"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI "ROMA TRE" ROMA
DOTTORATO DI RICERCA
IN
STUDI DI STORIA LETTERARIA E LINGUISTICA ITALIANA
XXII CICLO
TESI DI DOTTORATO
1968-1975:
l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana
Candidato: Docente tutor:
Andrea Di Berardino Chiar.Mo Prof. Giuseppe Leonelli
ANNO ACCADEMICO 2008 / 2009
ANDREA DI BERARDINO
L‟azione – in certo modo necessaria – compiuta dall‟avanguardia per il ripensamento e il sovvertimento dei valori letterari che si andavano codificando – ha finito, naturalmente, col dare dei risultati controproducenti (di cui del resto a me non importa proprio nulla: è una constatazione che faccio): ossia la bomba di carta fatta esplodere dagli avanguardisti sotto il fortino codificato dei valori letterari, vi ha fatto sciamare dentro attraverso la breccia un bel gruppetto di letterati di second‟ordine (Berto, Bevilacqua, il buon Prisco ecc.): sicché la letteratura è retrocessa in serie B. Ma va benissimo, perché questa è la verità, e dunque bisognerà esser grati all‟avanguardia per averla a suo modo ristabilita.(138)
Le bordate scagliate sul chiacchierato fenomeno della neo-avanguardia – che nel nostro Paese aveva conosciuto un‟insorgenza effimera nel 1963 con la costituzione a Palermo del “Gruppo 63” –, mentre ridimensionavano al rango di tempesta in un bicchiere d‟acqua i nuovi furori sperimentali, lanciavano dunque stilettate contro il torpore della coeva letteratura italiana, tanto in crisi da consentire perfino a semplici, abili mestieranti della penna di assurgere agli onori delle cronache culturali e di occupare indebitamente il posto lasciato vacante dai veri grandi scrittori. Nella requisitoria – condotta comunque con oggettivo distacco – i nomi di Bevilacqua e Prisco figuravano quindi appaiati, quasi in una specie di profezia. Quali fossero poi i reali motivi che nei concorsi portavano alla ribalta questi «letterati di second‟ordine» viene esemplificato da Pasolini nel prosieguo dell‟articolo sul quotidiano milanese:
Perché il neocapitalismo non ha scrupoli: l‟America reazionaria lo insegna. Circolano parole d‟ordine e veline. Di questo libro si può parlare, di quest‟altro si taccia; questo libro vinca un premio, quest‟altro no. Guai a te, Direttore di rivista, se fai recensire favorevolmente questo libro. E se tu, Scrittore, non fai una recensione buona di quest‟altro libro, me la pagherai: infatti nessuno dei miei rotocalchi parlerà più di te. Ah, tu, Letterato, sei amico di quest‟altro letterato? Ebbene, tradiscilo, altrimenti non ti rinnovo il contratto con la mia casa. Sei il votante di un premio? Bene, dammi la scheda, o entri nella lista di proscrizione.(139)
La prassi d‟oltreoceano, mutatis mutandis, si riscontra anche in un piccolo mondo come quello della penisola italica, fresca di un reale processo di industrializzazione eppure avviata a dimenticare in fretta il passato – certo non estraneo alle meschinerie in campo culturale: ma in ogni sotterfugio era
comunque bandita la malafede – e prona ai diktat della nuova borghesia. In un contesto del genere si fa strada spontaneamente la laus temporis acti (peraltro aleggiante su alcuni dei precedenti passi dell‟intervento):
Ah, vecchi tempi, in cui una delegazione di votanti dello Strega andava da uno scrittore (buono) a pregarlo di ritirarsi dal premio perché la figlia di un altro scrittore (buono) doveva sposarsi, e quindi il milioncino del premio occorreva a lei! Ora l‟industria del libro tende a fare del libro un prodotto come un altro, di puro consumo: non ha bisogno dunque di buoni scrittori: cosa a cui fa perfetto riscontro la richiesta della nuova borghesia, che parrebbe completamente padrona della situazione, di opere di svago, di evasione e di falsa intelligenza.(140)
La situazione così delineatasi suscita un‟istintiva repulsione in Pasolini, che si affretta a chiamarsene fuori:
Devo rendermene complice? Un editore certamente ha il diritto di fare le pressioni che vuole: i suoi interessi sono di tipo industriale: e di fronte alla concorrenza, lo sappiamo, i “padroni”, sia pure addolciti dal nuovo corso, sono capaci di tutto. I miei interessi, invece, sono di tipo culturale: il mio esser capace di tutto può consistere dunque in una sola cosa: protestare. Così mi ritiro scorrettamente dalla seconda votazione del premio per protesta: protesta contro l‟ingerenza dell‟editore industriale in un campo che io considero ancora, arcaicamente, non industriale: cosa che si concretizza nella creazione di valori falsi e nella soppressione di quelli veri.(141)
E di posizione intransigente si tratta, dal momento che la volontà pasoliniana rimane salda nelle proprie decisioni anche dinanzi al tentativo operato dall‟organizzatrice del premio, la quale pure cerca di convincere lo scrittore a desistere:
Ripeto: non voglio rendermi complice in alcun modo di questo stato di cose. Ma come odio la complicità, odio anche il compromesso. Avrei potuto continuare, formalmente, a fingermi un concorrente democratico e, d‟accordo con Maria Bellonci, avallare, sia con una vittoria, sia con una sconfitta di misura, per l‟ultima volta, il Premio Strega così com‟è: cioè un campo d‟operazioni del più brutale consumismo. Infatti la signora Bellonci mi ha promesso che, per il prossimo anno, il premio sarebbe stato riformato, garantendo un miglior livello delle opere presentate eccetera.(142)
