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mercoledì 3 settembre 2025

Presentazione di Pier Paolo Pasolini, per la "Prima" mondiale di ORGIA al Teatro Stabile di Torino _ novembre 1968

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Presentazione di Pier Paolo Pasolini
per la "Prima" mondiale di ORGIA
al Teatro Stabile di Torino

22 novembre 1968

( © Questa trascrizione da cartaceo è stata curata da Bruno Esposito )


Orgia di Pier Paolo Pasolini, terzo spettacolo in abbonamento della stagione 1968-69 del Teatro Stabile di Torino, andrà in scena ufficialmente la sera di mercoledì 27 novembre al Deposito d'Arte Presente in via S. Fermo 3. Lo spettacolo, messo in scena dallo stesso Pasolini, avrà come protagonista Laura Betti, vincitrice della Coppa Volpi all'ultimo Festival Cinematografico di Venezia, affiancata da Luigi Mezzanotte e Nelide Giammarco. Gli assoli di tromba che segneranno il passaggio da Viva è l'attesa per questa "prima" assoluta che coincide con l'esordio teatrale di una delle più tipiche e significative figure della cultura italiana contemporanea. I principali critici teatrali europei hanno già annunciato il loro arrivo per assistere allo spettacolo.

Per la scheda che lo Stabile di Torino distribuisce abitualmente al pubblico che interviene ai suoi spettacoli, Pier Paolo Pasolini ha redatto un ampio testo di presentazione del suo dramma.
Riproduciamo qui integralmente tale scritto:

martedì 23 marzo 2021

PASOLINI TRA CINEMA E TEATRO - Stefano Casi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





PASOLINI TRA CINEMA E TEATRO
 Stefano Casi



   A proposito del film che stiamo per vedere (Edipo re) si potrebbero dire molte cose, ma vorrei approfittare di questa proiezione, che rievoca una delle opere teatrali più famose della storia, per parlare del teatro di Pasolini. O meglio, della storia che lega Pasolini al teatro.
Orestiade-locandina
   Anzitutto, sgombriamo il campo da possibili equivoci: non è vero che Pasolini fosse digiuno di teatro, che fosse un poeta che di volta in volta ‘provava’ a espandere il suo interesse in altri campi ma sempre da poeta. Addirittura è falso considerare che Pasolini fosse un poeta come lo intendiamo noi. Pasolini era prima di tutto un intellettuale che sceglieva il codice con cui esprimersi, e quindi di volta in volta poteva diventare poeta o regista cinematografico, scrittore o autore teatrale
   Fin da giovanissimo il teatro era molto ben presente nel campo delle sue possibilità. Negli anni 40, prima a Bologna dove era nato e poi in Friuli, dove era sfollato per la guerra, Pasolini aveva scritto testi teatrali, fatto regie, recitato sul palcoscenico. E non si era mai trattato di divertissement ma di una raffinata e consapevole scelta di natura artistica e –per così dire– politica. Ma questa è un’altra storia. Certo, negli anni ‘50, all’arrivo a Roma, l’impegno sul teatro si era raffreddato, ma del resto erano le condizioni sue esistenziali e le generali condizioni sociali a portarlo altrove, verso la scrittura e il cinema prima di tutto. Eppure il teatro stava sempre lì, come una vocazione irrisolta.
Affabulazione - Luca Ronconi
Ed ecco il primo tassello della storia che vi voglio raccontare stasera. Siamo alla fine del 1959. Vittorio Gassman e il regista Luciano Lucignani chiedono a Pasolini di tradurre l’Orestiade di Eschilo per un’importante rappresentazione al Teatro Greco di Siracusa, compito che Pasolini accetta, riservando alla traduzione pochi mesi di lavoro. Per Pasolini questo coinvolgimento è l’occasione per confrontarsi finalmente con l’istituzione teatrale ufficiale, al centro dell’attenzione del mondo del teatro, che evidentemente gli interessava. Ma non è solo questo: c’è anche la possibilità di accedere direttamente al linguaggio della tragedia greca. Pasolini intuisce che da qui può riprendere, con maggiore sicurezza, un impegno non occasionale nel teatro, nel cuore del linguaggio originario della scena.

   Il primo problema, trattandosi di una tragedia antica, è la scelta del testo da cui partire. E su questo vorrei attirare la vostra attenzione. Pasolini dichiara di volersi basare non solo sul testo greco ma anche su tre precedenti e illustri versioni, una francese, una inglese e una italiana. E dice: “Nei casi di sconcordanza, sia nei testi, sia nelle interpretazioni, ho fatto quello che l’istinto mi diceva: sceglievo il testo e l’interpretazione che mi piaceva di più. Peggio di così non potevo comportarmi”. Quindi, da una parte, varie traduzioni e l’istinto da cui farsi guidare, cosa altamente scorretta dal punto di vista filologico; e dall’altra l’italiano, che è il vero nodo per Pasolini. Punto di partenza per la traduzione, infatti, non è la lingua greca ma la propria lingua poetica, alla quale intende adeguare la lingua di Eschilo: Pasolini non si chiede quale lingua abbia usato Eschilo ma quale lingua sia efficace nel tempo odierno. E infatti scrive: “per quel che riguarda la dizione, basta che Gassman legga nelle Ceneri di Gramsci, mettiamo, ‘Il pianto della scavatrice’, il mio italiano, il mio dettato, è quello”.
Affabulazione di Pier Paolo Pasolini.
Regia di Vittorio Gassman, 1977
   Così, il traduttore procede modificando i “toni sublimi in toni civili”, evitando la “tentazione” classicista e avvicinandosi “alla prosa, all’allocuzione bassa, ragionante” – queste sono sue dichiarazioni. Infatti, all’opera di Eschilo viene negato un “ragionamento (…) mitico e per definizione poetico” perché il significato della trilogia è “solo, esclusivamente, politico”; e cioè la descrizione del passaggio da una società primitiva, a una società moderna, in cui nascono l’assemblea e il suffragio. Ecco allora, per esempio, l’utilizzo del termine “dio” al posto di “Zeus”, del personaggio della Religiosa al posto della Sacerdotessa che non sta nel tempio ma nella “chiesa”, mentre il Coro grida “osanna”. Scelte di attualizzazione che furono davvero clamorose e che tuttora ci fanno leggere con stupore questa versione.
   Dunque il metodo traduttivo così impudentemente spiattellato dallo stesso Pasolini, di cui dicevo prima, e cioè il metodo di tradurre le traduzioni altrui andando a occhio, è sì poco ortodosso ma inaspettatamente funzionale ed efficace. Evitando la filologia Pasolini è paradossalmente fedele nella sua conclamata infedeltà alla trilogia di Eschilo. Di questo Pasolini è consapevole, e infatti non esita a confessare quel che non starebbe bene confessare, usando espressioni come “ciò che mi piaceva di più”, “suggestioni”, “profondo, avido, vorace istinto”.

