccidentale è colta e rappresentata nelle sue affinità così
come nelle irriducibili differenze che tale forza incarna rispetto
all’universo culturale domestico; in piena consonanza, peraltro,
con quelli che erano gli insegnamenti e i problemi indagati da quegli
intellettuali, come Ernesto De Martino e Raffaele Pettazzoni che, per
usare una efficace formula coniata più tardi da Pasolini stesso in
una entusiastica recensione dell’opera di Alfonso M. Di Nola,
Antropologia
religiosa,
rappresentavano la via italiana all’antropologia e alla storia
delle religioni:
“[…] si tratta di un vero «Manifesto» che potrebbe aprire, nel nome di De Martino e magari Pettazzoni, la via italiana alla storia delle religioni. Secondo l’autore tale via si configurerebbe in una specie di fusione tra le due scienze distinte costituite appunto dalla storia delle religioni e dell’antropologia: in modo però che l’antropologia abbia una funzione integrante […]”.(5)
Alfonso Maria Di Nola e Pasolini |
In tempi non
sospetti, dunque, e in misura via via crescente, Pasolini assegnò
all’antropologia e alla storia delle religioni quella centralità
la cui mancanza proprio oggi, e in modo sempre più accorato, gli
antropologi lamentano. E così, in quegli anni per lui così densi di
opere e di progetti, tali discipline
guadagnano sempre più spazio nei lavori del poeta e dello scrittore,
così come del regista e del polemista. Si pensi al ruolo che tale
approccio epistemologico riveste nei saggi di linguistica
dell’autore, ai versi scritti in occasione della lavorazione di
pellicole come “Medea”, che è probabilmente il prodotto più
maturo in chiave di dialogo tra grande arte e grande antropologia,
densa com’è di ricercate citazioni tratte dalla grande letteratura
di settore; a film come “Porcile” e “Teorema”; ai grandiosi
progetti incompiuti come “Gli Appunti per un poema del Terzo
Mondo”, alla più tarda e ormai celebre riflessione sulla
“mutazione antropologica” del “Pasolini corsaro”.
Proprio per questo,
sebbene oggi non si fatichi, nemmeno tra gli specialisti del mondo
accademico, ad accettare il coté antropologico del cinema
pasoliniano che è oggetto di ricerche sempre più approfondite e
stimolanti, sarebbe errato e riduttivo ridurre alla sola produzione
cinematografica l’utilizzo di un modus
operandi
che attraversa, come si è accennato sin dalle prime battute,
l’intera produzione dell’autore, come peraltro lucidamente
rilevato da Teresa Biondi in un suo denso contributo, Lo
sguardo antropologico di P. P. Pasolini,
pubblicato nel 2006 in «La rivista del documentario», a. I, n. 4
luglio.(6)
Nella
voluminosissima e multiforme produzione pasoliniana, talvolta si
sarebbe tentati di assegnare all’autore una etichetta che possa in
qualche modo fungere da rassicurante griglia interpretativa in grado
di sistemare organicamente scritti eterogenei e,in qualche caso,
anche distanti esteticamente e concettualmente gli uni dagli altri.
Per tale ragione definire Pasolini antropologo, dopo averlo detto
poeta, regista, scrittore o polemista, potrebbe essere un comodo
escamotage,
un modo per tentare di dare un ordine alle cose e alle carte. Ma
Pasolini non fu, è chiaro, un antropologo; semmai fu anche
antropologo,
oltre che poeta, regista, narratore. Detto in una parola, fu un
intellettuale nel senso sartriano del termine, quindi non un
tuttologo né uno specialista, ma un libero pensatore che nel suo
percorso conoscitivo si avventura anche in territori incogniti;
rischiando di prendere cantonate, forse, ma riuscendo talvolta a
cogliere problemi e questioni che sfuggono agli specialisti, proprio
in virtù di tale indipendenza e libertà.(7)
Ed ecco che allora,
scorrendo ancora un po’ la già citata recensione pasoliniana
all’opera di Alfonso M. Di Nola, si comprende meglio anche il ruolo
che gli studi antropologici possono offrire alla ricerca
intellettuale ed espressiva di Pasolini e più in generale alla
comprensione della realtà, con quest’ultimo che, parafrasando
quanto enunciato dallo studioso in apertura alla sua opera, afferma:
“L’insegnamento antropologico ha aiutato a vincere e a vanificare la grave tara eurocentrica e, nella fattispecie, la «violenza immorale» (in Italia) del neo – idealismo e del crocianesimo, che portano alla negazione della comprensione di ogni uomo (non occidentale) come portatore di diversità e di alienità.”(8)
Alfonso Maria Di Nola e Pasolini |
Quell’alterità
che nell’ottica di Pasolini era invece l’ultimo baluardo eretto
contro l’omologazione e la mercificazione delle vite e della vita.
