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giovedì 18 aprile 2013

Seminario 1999: lettura del film "Il Vangelo secondo Matteo"

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Seminario 1999: lettura del film "Il Vangelo secondo Matteo"

Di Massimo Calanca e Giuliana Montesanto

L’intensità e la profondità dell’emozione con cui Pasolini affronta il mito cristiano del Dio che si fa uomo per riscattare il male del mondo, appare evidente fin dalle prime note che accompagnano i titoli di testa del film...
La spiritualità dell’uomo può riscattare il dolore e trasformare la storia?"E’ un’opera di poesia che voglio fare. Non un’opera religiosa…né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa e ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico "poesia": strumento per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo…".(P. P. Pasolini).
L’intensità e la profondità dell’emozione con cui Pasolini affronta il mito cristiano del Dio che si fa uomo per riscattare il male del mondo, appare evidente fin dalle prime note che accompagnano i titoli di testa del film. Al di là di ogni volontà di contaminazione linguistica e di estrema libertà espressiva (su cui torneremo più avanti), la Missa Luba congolese e La Passione di Bach esprimono da un lato l’adesione emotiva del poeta al tema che si accinge a trattare e, dall’altro, la sua lettura universale del mito cristiano, che va al di là dello spazio e del tempo della storia. Ed esprimono anche il tentativo di comporre, nella ricostruzione fedele della vicenda di Cristo, le due anime del mondo poetico ed esistenziale pasoliniano: quella primitiva, corporea, irrazionale e istintiva, e quella colta, razionale, raffinata, intellettuale. Due anime che difficilmente il poeta è riuscito ad armonizzare nella sua esperienza esistenziale ed artistica.
La intensità dei sentimenti dell’autore e la profondità del suo approccio al testo evangelico e al mito cristiano si manifestano con forza ancora maggiore nelle prime immagini del film.
Gli sguardi di Maria e di Giuseppe esprimono un insieme di emozioni impossibili da descrivere con le parole, neanche con quelle di un poeta. Stupore, mistero, gioia, umiltà, pienezza, turbamento, pudore; e dolore, delusione, incredulità, esclusione, abbandono: sono solo un elenco incompleto dei sentimenti che abitano i volti, gli sguardi ed i corpi della fanciulla e dell’uomo. Il tutto in un silenzio carico di attesa, contrappunto della musica iniziale, che sospende le sequenze nel vuoto e le rende allo stesso tempo realissime e fuori della storia.
La vicenda immortale di Cristo inizia così in un modo profondamente umano e terreno, calata in un mondo poverissimo e nel paesaggio riarso e sgretolato del meridione d’Italia. L’impatto ha una forza di suggestione di rara efficacia.
La contaminazione degli stili, dei luoghi, dei costumi, della struttura delle immagini e della musica che le accompagna, dello stesso linguaggio cinematografico, che alterna i primi piani frontali dello stile "sacrale" di Pasolini dei primi film "romani" alle panoramiche incerte e ai campi lunghi e lunghissimi e alle facce "rubate" tra la folla; anziché una confusa disomogeneità, crea una sensazione di verità, di immediatezza e purezza originaria e insieme di sacralità, con un potere evocativo non comune.
Il linguaggio cinematografico è diverso da quello usato in Accattone e Mamma Roma. Lì i primi piani frontali, la mancanza di raccordi sugli sguardi, i forti contrasti di luce, le inquadrature che ricordano Dreyer, Ejzenstein e l’espressionismo del muto, erano non solo il modo di "reiventare" il cinema da parte di un poeta che non ne conosceva la tecnica, ma soprattutto una modalità espressiva che tendeva a sacralizzare le immagini di un mondo emarginato dalla storia.
Qui, dopo le prime inquadrature frontali che richiamano quelle dei primi film e nello stesso tempo la cultura iconografica e i gusti pittorici dell’autore, lo stile cambia, la tecnica diviene "magmatica", i contrasti si fanno meno intensi, aumentano i campi lunghi e lunghissimi, la macchina da presa si muove in modo del tutto nuovo tra la folla, sui volti, sul paesaggio, con un risultato espressivo di grande intensità. Si ha la sensazione che il Vangelo, spesso così lontano dalla nostra sensibilità moderna e forse impoverito da troppe letture stereotipate, assuma una nuova vitalità e torni a ripetersi davanti ai nostri occhi in tutta la sua più autentica sacralità.
