"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Immagine: 25 gennaio 1975 Fonte: Italian magazine Epoca, N. 1268, year XXVI, p.64 (Questa è una fotografia il cui paese di origine è l'Italia e che è nel pubblico dominio in Italia poiché il suo copyright è scaduto. Secondo la legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni, «il diritto esclusivo sulle fotografie dura vent'anni dalla produzione della fotografia» (articolo 92) ovvero tali fotografie divengono di pubblico dominio a partire dall'inizio dell'anno solare seguente il termine dei vent'anni. In accordo al testo di legge, tali fotografie sono: «immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell'arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche.) |
Pier Paolo Pasolini
"La sua intervista conferma che ci vuole il processo"
Il Mondo, 11 settembre 1975
Signor Presidente, ho letto con molta emozione il resoconto sia pur frammentario e divagante delle sue conversazioni di Ferragosto. Lei vi si esprimeva con l'ansia e il senso di impotenza di un qualsiasi cittadino italiano, la cui visione delle cose non può essere che parziale. Ciò dava nobiltà «democratica» alle sue parole. La rendeva «uno di noi». Ed è questa la ragione per cui le scrivo questa lettera.
Su due punti mi vorrei soffermare. E poi su un terzo.
Il primo punto riguarda la sua frase (polemica verso alcuni grandi Paesi europei), in cui l'Italia viene presentata come un Paese ingiustamente considerato di «serie B». «Non possono esistere Paesi di serie A e Paesi di serie B», lei dice. È vero: non possono, anzi, non dovrebbero esistere. Ma esistono. La realtà è che l'Italia è un Paese di serie B: e ciò risulta inequivocabile proprio dalle sue parole. Che sono parole prudenti, benché sincere. Io che posso permettermi di non essere prudente, le dico anzi che l'Italia è ben peggio che un Paese di serie B. L'espressione calcistica non è che un eufemismo. L'Italia — e non solo l'Italia del Palazzo e del potere — è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue: «contaminazioni» tra Molière e il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti, in folla a Ferragosto. Erano l'immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di raptus: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti. Specialmente i giovani. Tutte quelle sciocche coppie che se ne andavano tenendosi all'infinito strette per mano, con aria di vicendevole, romantica protezione e ispirata certezza del domani.
Sono stati ingannati, beffati. Un rovesciamento improvviso e violento (per quanto riguarda l'Italia) del modo di produzione ha distrutto tutti i loro precedenti valori «particolari» e «reali», cambiando la loro forma e il loro comportamento: e i nuovi valori, puramente pragmatici, esistenziali, del «benessere», hanno tolto loro ogni dignità. Ma non è bastato: dopo essere stati resi mostruosi (marionette guidate da una mano «nuova», e quindi come impazzite), ecco che il benessere, causa della loro mostruosità, viene meno, mentre il ballo delle marionette continua.
Il secondo punto riguarda la sua frase «occorre delineare un'immagine del nostro avvenire, perché su di essa si attesti la fiducia del nostro Paese». Ora, tutto il suo discorso «democraticamente» grigio e volutamente a-ideologico — la chiacchiera «civile» di un qualsiasi cittadino — non prevede la politicizzazione dell'espressione (dunque squisitamente morale) «immagine del nostro avvenire». La prima qualità di ogni scienza è quella di essere profetica. Ogni intervento scientifico, su qualsiasi problema, altro non è che una previsione del futuro. È la politica, nella fattispecie, la scienza che può fornirci una «immagine del nostro avvenire». E, precisamente, è l'economia politica. Ossia in concreto l'esame del nuovo modo di produzione (nuovo, s'intende per l'Italia: Paese che non aveva mai subito alcun processo di unificazione, né attraverso la rivoluzione borghese, né attraverso la rivoluzione industriale) nuovo modo di produzione che non è solo produzione di merce, ma di umanità — come suona appunto la legge elementare dell'economia politica.
Lei crede che la Democrazia cristiana sia in grado, politicamente, di fare una simile previsione, al di fuori del puro pragmatismo (cattolico e quindi cinico) a cui si è finora unicamente affidata? Lo crede veramente?
Ed eccoci al terzo punto. Lei fa dell'Italia, sia pur eufemisticamente (miracolo del linguaggio dei politici!), un quadro apocalittico: nulla, secondo le sue parole, vi funziona, non solo praticamente, ma nemmeno, come dire, spiritualmente.
Tale disperata e degradante situazione del nostro Paese sarà dunque, logicamente, effetto di qualche causa. A meno che non abbia ragione — e forse ha davvero ragione — De Sade quando dice fulmineo che «le cause sono forse inutili agli effetti». Ma se De Sade può essere una tentazione per me letterato, non può esserlo certo per un politico. Andranno dunque ragionevolmente ricercate le cause di quell'effetto che è la disperata e degradante situazione del nostro Paese, che lei così giustamente descrive e lamenta.
Quali sono tali cause?
C'è una prima causa che in realtà riassume tutte le altre cause possibili, ed è l'assoluta, totale mancanza di ogni ideologia che non sia di carattere morale, spirituale, religioso — e cioè verbale — del suo partito, la Democrazia cristiana.
Provo una grande pena (sorella del disprezzo) quando qualche uomo politico democristiano (magari, perché no?, rispettabile: l'ultimo è stato Zaccagnini) tenta di fare come Anteo che recuperava le forze cadendo sulla terra, e cioè si rifà alla tradizione ideologica (?) democristiana, rispolverando con venerazione De Gasperi. Ma De Gasperi politicamente non era nessuno.