Orestea di Eschilo, Gassman - Siracusa
   Ma che bisogno c’è di sottolineare l’istintività della traduzione nello stesso luogo dove si spiegano i motivi razionali e logici che lo conducono alla versione italiana dell’opera?
   La chiave di questa contraddizione sta in una frase in cui dice che l’allusività politica della trilogia di Eschilo “era quanto di più suggestivo si potesse dare in un testo classico, per un autore come io vorrei essere”. In altre parole, con l’Orestiade Pasolini intuisce la possibilità di una propria strada autonoma nella drammaturgia contemporanea, tracciata con i suggerimenti raccolti dallo studio del teatro greco. Eschilo gli permette il confronto diretto con una lingua che aveva espresso un teatro politico e poetico al tempo stesso. Esattamente ciò che aveva cercato negli anni bolognesi e friulani e ciò che oggi può tornare a dargli nuovi stimoli per impegnarsi di nuovo nel teatro. E per farlo, Pasolini diventa Eschilo, “un autore come io vorrei essere”. Ne consegue, allora, che il solo “istinto” possa correttamente bastare nell’approccio alla traduzione, perché se un traduttore deve basarsi sul rigore, un autore deve invece muoversi d’istinto, e qui Pasolini sente di compiere una scrittura propria, non una traduzione. Riferendosi più volte alle Ceneri di Gramsci per spiegare la lingua usata nella traduzione dal greco, egli presenta la sua Orestiade non come tragedia dell’Atene del V secolo avanti Cristo, ma come tappa di un proprio percorso linguistico e intellettuale nell’anno 1960.

Calderòn di Pasolini nella versione di Ronconi a Prato (1978)
   Subito dopo, Pasolini inizia a corteggiare con maggior interesse il teatro, anche se nel giro di pochi mesi viene ‘travolto’ dal cinema con Accattone. Ma c’è un momento in cui le parti si capovolgono: è il teatro che inizia a corteggiare lui! Infatti nel 1965 in Italia accade qualcosa di strano. I fermenti del teatro di ricerca, che allora si chiamava “nuovo teatro” o “neoavanguardia”, si moltiplicano, portando alla luce una profonda crisi del teatro di prosa, o meglio la sua profonda lontananza dalla società civile. Sentendosi in una crisi senza sbocchi, il mondo del teatro si mette a cercare un capro espiatorio per i propri problemi e un salvatore: lo scrittore. Si tratta di un corteggiamento fra teatro italiano e letterati che si protrae almeno fino al 1967: tre anni in cui non a caso molti scrittori affrontano programmaticamente l’esperienza drammaturgica, anche perché dall’altro lato esisteva una profonda crisi parallela della letteratura e dello scrittore stesso, che sente il bisogno di sbloccare il proprio impasse di ruolo cercando nuove forme di rapporto con il pubblico, più immediate e dirette rispetto alla pagina scritta. Iniziano così inchieste e dibattiti sugli scrittori e il teatro, a cui partecipa anche Pasolini. Con esiti burrascosi. In un’inchiesta clamorosa del 1965, che dà il via a tutto questo dibattito, dalle pagine della rivista “Sipario”, accusa attori e registi di non essersi mai interrogati sul loro strumento principale, la lingua, accettando un accademismo falso, che nessun italiano parla davvero. Sono accuse pesanti, che per mesi rimbalzano su tutte le riviste italiane e sui quotidiani con reazioni forti: Pasolini dice che il teatro fa schifo? Ma perché non scrive lui qualcosa? Perché non si impegna?
Calderòn di Pasolini nella versione di Ronconi a Prato (1978)
   Pasolini partecipa pure a un dibattito in una delle cantine romane alternative, in cui ribadisce la necessità di una responsabilità degli attori rispetto alla pronuncia, cioè rispetto a un italiano davvero parlato: e come capite qui, oltre la lingua, è in ballo ben altro, cioè Pasolini chiede all’attore di essere aderente alla società di fronte a cui si mette in scena. Le cronache di quel dibattito ci dicono che gli attori e i registi presenti quasi si buttarono addosso a Pasolini, apparentemente per aggredirlo, in realtà per supplicarlo: “Allora scrivi, scrivi! Che cosa aspetti a scrivere di nuovo per il teatro?”, gli dissero.
   Siamo verso la fine del ’65: sì, Pasolini ha proprio capito che è ora di impegnarsi davvero, di lasciare il segno anche qui, nel teatro, dopo averlo lasciato nella letteratura, nella poesia, nel cinema… Ma da dove partire?

   Esatto, proprio da lì, proprio da dove partono tutti, ma lui a maggior ragione: dalla tragedia greca. E dunque, oltre cinque anni dopo aver incontrato Eschilo, anzi dopo essere diventato Eschilo per tradurre istintivamente l’Orestiade, occorrerà rileggere le tragedie per trarre nuova ispirazione. Ad aiutarlo in questo è una malattia, che agli inizi del ’66 lo tiene bloccato a letto a lungo. Finalmente è l’occasione per leggere tanto, e quindi infilare nelle letture anche i classici greci, e per scrivere tanto. Per esempio alcune sceneggiature come San Paolo e quella che sarà Porno-Teo-Kolossal, ma anche alcune opere teatrali. Le sue tragedie, nelle quali potrà essere per l’Italia degli anni ‘60 quell’Eschilo che aveva incarnato per la traduzione dell’Orestiade.
Orgia (1968-69) - Teatro Stabile Torino
  Ma ecco il paradosso: perché Pasolini sceglie proprio la forma della tragedia, cioè il linguaggio drammaturgico più apparentemente involutivo e forse più lontano da quel nuovo teatro nel quale vuole essere protagonista? Una tragedia in versi, una tragedia greca? In realtà, la forma tragica si rivela la più attuale proprio in virtù della sua assoluta inattualità: la scelta della tragedia è quella che gli consente di definire meglio il linguaggio della coscienza della diversità dell’intellettuale ed è la forma più adatta per descrivere il suo attacco (eroico-vittimista) contro il potere borghese. E così Pasolini recupera scandalosamente proprio quella forma tragica il cui ultimo rappresentante è stato un D’Annunzio assolutamente impronunciabile e irrecuperabile per la moderna cultura italiana, tanto più per la cultura di sinistra.
   Pasolini in realtà non intende scrivere tragedie ‘greche’, ma opere in cui l’adozione di forme greche costituisca un segnale di contrapposizione rispetto al dramma borghese: quindi, una sorta di tragedie borghesi forma personale di un teatro politico dichiaratamente antiborghese. Il teatro diventa infatti lo strumento per addentrarsi nel terreno nemico della borghesia, l’arma fisica scagliata dal suo autore contro il pubblico stesso.
   Pasolini dichiara di aver concepito un teatro di presa di coscienza e dibattito, come se il teatro potesse portare a una qualche consapevolezza culturale e politica. Ma è un depistaggio. Ci sono infatti due elementi contro i quali si infrange la dichiarazione che lo stesso Pasolini fa, in cui dice che le sue tragedie sono appunto una base di discussione razionale fra borghesi illuminati. La prima è proprio che il nuovo teatro di Pasolini ha paradossalmente come suo fulcro privilegiato una classe antagonista. Dice esattamente: “Il destinatario è il mio nemico, è la borghesia che va a teatro”. La teoria pasoliniana del destinatario teatrale è dunque sbalorditiva e davvero unica nella storia del teatro: è un teatro scritto per i nemici, dunque un teatro dove non ci può essere incontro razionale ma solo scontro.