Ma cos’è che rende così potente la rappresentazione pasoliniana del Vangelo? Cosa costituisce l’ispirazione così autentica del poeta?
Sono state spese molte parole per rispondere a queste domande, e altrettante per confutarne la fondatezza; e molte delle une e delle altre contengono elementi di verità, anche se spesso sembrano contraddirsi fra loro. E questo perché Pasolini è un artista dalla personalità complessa e fortemente contraddittoria, la cui produzione poliedrica (poesia, romanzo, critica, giornalismo, cinema, pittura), forse più ancora di quanto ciò non sia naturale per l’arte, è semanticamente sovradeterminata, cioè carica di una pluralità di significati, tendenzialmente infinita come quella attribuita ai sogni da Freud.
Allora può essere utile anche un taglio e un approccio diverso, che non pretenda l’esaustività, ma al contrario espliciti la propria parzialità; e che nello stesso tempo si proponga come unitario.
La risposta che noi diamo a quelle domande risiede nella particolare e felice identificazione che Pasolini realizza in questo film con la figura del Cristo. Questa identificazione è stata più volte sottolineata, anche sulla base dei numerosi riferimenti alla figura del Cristo presenti nell’opera pasoliniana. Ma secondo noi nel Vangelo c’è una immedesimazione particolarmente felice, più feconda e risolta di quella già presente in altre opere, fin dalle prime "Poesie a Casarsa" e da "L’usignolo della Chiesa cattolica". Anche in esse la figura del Cristo era stato oggetto di identificazione, "un modello del soggetto", ma esprimeva anche la "degradazione dell’Eden" vagheggiato dal giovane poeta, e "l’emersione negativa del dolore"; "il tema del martirio coniugava il modello cristiano della crocifissione con il modello narcisistico della morte subita con compiacimento erotico estremo".
Nel Vangelo tutto questo non c’è. Le nostalgie edeniche sono lontane, così come lontano è ogni compiacimento narcisistico, erotico o meno che sia.
C’è una forte e profonda identificazione positiva con Cristo, con la sua "umanità così alta, rigorosa, ideale" che lo rende divino, e con la sua "bellezza morale non mediata, … ma immediata, allo stato puro", che rappresenta una grande ed autentica aspirazione del poeta Pasolini.
E tutto questo appare già dalle prime sequenze di cui abbiamo parlato, in cui la rigorosa traduzione in immagini delle parole dell’evangelista diventa subito una metafora del mistero dell’origine della vita, di quella dell’uomo in generale e del poeta Pasolini in particolare, la cui nascita viene a mutare profondamente e irreversibilmente l’equilibrio della coppia dei genitori. La venuta al mondo di Cristo, come quella del poeta e, forse, dell’uomo, è vissuta qui come il compimento di un progetto misterioso della vita, che precede e va oltre l’immanenza del presente storico e lo trascende, e che ha bisogno della rivelazione dell’angelo per potere essere, se non compreso, accettato.
E’ lo stesso Pasolini che dichiara apertamente questa sua immedesimazione con il Cristo, e non tanto nelle sue riflessioni e nei suoi appunti sul Vangelo, quanto nella stessa scelta degli interpreti, mescolando ai volti intensi degli uomini e delle donne del sud quelli degli amici più cari, di poeti e intellettuali a lui vicini e, in modo particolare, identificando il volto di Maria adulta con quello di sua madre.
Ogni opera d’arte esprime in qualche modo la vita e la personalità dell’autore, ma in Pasolini questa corrispondenza è maggiore, a volte programmatica, totale. "La ragione fondamentale del suo passaggio dalla letteratura al cinema era d’altra parte indicata da Pasolini stesso nella necessità di essere sempre fisicamente presente dentro il proprio operare artistico". E’ il poeta stesso ad affermarlo: "Ho detto che faccio il cinema per vivere secondo la mia filosofia, cioè la voglia di vivere fisicamente sempre al livello della realtà, senza l’interruzione magico-simbolica dei segni linguistici". "In Pasolini, col crescere della sua opera, l’autore è sempre nel quadro; e non come l’intruso preoccupato di non far notare la sua presenza, bensì come protagonista corporeo, scrivente-scritto e quasi toccabile se la pagina fosse a tre dimensioni". E’ questo intreccio profondo e costante tra arte e vita, e non tanto il suo impegno politico, che fa di lui anche un poeta civile. Quando questo intreccio si indebolisce, viene meno lo stesso scambio dialettico e il reciproco rafforzarsi di "passione e ideologia", l’arte di Pasolini si impoverisce ed emergono, a volte, i limiti di una certa aridità intellettualistica, di una qualche freddezza formalistica ed estetizzante, di una eccessiva volontà scandalistica di sapore decadente.