Priva di ogni ombra di pensiero politico, la Democrazia cristiana ha governato secondo i modelli pragmatici — e quindi ovviamente mimetici, generici e inerti — del capitalismo occidentale: mescolando diabolicamente tali modelli con quelli spirituali della Chiesa. E ciò per i primi venti anni del regime.
Negli ultimi dieci anni, il «nuovo modo di produzione» ha distrutto nel Paese intorno alla Democrazia cristiana il quadro antropologico clerico-fascista, creandone uno (falsamente) laico e (falsamente) tollerante.
Priva di ogni ombra di pensiero politico, la Democrazia cristiana non se ne è nemmeno accorta, e ha continuato a governare come se il modo di produzione fosse ancora quello dei tempi di Giolitti o di Mussolini. È ciò che ha provocato l'attuale disastro.
I beni superflui possono essere permessi, e concessi, assumendo a contesto, diciamo spirituale, l'Edoné, il Piacere, solo a patto che siano assicurati i beni necessari: case, scuole, ospedali, e tutti gli altri servizi pubblici (cose, queste, che i Paesi di serie A hanno previsto durante la prima rivoluzione industriale, in modo da giungere in qualche modo preparati, alla seconda, assai più «millenaristicamente» importante).
Ma la Democrazia cristiana non è un «segno» astratto, non è il destino.
Più di ogni altro partito — appunto a causa del suo mero pragmatismo o, se si vuole, anche del suo mero moralismo — la Democrazia cristiana è i suoi uomini.
Ma a questo punto, signor Presidente, non posso più rivolgermi direttamente a lei. Lei non può nemmeno sentire o recepire queste parole, poiché sarebbero un attentato alla sua coatta imparzialità. Non voglio trascinarla in una sgradevole polemica, e quindi le proporrei di considerare quest'ultima parte della mia lettera una semplice appendice.
Mi sono molte volte domandato: da dove nasce in un uomo la vocazione a governare? Che modalità ha, che necessità ha, tale vocazione? Assomiglia per caso a quella del recitare, dell'inventare, dello scrivere, del giocare al calcio ecc? Non sono riuscito a darmi alcuna risposta. La vocazione al governare resta, di per sé, un enigma. Almeno per quanto riguarda la mia esperienza pratica e storica in Italia. Ma il governare è un fenomeno strettamente legato, anzi, incorporato, con un altro fenomeno: quello del detenere il potere. A mio avviso, dunque, la pura e semplice vocazione al governare, in Italia, almeno, non esiste: ogni vocazione infatti presuppone una qualità, un talento, senza il quale essa semplicemente non ci sarebbe se non come puro velleitarismo, subito vanificato al primo contatto con la realtà. Una vocazione che invece esiste indubbiamente in Italia, è la vocazione a detenere il potere. Cosa purtroppo resa attendibile e verificabile da tutti i vantaggi che dal detenere il potere derivano (manipolazione di molto denaro; clientele; sicari). Quindi, a quanto pare, in Italia il governare altro non sarebbe che una noiosa, sgradevole incombenza che deve assumersi chi vuole detenere il potere.
Sono illazioni? Forse. Ma non importa. Esse non incidono comunque sostanzialmente nel mio discorso. Anzi: diciamo pure che coloro che ci hanno governato per gli ultimi dieci anni in Italia non hanno affatto considerato il governare una fastidiosa incombenza necessaria a detenere il potere, ma ci hanno al contrario governato per una pura e disinteressata vocazione al governare.
Il governare però implica delle responsabilità, anche nel caso che esso sia puro e disinteressato, e dia dunque a chi governa delle gioie meramente spirituali.
Se chi governa, governa bene, è giusto che sia rimeritato con quelle gioie (e io giungerei al punto di dire che se chi governa, governa bene, pazienza se si concede anche qualche piccola gioia materiale, cioè se ruba). Ma se chi governa, governa male, egli deve saper affrontare o accettar di affrontare le responsabilità che si è assunto.
Se poi il suo governare male giunge al limite del reato — com'è accaduto a Nixon, e, a un livello brado, a Papadopulos — mi sembra giusto che una vera democrazia debba giungere alle estreme conseguenze sia pur formali, cioè al processo. Concetto, questo, che ho già ripetuto più volte («Il Mondo» del 28 agosto 1975 e il «Corriere della Sera» del 24 agosto 1975).
Signor Presidente, dalle sue conversazioni di Ferragosto, risulta estremamente chiaro che, sul piano dei fatti (e Lei stesso pare alluderlo) l'Italia del 1975 è molto simile all'Italia del 1945. È distrutta, e va quindi ricostruita. Poiché in politica non ci sono effetti senza cause, i colpevoli di allora sono andati incontro tragicamente alla loro sorte; hanno pagato tragicamente la loro responsabilità. E, come dice Panagulis, commentando il processo di Atene, ciò è accaduto al momento giusto, guai se fosse accaduto più tardi. Ora io non chiedo tragedie, e non mi importano le punizioni. Ma mi sembra che non si possa delineare una coscienza politica dell'« immagine del nostro avvenire» se non si consolida una coscienza politica scandalosa e fuori da ogni conformismo, di ciò che è stato il recente passato. È solo attraverso il processo dei responsabili che l'Italia può fare il processo a se stessa, e riconoscersi.
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
Molto interessante...
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