"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
«È quasi mezzanotte, al Taj Mahal c'è l'aria di un mercato che chiude. Il grande albergo, uno dei più conosciuti del mondo, forato da una parte all'altra da corridoi e saloni altissimi (pare di girare nell'interno di un enorme strumento musicale) è pieno solo di boys vestiti di bianco, e di portinai col turbante di gala, che aspettano il passaggio di equivoci tassì.»
Nel 1961, in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, Pasolini si reca per la prima volta in India. Le emozioni e le sensazioni provate sono così intense da spingerlo a scrivere queste pagine, un diario di viaggio divenuto un libro di culto. Pasolini si aggira attento nella realtà caotica del subcontinente indiano, osservando i gesti e le movenze della gente, seguendo i colori dei paesaggi e soprattutto l'odore della vita. L'incanto di una terra ammaliante e l'orrore dell'esistenza che vi si conduce ci vengono restituiti dalla sua curiosità sensibile alle condizioni sociali, ma soprattutto con l'originalità della sua visione.
Il 31 dicembre del 1960, in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, Pasolini si reca per la prima volta in India. L’occasione è partecipare ad un convegno per la commemorazione del centenario della nascita di Tagore che si tiene a Mumbay. Nell’arco di sei settimane, Pasolini si aggira attento nella realtà caotica del subcontinente indiano, provando emozioni e sensazioni così intense da essere spinto a scrivere questo diario di viaggio. Con spirito romantico osserva attentamente i gesti e le movenze della gente, gli aspetti della quotidianità, i colori dei paesaggi e soprattutto l’odore della vita, lasciandosi trascinare dall’incanto di una terra affascinante e, nello stesso tempo, dall’orrore di un’esistenza condotta da “quattrocento milioni di anime.”
È un panorama geografico e sociologico tracciato con estrema sensibilità. “La vita in India, ha i caratteri dell’insopportabilità: non si sa come si faccia a resistere mangiando un pugno di riso sporco, bevendo acqua immonda, sotto la minaccia continua del colera, del tifo, del vaiolo, addirittura della peste, dormendo per terra, o in abitazioni atroci”, scrive a proposito delle condizioni di vita degli indiani.
Pasolini, in più di un’occasione, dimostra di non aver paura di confrontarsi direttamente con l’umanità. Quello che cerca è proprio l’ebbrezza dell’ignoto che si può celare dietro un contatto occasionale. Le sue frequenti camminate notturne, per l’appunto, non falliscono mai di procurargli materiale per una entusiastica analisi a caldo e spunti per successive riflessioni sui suoi argomenti preferiti: la cultura, la borghesia, la religione e la morte. Prova subito compassione per l’immensa povertà che ha modo di conoscere. Soccorre un mite ragazzo di nome Revi, (aiutato in questo da Elsa Morante e dalla grande umanità di Father Wilbert), un bambino talmente povero che non c’è quasi niente da sapere.
Covando spesso la speranza di “una passeggiatina per la città”, Pasolini ha così l’occasione di aggirarsi tra la gente, di guardarla da vicino. L’umanità è in un groviglio di corpi, che dormono distesi ai margini delle strade, e risalta per la sua disponibilità, nell’inconfondibile gesto usato dagli indiani per dire di sì: “Basta guardare come dicono di sì. Anziché annuire come noi alzando e abbassando la testa, la scuotono circa come quando noi diciamo di no: ma la differenza del gesto è tuttavia enorme. Il loro no che significa sì consiste in un far ondeggiare il capo […] teneramente: in un gesto insieme dolce: «Povero me, io dico di sì, ma non so se si può fare» , e insieme sbarazzino: «Perché no?» , impaurito: «È così difficile» , e insieme vezzoso: «Sono tutto per te». La testa va su e giù, come leggermente staccata dal collo, e le spalle ondeggiano un po’ anch’esse, con un gesto di giovinetta che vince il pudore, che si erige affettuosa. Viste a distanza le masse indiane si fissano nella memoria, con quel gesto di assentimento, e il sorriso infantile e radioso negli occhi che l’accompagna. La loro religione è in quel gesto.”
La situazione dell’India è incorniciata in un quadro autentico e sincero in cui Pasolini dipinge uno Stato in fase di sviluppo, ma pieno di contraddizioni. Se da un lato, c’è un’umanità ampiamente lontana da quella a cui è abituato l’occidente: “Sono tutti dei mendicanti, o di quelle persone che vivono ai margini di un grande albergo, esperti della sua vita meccanica e segreta: hanno uno straccio bianco che gli avvolge i fianchi, un altro straccio sulle spalle, e, qualcuno, un altro straccio intorno al capo: sono quasi tutti neri di pelle, come negri, alcuni nerissimi.” Dall’altro, la condizione della borghesia indiana, disperatamente chiusa nel rigido sistema delle caste, è un vero invito a riflettere: “l’assenza di ogni attendibile speranza fa sì che i borghesi indiani, si chiudano in quel po’ di certo che possiedono: la famiglia. Vi si chiudono per non vedere e per non esser visti.”
L’India di Pasolini è anche, e soprattutto, un paese tedioso e iterativo: “È vero che geograficamente, razzialmente, architettonicamente, in India c’è una uniformità che non ha nulla da invidiare a quella della Francia o dell’Olanda: una uniformità che rasenta addirittura l’ossessione e la monotonia.” È un subcontinente che si snoda in una lunga sequenza: “gli stagni, i villaggi, la giungla, le coltivazioni di miglio, le file di carretti coi bufali, gli stagni, i villaggi…”, una monotonia nella quale i monumenti marmorei si stagliano come corpi estranei.
Sul Terzo Mondo c’è una certa divergenza tra Pasolini e Moravia. Mentre il primo sostiene che è stato rovinato dalla rivoluzione industriale e dal consumismo, Moravia (autore, a sua volta, di un reportage dal titolo “Un’idea dell’India”) pensa che il Terzo Mondo è destinato a scomparire non essendo, per l’appunto, abbastanza industrializzato e consumistico. In realtà Pasolini, in occasione del viaggio indiano, non manca mai di mostrare la sua naturale sentimentalità. Il suo punto di vista eclettico, d’artista, descrive Moravia come un viaggiatore all’inglese, non terzomondista e distaccato, che mantiene la dovuta distanza dal mondo che osserva.
Ne “L’Esperienza dell’India” – l’intervista finale del libro – Renzo Paris interrogando Alberto Moravia, proprio a proposito del viaggio compiuto insieme a Pasolini, non manca di notare: “Curiosamente L’odore dell’India è povero di odori; mi sembra invece molto visivo. Vi predomina l’occhio smagato del regista di Accattone. Per Pasolini l’India è carica di potenza espressiva e il viaggiatore si trova in uno stato di eccitazione continua, dinanzi a un mondo totalmente vergine.”
Nel suo lungo soggiorno in India, Pasolini in diverse occasioni osserva non solo le abitudini della gente, ma soprattutto sente l’odore della vita – un odore reale, e non solo metaforico: “È quell’odore, che, diventato un po’ alla volta una entità fisica quasi animata, sembra interrompere il corso normale della vita nei corpi degli indiani. Il suo alito, colpendo quei poveri corpicini coperti di leggera e sudicia tela, sembra come corroderli, impedendogli di crescere, di arrivare a una compiutezza umana.”
Fonte:
http://www.raccontopostmoderno.com/2013/06/odore-india-pasolini-recensione/
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