Un’alterità che è anche quella della Poesia e di ogni grande
poeta in una società che della poesia non sa più che farsene, che
non ne sente il bisogno né la mancanza. Poesia nell’accezione più
alta e nobile del termine e che, probabilmente, così concepita
rappresenta il solo, per quanto fragile, collante in grado di rendere
se non omogeneo certamente coerente l’intero percorso umano e
intellettuale di Pier Paolo Pasolini che, dunque, se in qualche modo
ha contribuito al progresso e alla diffusione degli insegnamenti
antropologici, non poteva che farlo en
poète,
per utilizzare una formula cara all’autore. Accettare che Pasolini
sia stato anche
antropologo
e che lo sia stato coniugando il dato antropologico al processo
poietico, significa allora aprire la strada all’idea che sia
possibile una antropologia poetica della realtà; ipotesi che
certamente farà rabbrividire la quasi totalità degli studiosi
impegnati nella ricerca antropologica e storico religiosa, ma che al
di là della ormai sempre più sterile difesa dei confini
epistemologici della disciplina e degli steccati accademici,
rappresenta forse uno dei molteplici orizzonti d’azione
intellettuale di cui Pier Paolo Pasolini fu tra i precursori.
Ed ecco perché,
nella sua incessante, quasi eroica volontà di comprendere il
mutamento e proprio mentre lamenta la crisi che affliggeva il mondo
intellettuale - preludio dell’odierna eclissi degli intellettuali
dal dibattito politico e culturale, a meno che non si vogliano
considerare tali, figure che hanno più a che fare con
l’avanspettacolo da salotto televisivo o con il chiacchiericcio da
uso compulsivo dei social network- , Pasolini bacchettava i suoi
colleghi per delle lacune evidentemente inaccettabili per chi come
lui aveva deciso di gettare concretamente il suo “corpo nella
lotta”, nello sforzo impari di offrire una concreta alternativa al
decadente spettacolo di un mondo cieco nei confronti di ogni altra
possibilità, che non sia quella borghese, di essere uomini in
società.
Alessandro Barbato
1) Si tratta di un
estratto dalla recensione all’opera dello storico delle religioni
Mircea Eliade Mito e
Realtà, pubblicata
nell’agosto del 1974 su «Tempo», poi in Id., Descrizioni
di descrizioni, oggi
in P. P. Pasolini, Saggi
sulla letteratura e sull’arte,
a cura di W. Siti e S. De Laude con un saggio di C. Segre, Mondadori,
Milano 1999, tomo II, p. 2116.
2) Il riferimento è
alle deliziose prose giovanili racchiuse nel volume, curato da Nico
Naldini, P. P. Pasolini, Un
paese di temporali e di primule,
Guanda, Milano 1993.
3) Coleo
di Samo e Operetta
Marina sono stati
pubblicati, uno dietro l’altro e riuniti con il titolo Frammenti
per un romanzo del Mare,
a cura di Walter Siti in P. P. Pasolini, Romanzi
e Racconti, tomo I
(1946-1961), Mondadori, Milano 1998, pp. 337-420.
4) P.
P. Pasolini, Intervento
sul discorso libero indiretto,
in «Paragone», a. XV, n. 184, giugno 1965, poi in Id., Empirismo
eretico, ora in Id.,
Saggi sulla letteratura
e sull’arte, op.
cit., tomo I, p. 1360.
5) P.
P. Pasolini, Quando il
grande Iddio si mette a ridere (Alfonso M. Di Nola, Antropologia
religiosa – Paul Arnold, Viaggio fra i mistici del Giappone,
in «Tempo», 27 settembre 1974, poi in Id., Descrizioni
di descrizioni, ora in
Id., Saggi sulla
letteratura e sull’arte,
op. cit., tomo II, p. 2135.
6) l
contributo in questione, grazie al prezioso ed erudito lavoro
dell’infaticabile Bruno Esposito, è pubblicato anche qui, sul
Blog, alla data del 6 settembre 2014.
7) Cfr.:
J. P. Sartre, Apologia
degli intellettuali,
1972.
8) P.
P. Pasolini, Saggi
sulla letteratura e sull’arte,
op. cit., tomo II, p. 2135.
Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:
Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi