Sono morto da poco. Il mio corpo
penzola a una corda, stranamente vestito.
Sono dunque appena risuonate qui le mie ultime parole,
ossia: “C’è stato finalmente uno che ha fatto buon uso della morte”.
(Orgia, P. P. Pasolini, 1968)
Era il 2 novembre del 1975. Quarant’anni che Pier Paolo Pasolini ci ha lasciato.
Klp vuole ricordare oggi la figura e il pensiero di questo grande intellettuale e poeta attraverso un’intervista a Stefano Casi, il maggior conoscitore del teatro pasoliniano.
Stefano, che posto occupa il teatro all’interno della cospicua produzione di Pasolini?
E come si collega il teatro al resto della sua opera (cinematografica, poetica, saggistica ma anche narrativa)?
Quali sono le caratteristiche peculiari del teatro di Pasolini?
La scrittura teatrale, e più in generale un impegno che a tratti si allarga anche alla recitazione e alla regia, attraversa l’intera vita di Pasolini: la prima opera in assoluto che lui fece ‘uscire’ pubblicamente dalle carte della sua adolescenza fu il dramma “La sua gloria”, a 16 anni, per partecipare a un concorso (e vincerlo), anni prima della seconda ‘uscita’ pubblica di “Poesie a Casarsa”; mentre una delle ultime opere interrotte dalla morte fu la tragedia “Bestia da stile”. Questo indica come il teatro abbia percorso praticamente l’intera vita, sia pure in modo carsico.
A livello drammaturgico le sue 15 opere teatrali (senza contare la traduzione-riscrittura di testi teatrali greci e latini) rappresentano certamente una parte esigua rispetto ad un corpus debordante in altri campi, ma la loro importanza è comunque strategica se si vuole avere una visione più chiara di Pasolini e se se ne vogliono comprendere la poetica, il pensiero, le scelte.
Ci sono soprattutto due nuclei principali di impegno nel teatro: quello del Pasolini ventenne, che nella comunità di Casarsa utilizza lo spettacolo (anche con un importante affondo nel teatro fatto con i bambini, con lo spettacolo “I fanciulli e gli elfi”) per rafforzare il sentimento identitario e critico di quella società omogenea; e quello tra il 1965 e il 1968, in cui Pasolini dapprima si avvicina con attenzione critica alle questioni sollevate all’interno del mondo teatrale in crisi, poi inizia a scrivere le sue tragedie borghesi, e infine licenzia una sua teoria provocatoria (attraverso il Manifesto per un nuovo teatro) e uno spettacolo con la sua regia, “Orgia”.
La questione del rapporto con gli altri mezzi espressivi si pone sempre con Pasolini: impossibile pensare ad approcci “di settore”, perché il suo corpus è costituito da una fitta rete di intrecci tra opere di àmbiti diversi. Pasolini non appartiene a nessuno dei linguaggi che lui usa, perché ciascun linguaggio è usato in funzione di una attitudine che li sovrasta tutti: la necessità di esprimere con la maggior efficacia la sua analisi della società. E quindi, possiamo anche dire che quello di Pasolini è un discorso unico e unitario che si avvale di volta in volta di mezzi espressivi diversi, i quali giocoforza dialogano tra loro in assoluta libertà.
Quali sono le caratteristiche peculiari del teatro di Pasolini?
Il libro che ho pubblicato dieci anni fa si intitolava “I teatri di Pasolini”: per rispondere ho bisogno di partire da quel titolo, perché nel caso di Pasolini, al contrario di molti altri autori, dobbiamo rivolgerci ai suoi teatri riconoscendone la pluralità.
Pasolini ha attraversato il teatro in pressoché tutta la sua vita, cambiando di volta in volta l’approccio. C’è stato il periodo del teatro legato alla comunità, c’è stato un periodo più intimista, c’è stato il momento umoristico-cabarettistico, e infine quello tragico: e questi sono, diciamo così, i macro-periodi, all’interno dei quali ribolle un pensiero e una pratica tutt’altro che uniformi e omogenei. E ancora: c’è il teatro scritto, che è una cosa, c’è quello teorizzato, che – anche lì – ha significato l’attraversamento di diverse concezioni, e infine c’è il teatro praticato, come nell’allestimento di “Orgia” del ’68.
Se vogliamo individuare un minimo comune denominatore, direi che la centralità della parola, intesa come verbo, cioè nella sua densità quasi sacrale di senso, è la vera caratteristica peculiare dei teatri di Pasolini, che poi si esprime in modi diversi, fino all’apice della scrittura tragica in versi.
A questo si aggiunge il riconoscimento di un valore del tutto speciale nel rapporto tra l’attore e lo spettatore: anche nel teatro, come negli altri linguaggi frequentati, Pasolini non si guarda mai l’ombelico, ma concepisce ogni azione poetica e ogni intervento avendo ben presente l’interlocutore. Qui si respira l’ossessione dello spettatore, sulla cui ricezione (da condizionare) si calibrano il testo e lo spettacolo. Mentre all’attore richiede una responsabilità non solo tecnica, ma anche intellettuale rispetto a ciò che deve interpretare.
Un ultimo punto che trovo sostanziale in tutti i teatri di Pasolini è la saldatura inestricabile tra discorso razionale (e quindi di critica sociale e politica) e abisso dell’indicibile: sbaglia chi si limita a leggere le opere teatrali di Pasolini (in particolare le tragedie) come testi puramente razionali e politici, perché dimentica il grondare di sangue e sesso, la visionarietà, il reticolato di turbamenti e presagi, insomma tutto ciò che fa riferimento a un lato oscuro, che è perfettamente saldato al resto. Diciamo che la chiarezza analitica di certi dialoghi o monologhi non potrebbe sussistere senza gli sconvolgimenti dell’oscenità che la sorreggono, e viceversa: in questo, Pasolini riesce a smarcarsi in un colpo solo dalla pura visionarietà di certo teatro (Carmelo Bene, per esempio) e dalla pura politicizzazione di altro teatro, creando una forma basata su questa combinazione anomala, che percorre un po’ tutta la sua produzione drammaturgica.
Il suo teatro è stato tacciato di letterarietà: secondo te è vero? Dove stanno invece le sue caratteristiche più teatrali?
Ha ancora senso mettere in scena oggi il suo teatro di parola?
Sì, purtroppo tutto questo nasce in buona sostanza da un errore filologico in occasione della prima pubblicazione delle sue tragedie post mortem, quando il curatore le presentò portando a testimonianza un’intervista di Pasolini, che ne dichiarava, appunto, la sostanziale letterarietà e non teatralità.
Peccato che non ci si accorse che quell’intervista risaliva agli ultimi anni, dopo il distacco dal teatro, dopo che Pasolini, sentitosi respinto dal teatro nel quale aveva cercato di entrare per dire la sua, aveva esibito un disinteresse assoluto: detta un po’ sbrigativamente, come la volpe e l’uva di Esopo…
In realtà, nel momento del suo maggior impegno di scritture delle tragedie, le interviste facevano trapelare ben altro, e cioè la volontà di scrivere qualcosa di assolutamente teatrale e addirittura di fondare una compagnia teatrale che lavorasse sulla ricerca secondo le sue ipotesi di lavoro pratico. Così, per molti anni si è continuato a dire che il suo teatro è letterario “come diceva lui stesso”, senza preoccuparsi di leggerlo davvero.
Del resto, gli allestimenti mostrano una oggettiva teatralità. Dopodiché dovremmo accordarci su cosa significhi “teatralità”: se si pensa che sia “teatrale” solo ciò che ha dialoghi veloci o che richiede agli attori una fisicità vivace, beh, allora significa avere un approccio ideologico al teatro, non saperne riconoscere tutte le potenzialità e tagliare via una grande fetta dalla storia del teatro… Di teatrale nelle tragedie di Pasolini c’è la parola stessa, che ha una temperatura straordinaria nel momento in cui viene recitata e incarnata in scena, e che si innesta nel grande filone del teatro di poesia del ‘900, da Eliot a Weiss per fare i primi due esempi che mi vengono in mente (non a caso: Pasolini li aveva ben presenti nel momento in cui scriveva le sue tragedie).
E’ una parola densa e complessa, che richiede un lavoro importante da parte dell’attore, sia per la sua interpretazione che per il rapporto che deve avere con il corpo. E’ una parola che condiziona il corpo, la scena e l’azione: nel testo stesso sono racchiusi elementi fortemente fisici, che artisti senza il pregiudizio della letterarietà sono tranquillamente in grado di cogliere.
Ha ancora senso mettere in scena oggi il suo teatro di parola?
Certo, ha senso come ha senso ritornare ancora su Pasolini a 40 anni dalla morte, continuare a interrogarlo per riuscire a fare luce sui tempi che viviamo, ma anche per lasciarsi attraversare da una poesia senza tempo. Dunque, anche il teatro di Pasolini ha senso, ma questo dipende da chi lo mette in scena.
Sono un po’ scettico rispetto alle messe in scena che legano le sue tragedie alla sua persona, facendo operazioni di rievocazione che rischiano di essere aride. Ma se c’è chi riesce a coglierne gli aspetti più fecondi per la nostra contemporaneità, credo che abbia senso e anzi sia anche doveroso. Inoltre, le sue tragedie borghesi ci aiutano a recuperare quel senso quasi perduto di rito sacro (in senso non religioso) del teatro, in cui una comunità si ritrova per inorridire e riflettere al tempo stesso. E questo è forse l’aspetto più intrigante e che attende ancora di essere recuperato appieno.
E’ vero che è uno degli autori teatrali italiani più rappresentati?
Non so se sia tra i più rappresentati, nel senso che le sue opere hanno in effetti una discreta fortuna, che però non so confrontare con altri autori. Però è vero che Pasolini è sicuramente il più presente sulle scene, perché molti spettacoli, senza essere allestimenti di sue opere teatrali, si rifanno alla sua figura o ad altre sue opere non teatrali.
Quali sono, secondo te, le sue opere più fervide?
Mi è un po’ difficile rispondere su questo, non riesco a fare classifiche. Un po’ tutte le tragedie hanno una capacità di individuare una questione e di trattarla con una folgorazione da lasciare attoniti. La metamorfosi del potere in “Calderón”, la dialettica generazionale in “Affabulazione”, la questione della responsabilità nei processi industriali in “Porcile”, l’affresco storico delle mutazioni sociali italiane in “Pilade”, l’impasse della classe borghese in “Orgia” e l’interrogazione sulla figura dell’intellettuale in “Bestia da stile” si incarnano nelle rispettive opere in storie da brividi, supportate da una tensione poetica che ondeggia tra poesia civile e lirica, con grande efficacia.
Personalmente sono molto affascinato anche da un dramma precedente, “Nel ’46!”, che nella sua confusionarietà ci regala visioni e inquietudini davvero sconvolgenti: il finale del protagonista sepolto vivo in mezzo a una sorta di Giudizio universale bizantino mentre la madre fa la parodia di un’aria da melodramma credo sia una delle scene teatrali di Pasolini potenzialmente più strabilianti a livello spettacolare. Così come trovo altrettanto affascinante il dramma in friulano “I Turcs tal Friúl”, che con una compattezza drammaturgica davvero notevole ci porta a interrogarci sulla responsabilità individuale, e non solo.
Il corpo di Pasolini attraversa tutta la sua poetica?Tra le sue messe in scena quali ti hanno più interessato?
Non ho uno sguardo complessivo sugli allestimenti e quindi rischio di essere molto parziale.
Ci sono messe in scena sicuramente stimolanti, come quella ormai storica del “Calderón” di Luca Ronconi, che trasferisce i versi di Pasolini in una originale orchestrazione dello spazio e coreografia di movimenti. Ma l’esito è uno spettacolo profondamente ronconiano, in cui la tragedia sembra finire in secondo piano.
Proprio come “Orgia” di Massimo Castri, che sembra solo una tappa all’interno di un discorso unitario del regista. Altri sono coloro che, secondo me, sono riusciti a cogliere meglio le questioni sollevate dalle tragedie e a confrontarsi con le problematicità stesse insite nella forma delle opere. Da questo punto di vista, credo che il punto di svolta sia stato, nei primi anni 2000, con due spettacoli che ritengo esemplari: “Pilade” diretto da Antonio Latella e “Orgia” diretto da Andrea Adriatico. Non a caso, si tratta di due registi che erano ancora bambini al momento della morte di Pasolini, che quindi è stato trattato a metà fra un classico e una presenza-assenza che si è potuta solo sfiorare inconsapevolmente. Ma quel che è più importante è che, dal punto di vista strettamente teatrale, con loro (e forse qualcun altro in quel periodo) si è iniziato un modo diverso di rapportarsi alle tragedie di Pasolini, e cioè utilizzandole come vero copione, andandole a leggere alla luce di una tradizione del nuovo che ha consentito di sfrondarle dalle letture stereotipate oppure legate alla memoria, per portarle decisamente nella contemporaneità e realizzare due spettacoli eccellenti.
Entrambi sono riusciti a lavorare, in particolare, sull’equilibrio tra corpo e parola, estremizzando entrambi i livelli, consentendo di dare maggior rilievo proprio ai contenuti testuali così come alla “teatralità”. In particolare, Latella ha interpretato in maniera semplice, rigorosa ed efficacissima l’idea della tragedia come assemblea della comunità degli attori-spettatori, mentre Adriatico ha trasferito un’analoga sensibilità “assembleare” dentro l’intimità dei rapporti personali, intervenendo in modo incalzante nelle stesse condizioni di fruizione degli spettatori. Il punto comune credo sia stato proprio l’aver concepito quelle tragedie non come testi di Pasolini da trattare nell’ottica della sua memoria o da calare nei meccanismi del teatro di prosa (come avevano fatto in precedenza, per esempio, con esiti diversi, Gassman con la sua “Affabulazione”, convenzionalissima e prevedibile, o Tiezzi con un “Porcile” decisamente più convincente e sottile), ma come testi da maneggiare come materia ‘grezza’ per creare spettacoli di teatro contemporaneo, capaci di recepire i flussi dell’innovazione e della sperimentazione.
Sì, in tutto Pasolini e anche nel teatro. Il corpo è soggetto e oggetto: soggetto portatore di identità (corpo di Pasolini) e oggetto del desiderio (corpo visto da Pasolini). In questo senso, l’omosessualità è elemento-chiave nella capacità di osservare e restituire il corpo e la sua immagine. Sarebbe davvero lungo affrontare il tema della presenza del corpo di Pasolini nella sua opera: ricordo, per esempio, gli autoritratti che fin dall’età giovanile impostano un discorso di auto-rappresentazione che si basa al tempo stesso sull’osservazione e sulla trasfigurazione. Inoltre, la osservazione-trasfigurazione del proprio corpo subisce una crescita di importanza nel tempo, con la grande svolta della metà degli anni ’60 in cui dichiara di voler “gettare il mio corpo nella lotta”, proprio in concomitanza con l’ingresso potente nel teatro.
Direi che, in particolare negli ultimi anni, il corpo stesso di Pasolini diventa parte integrante di un discorso più complessivo in cui la scrittura e la creazione artistica si frantumano e moltiplicano, in un trionfo di bozze, appunti, contaminazioni: tutto diventa magmatico e tende al non-finito, e in questa cornice l’unica garanzia di coerenza è proprio l’autore stesso, che finisce per esporsi con il proprio corpo “dato in pasto”, come per esempio nelle famose foto di Dino Pedriali in cui Pasolini è ritratto nudo sul letto di casa sua mentre legge un libro, o come nel disegno delle sue labbra seriali, realizzato probabilmente a ridosso della sua morte, che porta l’impressionante titolo – quasi profetico – “Il mondo non mi vuole più e non lo sa”.
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