Ma il Gesù di Pasolini vive in pieno la forza di questa immedesimazione, di questo stretto rapporto tra arte e vita, tra passione e ideologia, che rinnova la vitalità del suo mito e anima questo Vangelo cinematografico di un’energia tutta particolare, che ha fatto gridare contemporaneamente al miracolo e allo scandalo. Ne sono un ulteriore esempio le scelte che il regista compie, pur in un quadro di rigorosa trasposizione del testo di Matteo. Egli trascura quasi completamente le parti che riguardano la visione escatologica di Cristo e rappresenta soltanto alcuni dei miracoli raccontati dall’evangelista, quelli del lebbroso e dello storpio, che riguardano il superamento di una mostruosità e la riconquista di una dimensione pienamente umana, e quello della moltiplicazione del pane e dei pesci, per sfamare la massa dei poveri e dei diseredati che lo segue. E, nello stesso tempo, si sofferma molto più a lungo sulle parti che riguardano la predicazione del Cristo contro il potere costituito, i Farisei ipocriti, e le sue affermazioni morali contro la società e i costumi del tempo. Fino al lunghissimo discorso della montagna, in cui l’autore sceglie di eliminare quasi ogni elemento paesaggistico e di contesto, giocando solo su primi e primissimi piani realizzati in studio e sui cambiamenti di luce sul volto di Cristo, per concentrare l’attenzione sulle sue parole, sul suo messaggio culturale e spirituale profondamente rivoluzionario.
Forse il Vangelo è l’opera di Pasolini in cui questa immedesimazione totale si esprime in maniera più convincente.
E’ difficile da accettare e da comprendere il paradosso di un marxista dichiarato, di un ateo, di un uomo dalla vita "scandalosa", il quale si identifica perfettamente nel mito dell’uomo-Dio, che è il fondamento della spiritualità occidentale, in modo tanto convincente da ricevere per la sua opera - particolarmente in campo cattolico, ma non solo - riconoscimenti mai attribuiti ad analoghe e più tradizionali esperienze di trasposizione cinematografica del Vangelo.
Ma non è uno straordinario paradosso la stessa figura di Cristo, che partecipa contemporaneamente e totalmente della natura umana e divina? Che esalta gli umili e gli esclusi ed umilia i potenti? Che scandalizza il perbenismo ipocrita dei sacerdoti e dei Farisei e sconvolge le regole sociali del potere costituito? Che capovolge le emozioni primordiali dell’odio e della vendetta negli "inumani" sentimenti dell’amore e del perdono? Che propone una rivoluzione totale dei rapporti umani e della storia, perché non è "venuto a portare la pace ma la spada"? E che va consapevolmente incontro alla morte per risorgere poi ad una nuova vita? Pasolini sente un’analogia profonda tra questo paradosso e quello che egli vive come poeta e come uomo del suo tempo. Egli si sente come una specie di centauro, metà uomo e metà animale, metà spirito e metà corpo, che si dilania nelle sue contraddizioni, ma avverte che esse sono insieme una condanna e un dono, una dolorosa fonte di conflitto, ma anche forse l’opportunità di un messaggio di cambiamento per il mondo.
Come uomo egli vive il paradosso di un "feto adulto", che porta impressa nella carne e nello spirito la contraddizione tra la nostalgia del mondo ancestrale materno, del paradiso (ma anche dell’inferno) dell’utero, della pienezza della vita prima della nascita, dell’onnipotenza e dell’unità con "il tutto", propria della fusione simbiotica con la madre, da un lato; e , dall’altro, la spinta all’individuazione, alla nascita psicologica, alla costruzione dell’io, all’affermazione della propria individualità e unicità.
Come poeta egli sperimenta il paradosso di un "percorso della costruzione del soggetto, dalle Madri fino alla nuova distanza della verbalità", dall’oralità "prelinguistica" del dialetto friulano fino alla conquista piena della parola, con cui egli intende operare nel mondo; percorso che contemporaneamente si trasforma in una delusione dolorosa per le conseguenze della parola conquistata , cioè "la distruzione dell’immaginario", "l’orrore e l’impotenza del simbolico rispetto al reale".
La forza particolare dell’erotismo e della sensualità omosessuale di Pasolini, vissuti nello stesso tempo come un dono e una condanna alla solitudine e alla diversità, si intrecciano al suo disperato amore per la vita (che è nello stesso tempo amore disperato per la madre e per se stesso). Disperato perché, come Narciso con la propria immagine, avverte l’ineluttabilità della morte nell’atto di possedere la vita, insieme al desiderio di "raggiungerla nella sua completezza", di appropriarsene, di "viverla nell’atto di ricrearla", che è all’origine delle sue emozioni ed intuizione estetiche, come pure - attraverso la mediazione di un’ideologia marxista mai pienamente digerita - della sua passione civile.
Pasolini, come poeta e come uomo, è un nodo vivente di contraddizioni, che continuamente oscillano tra un estremo e l’altro del conflitto, e che costantemente si ripropongono a nuovi livelli, in una ricerca di equilibrio spesso frustrata, che trova soltanto in alcuni episodi felici di creatività artistica la propria momentanea soluzione.
Uno di questi episodi, forse tra i più felici, è proprio il Vangelo secondo Matteo. Non lo erano stati altrettanto passaggi anche molto importanti della vita creativa di Pasolini. Né i romanzi romani, oscillanti tra la vitalistica disperazione di "Ragazzi di vita" e la troppo ideologica speranza di "Una vita violenta"; né Accattone, sorprendente per alcune intuizioni visive e il contrappunto musicale che le accompagna, ma oscillante di nuovo sul versante del primo romanzo; né Mamma Roma, vicino invece al secondo romanzo, ma senza più neanche la speranza, per quanto un po’ retorica, dell’ideologia. E neanche il breve film La ricotta, pur tra i più maturi e riusciti del regista, come quasi unanimemente riconosciuto. Qui l’equilibrio tra gli opposti è risolto attraverso la rappresentazione del loro conflitto, che è quello vissuto dall’autore. Pasolini mette in scena cioè il proprio paradosso personale attraverso la doppia identificazione, con il regista-intellettuale (Orson Welles) e con Stracci, il povero cristo "morto di fame", che muore di indigestione sulla croce. E’ la stessa struttura del racconto che crea questo equilibrio: il film nel film e la vita-morte dell’escluso che si introduce nella finzione e le da un senso; la passione autentica, tutta umana, di Stracci che si intreccia con la passione manieristica e spettacolare dell’arte e rifonda l’attualità del Cristo, del suo mito strumentalizzato dal potere. La sintesi degli opposti è raggiunta cioè a livello estetico e formale, ma non sul piano esistenziale. E’ la denuncia efficace di una distanza incolmabile, di una scissione interna alla società e alla storia - e alla stessa persona di Pasolini - senza alcun accenno di speranza alla possibilità di una soluzione. In altre opere, sia di poesia e letteratura che di cinema, questa sintesi di opposti è raggiunta in singoli frammenti, brani, immagini, attraverso quella figura retorica che consiste nell’esprimere allo stesso tempo due contrari: la sineciosi, di cui hanno parlato, in particolare, per la letteratura di Pasolini Franco Fortini e per il cinema Lino Micciché.
Nel Vangelo secondo Matteo, invece, non c’è bisogno di nessun ossimoro, di alcuna sineciosi, perché gli opposti convivono perfettamente nella stessa figura di Cristo e nell’intera sua vicenda; e l’identificazione del poeta realizza la loro sintesi, non solo sul piano estetico ma anche su quello esistenziale. Il Cristo del Vangelo pasoliniano realizza l’aspirazione del poeta ad esprimersi secondo verità, a unificare etica, estetica e vita, a battersi con la sua stessa esistenza per una rivoluzione profonda delle coscienze e della cultura, a riscattare il proprio dolore, e insieme quello degli altri diseredati della terra, trasformandolo in scandalo per il potere e in una forza spirituale capace di cambiare la storia.
Il senso della morte, che percorre tutta l’opera di Pasolini - tanto da essere stato indicato come "la vera Grundform" del suo mondo petico, "la costante primaria, il dato istituzionale, la dimensione esistenziale, il momento preideologico" - è ovviamente presente anche in questo film, ma in termini assai diversi da quello di una "vita morente", di una "morte prolungata dai sussulti di una disperata vitalità", che prevalgono in tutta la sua opera. Nel percorso che va dal tentativo di uscire, attraverso la poesia, dalla vita-morte della fusione simbiotica con la Madre, alla conquista dell’identità individuale, per tornare a concludersi "con l’identificazione di Eros e Thanatos, cioè con (l’inconscio?) punto di partenza", il Vangelo secondo Matteo rappresenta un passaggio culminante, il momento di maggiore equilibrio, di sintesi più felice e risolta, dopo il quale la parabola inizierà di nuovo la sua fase discendente. Anche qui la morte assume "i connotati di una violenza data e subita", ma non si mescola a quel "compiacimento erotico estremo" - a volte regressivo fino all’oralità e al "divoramento attivo e passivo" delle prime emozioni estetiche del poeta, rielaborate ideologicamente in Porcile - che sfocia nel sadomasochismo assoluto di Salò e riecheggia nella stessa tremenda fine dell’autore all’idroscalo di Fiumicino.
L’angoscia e la solitudine della morte è mostrata con umanissima partecipazione nella sequenza della preghiera di Gesù nell’orto degli ulivi, sottolineata da movimenti di macchina a tratti rapidi e confusi, che interrompono il ritmo di primi piani di particolare intensità. Nelle sequenze dell’ascesa al Calvario e della crocifissione, c’è un rispetto rigoroso per il dolore di Cristo, un pudore per la nudità del suo corpo e per lo strazio silenzioso di Maria, che raramente si ritrovano in altre opere di Pasolini. La morte di Cristo porta con sé tutto il dolore e la paura umana possibili, e nello stesso tempo la prospettiva del loro superamento.
La morte qui, come altrove, "compie un fulmineo montaggio della … vita", dando ad essa pienamente un senso; ma c’è di più. La morte costituisce una tale necessità intrinseca alla vicenda di Cristo da essere al centro di profezie millenarie e costantemente annunciata da lui stesso. E ciò rende la storia di Cristo, al di là dei suoi contenuti religiosi, una metafora della condizione umana, del paradosso di un essere vivente condannato a conquistare, insieme alla propria identità, la consapevolezza della propria morte; e nello stesso tempo capace di crearsi, attraverso il mito e l’arte, la speranza di vincerne l’ineluttabilità. E il passaggio di Cristo attraverso la morte per riscattare il male del mondo, insieme alla sua resurrezione, non solo danno un senso al dolore umano, perché necessario alla conquista di una superiore spiritualità, ma aprono anche l’uomo alla speranza rispondendo al suo desiderio di immortalità. Pasolini non crede a tutto questo, come non crede alla divinità di Cristo, ma è irrazionalmente conquistato dalla forza di suggestione del mito, che da un senso alle sue contraddizioni di uomo e di poeta. E’ un momento felice di ispirazione che non potrà durare a lungo, perché la contraddizione "costitutiva" di Pasolini tornerà presto a manifestarsi e l’accento si sposterà - attraverso altri passaggi esistenziali e altre ricerche in universi mitici diversi - sempre più sul versante del disincanto, se non della disperazione.
E forse non poteva essere diversamente, sia perché le contraddizioni del poeta non potevano trovare una soluzione stabile soltanto sul piano irrazionale; sia perché, a ben vedere, rimaneva in quella felice identificazione più di un elemento di oscurità: in particolare in quegli aspetti di espiazione e di sacrificio presenti nel mito cristiano, che erano entrati fin dall’infanzia in risonanza con i contenuti autopunitivi e autodistruttivi rimasti perennemente irrisolti nella personalità del "feto adulto" Pasolini.
La tormentata ricerca esistenziale, etica ed estetica di questo grande poeta ed artista rimane uno stimolo costante a non acquietarci, a non accontentarci dei luoghi comuni del perbenismo benpensante, a ricercare continuamente, anche attraverso lo scandalo della nostra irrinunciabile diversità, nuovi equilibri nel rapporto con gli altri, la società e la storia.
Tra le sue opere, che costituiscono un patrimonio di creatività artistica tra i più importanti del Novecento, il Vangelo secondo Matteo assume anche il significato di un tentativo di rinnovamento e di attualizzazione del mito, e di una sollecitazione alla ricerca di nuovi valori, di nuovi miti, di una spiritualità umana capace di dare un senso al dolore del mondo e di trasformare profondamente la cultura e la storia.
Fonte:
http://www.cinemavvenire.it/seminari/seminario-1999-lettura-del-film-il-vangelo-secondo-matteo/il-vangelo-secondo-matteo


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Curatore, Bruno Esposito

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