Orgia (1968-69) - Teatro Stabile Torino
   Il secondo elemento di messa in crisi del teatro come spazio di dibattito razionale fra borghesi illuminati è interno alle tragedie stesse che non si presentano affatto come esempio di questo teatro razionale e politico. C’è infatti una contraddizione di fondo tra il livello puramente intellettuale dichiarato e il livello sacrale del mistero impostato sull’asse cruento e sessuale che costituisce la colonna vertebrale del teatro pasoliniano. Le tragedie di Pasolini parlano di “storie aberranti” come lui dice: un padre che vuol vedere il sesso del figlio; una coppia intenta a una relazione sadomaso; un ragazzo che ama i maiali; e così via… E sono tutte storie che portano sul limite del precipizio, sopra il mistero della realtà per rivelare alla borghesia nemica le aberrazioni della sua realtà. Con uno scarto sottile e sotterraneo, Pasolini destituisce di senso quel dibattito che aveva dichiaratamente invocato, imponendo un altro meccanismo, quello in cui il pubblico non può far altro che assistere alla dichiarazione apocalittica di Pasolini o, detta in altri termini, alla propria stessa apocalisse-rivelazione, cioè alla realtà della propria condizione di borghesia, che nel teatro trova rappresentazione in forma di visione, nella vertigine del mistero e del sacro, descritti attraverso il sangue e il sesso.
Edipo Re
   In mezzo alle tragedie greche rilette per potersi ispirare per le sue tragedie, che sono Affabulazione, Pilade, Orgia, Bestia da stile, Porcile, Calderon, ma che è anche Teorema che a un certo punto decide di trasformare in film e in romanzo, c’è anche Edipo re. Ed eccoci arrivati al film di stasera. Per Pasolini questa è l’occasione di far incrociare il suo teatro e il suo cinema. Ed è da questa prospettiva che vorrei leggerlo, tralasciando, come dicevo all’inizio, le tante altre impostazioni possibili.
   Dunque nel 1966, proprio mentre sta scrivendo le sue prime tragedie borghesi e antiborghesi, Pasolini affronta l’Edipo re di Sofocle attraverso una traduzione che lui dice esplicitamente “fedele”. Il concetto di fedeltà riprende l’idea di traduzione di un “autore come io vorrei essere” espressa, come abbiamo visto, a proposito di Eschilo per l’Orestiade: versione fedele ma nel senso di una ricreazione dell’opera. Infatti, ecco subito la controprova: nella stessa intervista in cui dichiara la sua fedeltà Pasolini dice anche di essersi mantenuto “molto libero, dando retta solo ai miei impulsi e alle mie aspirazioni. Non mi negai una sola libertà”.
   Quindi, dopo aver voluto essere come Eschilo, Pasolini vuole essere un nuovo Sofocle, e coerentemente ne assume la parte ideale impersonando nel film la figura del Corifeo. Se nella prima parte del film all’azione non corrisponde l’uso della parola, se non in pochissime battute funzionali al procedere del racconto, nella seconda parte è proprio il Corifeo-Pasolini a dare il via alla trasposizione vera e propria della tragedia di Sofocle. Lui stesso spiega: “mi piaceva introdurre io stesso, in qualità di autore, Sofocle all’interno del mio film”, e così quando vedrete, a metà film, avanzare i tebani in forma di coro, e quando vedrete il capo del coro interrogare Edipo con i primi versi della tragedia di Sofocle, non vi stupirete nel riconoscere – sia pure con una voce doppiata, non sua – lo stesso Pasolini. Perché in questo momento, cioè nel momento in cui si passa dal mito alla tragedia, Pasolini vuole essere riconoscibile come l’autore stesso della tragedia. Nuovo Sofocle, appunto.

Edipo Re
   A differenza dei precedenti film, da Accattone a Uccellacci e uccellini, il protagonista di Edipo re non è un sottoproletario, ma un eroe tragico, un mito simbolico che tuttavia è relegato all’interno di un sogno incorniciato da un prologo e da un epilogo attuali. L’Edipo mitico rappresenta le fondamenta del moderno poeta e intellettuale, alla base del quale sta un peccato originale di indicibile portata che lo porta a vivere con scandalo: io sono poeta-intellettuale in quanto porto su di me una colpa antica che mi porta a essere un diverso, in questo caso, nel caso di Edipo, ho ucciso mio padre e amato mia madre. E come Edipo, ci dice Pasolini, così sono i poeti e gli intellettuali: persone che portano in sé il mistero di un peccato di una “storia aberrante”, che li porta a essere diversi, e perciò contemporaneamente più consapevoli e più inconsapevoli, più veggenti e più ciechi.
   La vera storia del film, insomma, è quella narrata nella cornice e non dentro al quadro: è la storia di un poeta del ventesimo secolo, le cui scelte ideologiche scaturiscono dalle vicende personali dell’infanzia, dall’ “amare troppo da bambini la propria madre”, secondo la semplicistica spiegazione dell’omosessualità espressa nella tragedia Calderón. Sta qui il senso più profondo del film di Pasolini: la definizione del poeta intellettuale come unicità di sapienza e scandalo, in un’esplicita dimensione autobiografistica. La necessità di una giustificazione ‘privata’ dell’identità dell’intellettuale può così trovare la migliore rappresentazione nella tragedia di Sofocle, nel teatro! Non a caso, insieme a due mostri sacri del nuovo teatro: Julian Beck, leader del Living Theatre, qui nelle vesti di Tiresia, e Carmelo Bene nelle vesti di Creonte, anch’essi doppiati.
   Le sequenze iniziali del film mostrano il conflitto tra Laio e il piccolo Edipo sullo sfondo dell’Italia degli anni Venti. Il presagio del padre innesca il “sogno del mito”, sogno che rivela ed esorcizza lo scandalo “contro natura” del protagonista. La storia di Edipo viene mostrata da Pasolini per intero, dunque non limitandosi alla sola fase narrata nella tragedia di Sofocle. Grazie a questa dilatazione in un territorio mitologico poco frequentato come quello della giovinezza di Edipo, Pasolini ha l’opportunità di mostrare anche altro: i dettagli della formazione adolescenziale di Edipo e la psicologia dell’abbandono e della casualità nel viaggio, che assimila Edipo ai personaggi di Uccellacci e uccellini vaganti per le strade del mondo. In questo modo viene anche ridimensionata percentualmente rispetto al racconto la presenza delle altre figure della tragedia, come Giocasta o Creonte, a tutto vantaggio del personaggio di Edipo di cui viene esplorato invece ogni atto.
   Concluso il sogno che ci mostra dapprima il mito di Edipo fino all’entrata in Tebe e poi la rappresentazione della tragedia classica, Pasolini evita di riprendere anche la seconda tragedia di Sofocle (Edipo a Colono) per ritornare all’attualità. Edipo è ormai maturo e consapevole della qualità mitica dei propri conflitti personali e “suona il flauto, il che significa, per metafora, che è un poeta”. La prima tappa di Edipo poeta è la civile e borghese Bologna. Rifiutato questo luogo e ciò che significa, Edipo viene condotto da Angelo nella periferia di una città industriale, proletaria o forse sottoproletaria. Ma neanche questa ambientazione è più possibile: l’unico luogo di pacificazione per Edipo può essere solo quello della nascita, come nella tragedia Bestia da stile, lungo il Livenza sulle cui rive Edipo può finalmente ricomporre, nell’unità dell’origine e della fine, la sua dissociazione esistenziale.

   A questo punto avrei finito, ma rimane un dubbio. I tragici greci sono tre. Vuoi vedere che Pasolini, dopo essere stato il nuovo Eschilo traducendo d’istinto l’Orestiade e dopo essere stato il nuovo Sofocle rappresentando d’impulso l’Edipo re, ha cercato di essere anche il nuovo Euripide? E allora andiamo a vedere. Superiamo questo film di due anni e vediamo che succede. Anzitutto, in questo salto qualcosa è successo al suo teatro: le tragedie sono state scritte, e una anche pubblicata senza alcun successo. Pasolini stesso ha diretto Orgia con Laura Betti al Teatro Stabile di Torino incassando un insuccesso clamoroso. E allora ha deciso che non vuol più sentir parlare di teatro. Anzi, quasi per dispetto, decide di cambiare completamente atteggiamento: mentre negli anni di Edipo re diceva in continuazione che voleva fare teatro, dopo il fiasco di Orgia dice che lui non ha mai pensato al teatro, che voleva fare solo poesia dialogata, che gli era uscita così perché era ammalato, non sapeva che fare, ha letto i dialoghi di Platone e ha deciso di farli pure lui: giustificazioni chiaramente ridicole, che fanno capire solo una grande amarezza.
   Ecco, consumato il divorzio dal teatro, succede a un certo punto qualcosa. Se la traduzione dell’Orestiade di Eschilo nel ’60 corrispondeva a un periodo di impegno civile che collegava la trilogia classica alle Ceneri di Gramsci; e se l’Edipo re di Sofocle cercava una risposta autobiografistica all’interrogativo sull’impegno dell’intellettuale; la scelta di Medea, girato nel 1969, emerge da altri orizzonti concettuali. Questa volta il mito teatralizzato da Euripide viene riletto come critica totale al mondo occidentale, senza possibilità di soluzione. Simbolo dell’empirismo scientifico, del razionalismo pragmatico della civiltà occidentale, è il nuovo centauro illuminista che si manifesta nella Pisa di Galileo. Al “centro”, al “sacro” di Medea si sostituisce la visione galileiana eccentrica della terra rispetto all’universo, cioè l’ortodossia della ragione empirica.




   E Euripide? Il terzo tragico greco è qui solo una vaga fonte d’ispirazione. Pasolini, nuovo Eschilo nel tradurre l’Orestiade, nuovo Sofocle nel realizzare Edipo re, ora non può vestire i panni anche di Euripide. Lo dice chiaramente: “Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione”. Curioso davvero: Medea è una semplice “citazione” di Euripide, i cui brani compaiono come pretesto in brevi stralci nella sceneggiatura. Al contrario di Edipo re, Medea non ha più nulla a che vedere non solo con la tragedia di Euripide in sé ma anche con una sia pur lontana idea di teatro. Si infrange la sequenza temporale, si adottano trucchi cinematografici, ma soprattutto si passa dalla tragedia e dalle sue radici più ancestrali come vedremo qui, alla storia e alla sua fenomenologia: Edipo è l’abisso della colpa non voluta che genera consapevolezza e sofferenza, poesia e diversità (quindi il tema dell’unità intesa come identità unica del diverso); Medea è invece l’espressione di una dialettica dello sviluppo storico, specchio del conflitto fra due opposti (tema della dualità intesa come scontro di culture). Alla tragedia si avvicenda quindi il dramma storico, sia pure in forma allegorica. Al posto di Julian Beck e Carmelo Bene, tracce evidenti di una curiosità teatrale in piena attività, si sostituisce ora una cantante lirica, Maria Callas. Che Pasolini non usa per le sue caratteristiche canore, ma come pura icona. Medea segna insomma per Pasolini il punto di non ritorno nel suo confronto con il teatro greco. Di cui Edipo re è probabilmente uno degli esiti più geniali e originali, con i quali modifica per sempre cinematograficamente l’immagine stessa della Grecia, proiettata dall’immaginario neoclassico degli ultimi due secoli in un nuovo immaginario, barbaro e misterico, sulla scorta degli studi di antropologia.



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Intervista a Stefano Casi - Quarant’anni che Pier Paolo Pasolini ci ha lasciato.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Sono morto da poco. Il mio corpo
penzola a una corda, stranamente vestito.
Sono dunque appena risuonate qui le mie ultime parole,
ossia: “C’è stato finalmente uno che ha fatto buon uso della morte”.
(Orgia, P. P. Pasolini, 1968)

Era il 2 novembre del 1975. Quarant’anni che Pier Paolo Pasolini ci ha lasciato.
Klp vuole ricordare oggi la figura e il pensiero di questo grande intellettuale e poeta attraverso un’intervista a Stefano Casi, il maggior conoscitore del teatro pasoliniano.
Stefano, che posto occupa il teatro all’interno della cospicua produzione di Pasolini?

   La scrittura teatrale, e più in generale un impegno che a tratti si allarga anche alla recitazione e alla regia, attraversa l’intera vita di Pasolini: la prima opera in assoluto che lui fece ‘uscire’ pubblicamente dalle carte della sua adolescenza fu il dramma “La sua gloria”, a 16 anni, per partecipare a un concorso (e vincerlo), anni prima della seconda ‘uscita’ pubblica di “Poesie a Casarsa”; mentre una delle ultime opere interrotte dalla morte fu la tragedia “Bestia da stile”. Questo indica come il teatro abbia percorso praticamente l’intera vita, sia pure in modo carsico.
   A livello drammaturgico le sue 15 opere teatrali (senza contare la traduzione-riscrittura di testi teatrali greci e latini) rappresentano certamente una parte esigua rispetto ad un corpus debordante in altri campi, ma la loro importanza è comunque strategica se si vuole avere una visione più chiara di Pasolini e se se ne vogliono comprendere la poetica, il pensiero, le scelte.

venerdì 26 febbraio 2021

Pasolini, Orgia - Prologo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Locandina
Teatro Stabile Torino, 1968/69


Pasolini, Orgia

Orgia è un'opera teatrale, una tragedia in versi costituita da un prologo e sei episodi, di Pier Paolo Pasolini.

Fu prodotta la prima volta nel novembre 1968 dal Teatro Stabile di Torino e rappresentata allo spazio Deposito d'Arte Presente di Torino (spazio autogestito e autofinanziato, che ospitava opere dell'Arte Povera e azioni teatrali).

Diretta da Pasolini stesso, era interpretata da Laura Betti, nel ruolo della Donna, e da Luigi Mezzanotte, nel ruolo dell'Uomo. Pasolini non ne vide mai la pubblicazione, poiché essa avvenne postuma per Garzanti.

Copione di scena del Teatro Stabile Torino, 1968/69
Orgia di P.P.Pasolini
(autore e regista)
Parte finale. 

Prologo


lunedì 10 giugno 2013

IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA» E «SALÒ»

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





STORIA DEL NUOVO TEATRO (I modulo)
Prof. Cristina Valenti
Gruppo di studio su: IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA» E «SALÒ»
(Adriano Fraulini, Letizia Torelli)
2ª Parte:

IL CORPO DI PASOLINI: «SALÒ»
di Letizia Torelli

 


Mi è difficile parlare di Pasolini. È difficile comprendere e accogliere la sua spietata e cristallina lucidità. È difficile, nel 2012, ascoltare le sue parole del 1975 e non farsi travolgere da un vortice di emozioni che toglie il respiro. È difficile ascoltarlo parlare, oggi, di «una depauperazione dell’individualità che si maschera attraverso una sua valorizzazione».
È difficile fare un discorso sul corpo in Pasolini, perché fare un discorso sul corpo significa fare un discorso storico, politico, etico, con un’estensione e un’implicazione talmente vaste del e nel reale che davvero si avrebbe voglia di fare un montaggio di tutte le interviste, i film, i documentari, di tutto ciò che parla direttamente con la sua voce e non aggiungere altro.
Cercando un modo, un punto d’accesso, non potendo rimanere in silenzio, mi lascio colpire dalle date: 1922 - 1975.
Poco più di cinquant’anni. Cinquant’anni però che vedono l’Italia passare attraverso il Fascismo, la guerra, la ripresa, il boom economico degli anni Cinquanta, e il fermento sociale dei decenni Sessanta-Settanta.



1964: Comizi d’amore.
1968: Teorema. La sequenza del fiore di carta.
1975: Salò o le 120 giornate di Sodoma.

***

1. La teatralità di «Salò»

Pasolini: coscienza critica della società, fotografo del momento di trasformazione epocale della cultura e della civiltà italiana, accusatore di quello che ha definito il «genocidio antropologico» perpetrato dall’ideologia consumistica.
È evidente, come lui stesso tiene a precisare in un’intervista durante le riprese di Salò, che la spinta per questo film nasce dal suo detestare il potere di oggi


Ognuno odia il potere che subisce. Quindi io odio con particolare veemenza il potere di questi giorni, oggi 1975. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile che non ha niente da invidiare alle manipolazioni fatte da Himmler o Hitler, li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi. I valori del consumo che compiono quello che Marx chiama il genocidio delle culture viventi, reali.

Tenendo queste parole come cornice possiamo cominciare a parlare di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Il film, tratto da Le 120 giornate di Sodoma di François de Sade (1785), è ambientato durante la Repubblica di Salò: tutta la narrazione è trasposta nell’Italia settentrionale del 1944.
Dopo aver firmato ciò che più avanti scopriremo essere un crudele codice di comportamento, quattro figure: un duca, un vescovo, un banchiere e un giudice, guideranno un feroce rastrellamento durante il quale verranno sequestrati giovani figli di partigiani, partigiani stessi e sovversivi di entrambi i sessi. I giovani saranno trasferiti in una enorme villa isolata dal mondo al fine di soddisfare, grazie all’aiuto di tre ex-meretrici e dei soldati della milizia, le perversioni sessuali dei quattro nazifascisti. In un crescendo di violenza si consumano le vicende dei giovani fino a quella che potremmo chiamare una vera e propria "soluzione finale".
Lavorando alla sceneggiatura insieme a Sergio Citti (al quale era stato offerto il film), Pasolini conferisce all’opera una struttura di carattere dantesco: «Ho diviso la sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura una specie di verticalità, una specie di ordine di carattere dantesco». 


La teatralità di Salò nasce dall’esigenza di rendere evidente la realtà sociale che ha costretto Pasolini ad ‘abiurare’ la Trilogia della Vita. È una teatralità diffusa nella scenografia, nelle inquadrature, nella "verbosa verbalità" delle battute secondo quanto dice lo stesso regista. Peraltro, il riferimento alla rappresentazione teatrale è già in Sade, quando parla dell’"arena dei tornei progettatati" destinata alla narratrice, che "si trovava nella posizione dell’attore sul palcoscenico e gli ascoltatori, nelle nicchie, erano come spettatori in un anfiteatro". L’anfiteatro viene coerentemente aggiornato da Pasolini nella struttura scenografica del dramma borghese. […] Al centro dell’attenzione stanno le narratrici, come tre prime attrici o primedonne del varietà.

Ogni girone è caratterizzato da una particolare perversione sessuale, magistralmente introdotta dalle tre narratrici allo scopo di solleticare i desideri dei quattro signori che potranno così realizzare le proprie fantasie sui ragazzi resi inermi.



Il sesso è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano, è la mercificazione del corpo umano. La riduzione del corpo umano a cosa è tipica del potere, di qualsiasi potere. Il potere mercifica i corpi: quando Marx parla dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo parla effettivamente di un rapporto sadico.

La mercificazione dei corpi trova espressione e si intreccia nel procedimento metanarrativo. Come ha osservato Casi, Salò è giocato su una teatralità diffusa, il film «si presenta infatti come rappresentazione di una rappresentazione». Ne sono testimonianza i seguenti brani:

La narrazione delle tre donne che si truccano davanti a uno specchio da camerino;

Gli stessi signori che recitano una parte travestiti da donna per la cerimonia nuziale;

Il reclutamento delle vittime che avviene come in un provino;

La parola, fondamento della teoria teatrale pasoliniana, che si manifesta in tutta la sua potenza;

I ragazzi che sono spesso mascherati o costretti a interpretare delle parti;

Le torture finali che sono osservate dai signori con un binocolo da teatro.

Il richiamo immediato, a questo punto, è al Manifesto per un Nuovo Teatro: la rappresentazione di una rappresentazione risulta infatti essere, in Salò, la rappresentazione di una cerimonia, di un rito.



Il potere è sempre codificatore e rituale. Senza volere mi sono trovato, in questo film, a rappresentare sia la vita per bene piccolo-borghese con i suoi salotti, i suoi tè, i suoi doppiopetti da una parte, e dall’altra mi son trovato a rappresentare una cerimonia nazista.
(Il "rito" teatrale)
36) Il teatro è comunque, in ogni caso, in ogni tempo e in ogni luogo, un RITO.
37) […] Il teatro rappresenta un corpo un oggetto per mezzo di un oggetto, un’azione per mezzo di una azione. Naturalmente il sistema di segni del teatro ha dei suoi codici particolari, a livello estetico. Ma a livello puramente semiologico esso non si differenzia (come il cinema) dal sistema di segni della realtà.
L’archetipo semiologico del teatro è dunque lo spettacolo che si svolge ogni giorno davanti ai nostri occhi […] Il rito archetipo del teatro è dunque un RITO NATURALE.

Negli ultimi anni della sua vita Pasolini sembra impegnato in una incessante fuga dalle convenzioni artistiche, «nella costante ricerca di una forzatura dei confini, ancora maggiore rispetto al passato, verso l’impurità dell’opera».

Non è indifferente alle novità espresse dai nuovi teatranti e dalle loro ricerche di confine. Sono gli anni in cui cominciano ad arrivare a maturazione numerosi processi in fermento già dai primissimi decenni del dopoguerra. È in questo ambito che il nesso arte-vita viene coniugato in termini sempre più stringenti. John Cage ne fornisce una formulazione che sembra richiamare, per il versante teatrale, il pensiero di Pasolini rispetto alla lingua cinematografica:



Il teatro ha luogo sempre dovunque ci si trovi […] Per me il teatro è semplicemente qualcosa che vincola la vista e l'udito. […] Desidero definire il teatro in termini così semplici perché in questo modo è possibile considerare teatro anche la vita di ogni giorno.
Non scrivo più come prima, il ché equivale a dire che non scrivo più. In principio quando ho cominciato a fare del cinema ho pensato che si trattasse semplicemente dell’adozione di una tecnica diversa. Direi quasi di una tecnica letteraria diversa, poi mi sono reso conto, pian piano, che si trattava non di una tecnica diversa ma di una lingua diversa. E quindi io ho abbandonato la lingua italiana con cui mi esprimevo come letterato per adottare la lingua cinematografica. La lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. E invece un regista esprime la realtà attraverso la realtà. Ecco, questa forse è la ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco alla letteratura. Perché esprimendo la realtà con la realtà opero e vivo continuamente al livello della realtà.

Non stupisce dunque che, durante le riprese degli esterni di Salò a Bologna, Pasolini abbia accettato di partecipare a un’azione scenica ideata da Fabio Mauri in occasione dell’inaugurazione della nuova galleria d’Arte Moderna di Bologna, il 31 maggio 1975: un’esperienza di body art che l’autore definì azione complessa o performance complessa e che consistette nella proiezione di alcune sequenze del Vangelo secondo Matteo sul petto di Pasolini.

Ma prima di occuparci di tale esperimento, dedichiamo un breve approfondimento alla figura di Fabio Mauri e alla sua precedente produzione.

 

2. «Che cosa è il Fascismo», di Fabio Mauri (1971)

[…] Io concepivo qualcosa che non era teatro […] che non aveva bisogno di un palcoscenico, poteva essere fatto nelle gallerie, a livello dell'uomo. Qualcosa di mezzo tra il teatro e le mostre, che sono le performance complesse.
 Qual è la differenza tra performance e spettacolo?
La performance è un rito attuale, lo spettacolo invece è una specie di arco: ha una premessa, uno svolgimento e una catarsi, una chiusura; mentre la performance corre a livello degli eventi, degli avvenimenti che sono attorno a noi.

L’intenzione non è tanto quella di rappresentare i ludi juveniles del ventennio fascista, quanto quella di ri-presentarli tali e quali, di «riportare in teatro un pezzo di storia».

Che cosa è il fascismo

: collocazione immaginaria; la festa è in onore del Generale Hernst Von Hussel (ricorrenza non reale ma interna alla rappresentazione).

Al centro della sala un grande tappeto rettangolare con impresso il simbolo della svastica nazista è il luogo in cui si svolge l’intera cerimonia; distribuite sui due lati sei tribune nere, destinate ad accogliere gli spettatori, «divise per corporazioni (Autorità, Personalità, Accademici, Magistrati, Famigliari, Rurali, Stampa Italiana, Stampa Estera, etc.)»; a una estremità troviamo il Podio di Comando con alle spalle uno schermo bianco con la scritta The End; all’estremità opposta invece altre due tribune più strette contrassegnate dalla stella di Davide – «Vista la violenza della stella ebraica divenuta obbligatoria in Germania per gli ebrei, l’ho messa in grande su due tribune dove avevo invitato spettatori ebrei: volevo mettere in evidenza, nella forma quasi serena, l’aberrazione sociale di quel marchio con cui i bambini dovevano giocare, mentre i grandi dovevano esibire ogni istante come segno di infamia» – riservate a uomini e donne israeliti, e una alta struttura metallica dalla quale, a un certo punto, verrà proiettato, sullo schermo antistante con la scritta The End, un documentario dell’Istituto Luce.
Gli spettatori, entrando per prendere posto, si ritrovano veramente proiettati all’interno di una manifestazione pubblica: dal podio vengono date indicazioni ai giovani fascisti e agli intervenuti, il pubblico è guidato dai primi a sistemarsi nelle tribune ad ognuno assegnate.
«Si prega di sgombrare la piazza d’armi! ... Si prega di sgomberare la piazza d’armi! … Ripeto: si prega di sgomberare la piazza d’armi! … Sono in arrivo nuove tribune … Attenzione prendere posto nelle tribune a ciascuno assegnate! ... Per ogni problema rivolgersi al centro organizzativo nazionale» tuona autoritaria una voce femminile dal podio, mentre, in sottofondo, accompagna l’entrata del pubblico la canzone Fischia il sasso.
Dopo la presentazione dei vari gruppi fascisti presenti, viene introdotto il Console Eritreo (anch’egli ospite come il "cereo" Generale Hernst Von Hussel).
La cerimonia consiste in un susseguirsi di saggi ginnici e dibattiti di mistica fascista annunciati dal podio, da programma: Il fascismo e il mondo. Dibattiti di mistica fascista. Scherma. Sbandieramento. Il problema della razza. I pattini a rotelle. Il mazzo di fiori. Kendo. I ludi juvenilis. Film luce. Sfilata.
E’ proposta anche la dimostrazione di due Kendo, «ossia di due figli di italiani a Tokyo, perché […] venivano invitati da tutto il mondo a partecipare […] a queste grandi riunioni per la gioventù» come racconta lo stesso Mauri.
L’inizio e le varie fasi della cerimonia sono scandite dai comandi per la distribuzione in campo dei giovani in divisa, impartiti dal podio.
Ogni saggio è introdotto dall’inno dei Giovani Fascisti e si conclude con il saluto fascista al Generale Von Hussel.
È uno sfoggio di giovinezza, bellezza, potenza e forza: Mauri ha la precisa intenzione di riproporre questo momento storico aberrante con i modi piacevoli e suadenti con cui si è proposto nella realtà della storia: «il male non si presenta con la maglietta con su scritto ‘male’».
Si sperimenta in poco tempo l’Ideologia falsa , l’abisso della Superficialità istituzionalizzata, la Tautologia del Potere assoluto, la malignità intima della Bugia nascosta nell’Ordine, la vergogna della confusione culturale, l’irresponsabilità di chi avoca a sé la libertà di giudizio collettivo, l’inganno della giovinezza che porta grazia e fiducia a fare da preludio al massacro. L’errore lega con qualsiasi altra cosa, soprattutto con la verità e la bellezza. La sciocchezza della natura innocente è complice ingenua di ogni male. Il nulla seducente di quando, sembrando di risolvere finalmente la complessità del reale in un dato semplice, il vuoto trova spazio e prende forma nella mente e nei corpi, mimando il serio, il vero e la profondità.
Parlando del rapporto tra Fabio Mauri e la performance non si può ignorare il ruolo primario dello spettatore e del suo particolare punto di vista. È necessario dare una spiegazione più precisa di questo concetto, per farlo occorre un piccolo salto in avanti, alla metà degli anni ’70, dove troviamo un’altra serie di opere: Le proiezioni (di cui fa parte Intellettuale), opere cinematografiche proiettate su schermi ‘impropri’.



Le immagini cinematografiche, simbolo della complessità dell’attività intellettuale, acquistano un nuovo significato per il valore deformante degli inusuali schermi, non neutrali e con forme proprie, concepiti dall’autore come luogo dell’"attualità, intesa, qui e precisamente come istante del farsi storico" […] Gli oggetti e i corpi che accolgono le immagini diventano essi stessi testimoni della loro storia, e simbolo di realtà.

Ecco, lo spettatore è, nelle performance di Fabio Mauri, esattamente uno ‘schermo improprio’. La performance si compie nel suo punto di vista:



È un lavoro sul tempo quello di Fabio Mauri, stanze del tempo in cui la valenza è mutata, ci pone come testimoni di "fatti" che accadono sotto i nostri occhi, fatti che sappiamo essere successi in un altro tempo, e ci costringe alla "visione" diretta, all’esserci, in un tempo e in un luogo rimossi, in un tempo da dimenticare.

Si conclude così la performance di Mauri:
«Per gentile concessione dell’Istituto Luce proiettiamo lo straordinario Luce numero 1358 in occasione della visita del ministro Goebbels a Venezia».
A conclusione del video Giovani Italiane e Giovani Fascisti, insieme ai Capomanipolo e al Console Eritreo marciano insieme sulla piazza d’armi intonando l’Inno di Roma, reggendo alta la bandiera nera, e uscendo di scena lasciano dietro di loro il rumore della marcia e degli aerei (le frecce nere, che tutti erano stati invitati a salutare all’inizio della manifestazione o altro?). La scena resta vuota. Il pubblico, dalle tribune, applaude. I canonici minuti in cui ci si chiede, tra sé e sé o col vicino: sarà finito così?. La risposta arriva puntuale: no. Non è così liscio il The End.
Dopo tre minuti e mezzo, in cui forse un po’ ci si chiede se si applaudirà: a cosa si applaudirà? Cosa significa applaudire a Che cosa è il fascismo? Mauri aiuta lo spettatore a prendere posizione e dà inizio ai bombardamenti a volume altissimo, gli aerei che prima sorvolavano "innocui" la piazza d’armi ora bombardano e finiscono la performance.
Sono ancora le parole di Franco Cordelli ad accompagnarci nei momenti conclusivi di Che cosa è il fascismo: «Ci sembra di sentir pulsare il cuore di una comunità, finché brutalmente, a scena vuota, a spettacolo finito, vale a dire quando saremo di nuovo nella realtà, un sinistro rumore di bombardieri ci ricorderà che cos’è, o che cosa è stato il fascismo»

3. Pasolini protagonista della performance «Intellettuale», di Fabio Mauri (1975)

In questi anni Pasolini non parla più attraverso schemi comprensibili. Sono saltati perché nessuno schema ha più senso, e perché ciò che rimane sostanziale è solo il proprio corpo, quello che aveva intuito di dover "gettare nella lotta" e che ora è l’unica invariabile strutturale della sua opera al punto da diventare, come si vedrà, oggetto stesso di rappresentazione. Assumono centralità come mai era accaduto prima d’ora la voce, il corpo. Non solo una nuova lingua e un nuovo rapporto col corpo ma, anche, una nuova modalità di ricezione (come già aveva sperimentato Mauri nelle sue performance Ebrea e Che cosa è il fascismo): lontano anni luce da un atteggiamento supino, il pubblico cui pensa Pasolini è un pubblico attivo, non nel senso dell'immedesimazione, bensì della riflessione. In questo senso anche il ruolo dell’autore/creatore non può più essere soltanto quello di garante dell’opera, ma egli stesso inizia a essere parte oggettiva e sofferta del processo creativo.
L’installazione/proiezione Intellettuale (1975) è un esempio di responsabilizzazione che riguarda il performer, in questo caso regista dell’opera proiettata, quindi un’azione di responsabilizzazione dell’artista.

Come anticipato, sul busto di Pasolini sono proiettate sequenze del suo film Vangelo secondo Matteo:



La camicia bianca indossata da Pasolini, seduto su un alto sedile, costituiva il punto più espanso dello schermo umano. Il volume del sonoro, mantenuto troppo alto rispetto alla dimensione ridotta dell’immagine proiettata sul regista, aumentava il disorientamento esercitato dall’azione sia sul pubblico che, soprattutto, sullo stesso Pasolini. Il regista, che nel corso della proiezione aveva assunto un’espressione sofferente, disse di non essere riuscito a seguire il film proprio a causa dello "scollamento" tra le immagini e la colonna sonora così alta.

Per Fabio Mauri l’arte assume una «funzione di catarsi conoscitiva, e di responsabilizzazione etica degli atti individuali». Dunque, al pari del processo di catarsi nella tragedia greca, la performance è un rito attuale: Fabio Mauri attualizza un tempo ormai andato, compiuto, affinché ognuno abbia modo di contemplare.

[…] La proiezione provoca un effetto singolare: rivela fisicamente la nascita del «segno intellettuale», «dentro» il corpo dell’autore. Possiede la precisione tecnica di una radiografia dello spirito. Comporta anche dell’altro: l’imposizione di una «passione» che l’autore subisce, per cui sembra rispondere corporalmente di quanto ha concepito. […] Pier paolo Pasolini […] accettò di sottoporvisi e ne fu subito preso. S’immerse nello sforzo di ricordare attimo dopo attimo cosa ritrascorreva su di lui, quale dettaglio di immagini, quali forme.[…] Illuminato dal solo raggio del suo film, sembrava subire una responsabilizzazione dei contenuti reali dell’immaginazione. […] Contemporaneamente avviene un altro fenomeno: l’identità d’autore, resa materialmente evidente, si riconferma in modo efficacemente elementare. Autore e opera formano una scultura di carne e di luce, un’unità compatta. […] Attraverso quel rito intendevo richiamare a un’evidenza: che le forme espressive non erano che significati «reali», nel senso di implicite all’universo «morale» dell’uomo. Il termine «intellettuale» comprendeva, per me, tale dato. 
Noi siamo un condensato di memoria, proiettiamo continuamente una memoria, per riconoscere il mondo; nell’artista la memoria si scontra con il mondo. Pasolini credeva di contenere il Vangelo che aveva decifrato, ma nella performance non capiva più a che punto era. Come se avesse perduto lo sguardo sulla propria interiorità, era sgomento.
Mauri interroga continuamente autori, performer, spettatori e opere. Interroga coscienze che mette in condizione di rispondere.
Per Mauri l’opera inizia nel momento in cui diviene domanda, una domanda che non si confonde con i dubbi o con gli scrupoli, una domanda che non smette di interrogare anche quando l’opera è compiuta, anche quando l’orizzonte delle risposte continua a manifestare se stesso. La domanda è rivolta al linguaggio, a un linguaggio capace di travestirsi, trasmutarsi, a un linguaggio capace di essere seduttivo anche nelle sue forme ideologiche più pericolose.
Dal canto suo, Pasolini, accettando il ruolo di protagonista dell’evento di body art,
incarna, per una singolare coincidenza, esattamente il punto d’arrivo della propria riflessione in quel momento, unendo il triplice rapporto fra la realtà della sua persona, il cinema proiettato e il teatro dell’allestimento che lo porta a essere presenza fisica su una scena di fronte a un pubblico. E duplica – ancora una volta oggetto di uno sguardo altrui – la propria nuda epifania di poeta con le sole armi della poesia, testimone (martire) di sé come scandalo vivente, corpo politico incarnato nel proprio corpo fisico.


4. Conclusioni

Torniamo a Salò.
Il brano dell’intervista in cui Pasolini affermava che il linguaggio cinematografo consente al regista di esprimersi «al livello della realtà», proseguiva riferendosi alla sua predilezione per gli attori non professionisti:

In generale la mia opera è influenzata dall’uso di attori non professionisti, come è influenzata dall’uso di una scenografia non ricostruita in teatro, cioè una scenografia vera, nel senso che quando io giro, in realtà non faccio altro che raccogliere del materiale. Quindi vado in un posto qualsiasi non ricostruito, scelto da me in natura, e raccolgo del materiale secondo la luce, secondo quello che c’è lì in quel momento […] prendo un ragazzo che non ha mai recitato, lo metto davanti alla macchina da presa e lo tengo lì a lungo raccogliendo materiale, questo significa che poi devo fare un lungo lavoro di montaggio per togliere tutto quello che è inutile e cogliere invece quel momento di verità che può essere lampeggiato nel suo sguardo, nel suo sorriso mentre giravo.

Mettetevi nei paraggi di un corpo, del suo limite fisico, della sua sofferenza, del suo pathos... è il pulsare della vita quello cui assisterete, il suo sentirsi scorrere. Questo è quello che Pasolini vuole restituire, non ci troviamo di fronte a una costruzione di identità «il film è privo di psicologia»: qui i personaggi si esprimono solo tramite funzioni che sono azioni, le figure tendono ad esprimere non un soggetto ma un processo. Il corpo dell’attore è portatore di un’immagine che deve essere attivata, è potenza di immagine che diventa luogo dello sguardo: teatro. La costruzione di queste figure cerca la vita allo stato puro, non la sua rappresentazione, la restituzione di un’esistenza che tanto è lontana dalla sua biografia.

Un corpo/figura. Una figura che lascia transitare un processo. È quindi sempre della vita di un corpo particolare che stiamo parlando, quella ci presenta Pasolini: una vita intesa come zoé (ζωή), ed è proprio questa zoé ad essere irrimediabilmente minacciata dal potere consumistico.

Principali riferimenti bibliografici e filmici:


Stefano Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005.
Letizia Torelli, Fabio Mauri: la performance come rito attuale, Tesi di Laurea in Dams, Facoltà di Lettere e Filosofia, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, a.a. 2010-2011 (disponibile presso l’Archivio Pasolini, Bologna).
Salò o le 120 giornate di Sodoma

, Italia/Francia, 1975, 117 min., regia Pier Paolo Pasolini, soggetto Marchese de Sade (romanzo), sceneggiatura Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti, Pupi Avati, produzione Alberto Grimaldi/Alberto De Stefanis/Antonio Girasante.
Pasolini prossimo nostro

, Italia/Francia, 2006, 63 min., regia Giuseppe Bertolucci, produzione Ripley’s Film/Cinemazero.

Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=4&ved=0CEYQFjAD&url=http%3A%2F%2Fcampus.unibo.it%2F80053%2F1%2FIl%2520corpo%2520di%2520Pasolini_Sal%25C3%25B2.doc&ei=3I2kUYSyN8SUOKvrgMgF&usg=AFQjCNECNO-32d_zEKFuVzaWIqKzAve2oA&sig2=l3ily9u-weS2uBD7a5k-jQ


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