Siciliano conferma che, in quei giorni, nei salotti dell‟aristocrazia letteraria capitolina si vissero ore di frenetica attività diplomatica, nella speranza di tamponare una metaforica emorragia – come sopra ricordato, sulle orme di Pasolini si erano ritirati altri tre partecipanti – che certo non giovava al prestigio della manifestazione, la quale vedeva concretizzarsi il paradosso di una contestazione in piena regola partita dall‟interno della sua stessa struttura: «Riunioni, conciliaboli, telefonate – settimane caldissime nel piccolo mondo della letteratura romana. Giochi di schieramenti. Maria Bellonci desiderava ricucire lo strappo. Tutto fu inutile»(143). Del resto in ballo, per l‟autore di Teorema, c‟era soprattutto una questione di principio, ovvero la deontologia professionale da salvaguardare magari anche a prezzo di qualche manicheismo ideologico:
No. Non mi sono sentito di venire a un tale patteggiamento. Credo che soltanto una protesta, completa, rigorosa e senza compromessi, possa essere utile a far sì che il premio, se deve ricostituirsi, si ricostituisca da zero, rimettendosi integralmente in discussione. Sono convinto che solo così si potrà avere un “altro” Premio Strega: che garantisca davvero di essere tutto dalla parte degli interessi culturali “contro” gli interessi industriali. Se esso vuole arrivare a questo attraverso patteggiamenti, compromessi, silenzi, vuol dire che non ha una reale buona volontà.(144)
Il capoverso conclusivo dell‟articolo propone una risposta ad un‟ultima ipotetica domanda proveniente dal lettore:
Per finire, vorrei dire che so che, a questo punto, qualcuno mi potrebbe domandare perché sono solo, o con pochi amici – gli altri concorrenti al premio, per esempio – a combattere questa battaglia, e se per caso non esista un “sindacato scrittori” che intervenga, con forza e autorità (doppia: sindacale e letteraria) a difendere i suoi iscritti dalla vera e propria “servitù” a cui li sta cominciando a ridurre l‟industria culturale. Ebbene, è questa una domanda che mi faccio anch‟io senza saper rispondere, ma a cui si dovrà, prima o poi, dare una risposta.(145)
Nelle ore di immediata vigilia della votazione finale, Pasolini tornò a far sentire la propria voce sulle colonne del “Giorno”, tramite un appello redatto sotto forma di lettera aperta agli elettori del premio: Votate scheda bianca e vincerà la cultura(146). A partire dall‟incipit, si può considerare il pezzo una coda anomala alla «richiesta di suffragio» documentata nella corrispondenza privata pasoliniana di qualche settimana prima: «Cari amici, oggi andate a votare al Premio Strega. Non è una cosa di grande importanza – lo ammetto – benché non trovi che ci sia in questo nulla di “comico”, come trova un giornale romano della sera, incomprensibilmente»(147.) Segue l‟elenco delle tre ragioni che giustificano il peso specifico del voto: e si tratta di un‟analisi penetrante, che mette oggettivamente a nudo – e soggettivamente anche un po‟ alla berlina – la coeva situazione delle patrie lettere servendosi del paragone con il passato non troppo lontano. Innanzitutto, è andata perduta, nell‟Italia di fine anni Sessanta – cioè nell‟era del post-boom economico –, la tradizionale deferenza nei confronti della figura sociale dell‟intellettuale:
I letterati italiani godono presso l‟opinione pubblica una pessima fama: sono visti irreversibilmente sempre in chiave umoristica, come personaggi sedentari, pettegoli, mondani, pigri, acquiescenti, vanitosi, snob, mediocri e addirittura meschini: insomma, una specie di peso morto nella società italiana: una specie di reparto dello zoo e del folclore, sia pure non dei peggio (a causa della loro inoffensività).(148)
In secondo luogo, i motivi di questa sorta di “perdita d‟aureola” vanno ricercati in una reale incapacità, da parte dei letterati italiani, di mantenere fede alle promesse fatte balenare appena pochi anni addietro, all‟insegna del legame – allora ritenuto simbiotico – tra engagement e cultura:
Oggettivamente i letterati italiani hanno tradito certe illusioni, nate nello scorso decennio, quando a un certo punto ebbero l‟aria di sostituire addirittura i preti in qualità di guida spirituale: caduta la potenziale egemonia comunista – cui era allora dovuto il successo letterario – si è trattato in realtà di un nuovo ritorno all‟ordine. E non si può dire che lo spirito di humour, da cui è preso irrefrenabilmente qualsiasi giornalista medio nel parlare dei letterati in genere, sia del tutto ingiustificato.(149)
Infine, un vento dalle folate destabilizzanti soffia sull‟edificio già di per sé cadente della letteratura italiana, i cui pericolanti architravi scricchiolano sempre più sotto la sconosciuta minaccia:
Su questo ambiente familiare (provinciale) della letteratura italiana si comincia a profilare un nuovo momento storico, che riguarda il rapporto tra letterato e opinione pubblica, in cui – dopo un breve e confuso interregno – alla tendenza culturale egemonica del Pci (ossia la politica dell‟impegno, dal Pci stesso ora abbandonata) si va sostituendo una nuova egemonia, quella dell‟industria culturale.(150)
Diretta conseguenza di questo scenario che si va profilando è – per citare il titolo del noto saggio di Elémire Zolla pubblicato da Bompiani nel 1959 – l‟eclissi dell‟intellettuale di matrice umanistica, che nella nostra penisola degli anni Cinquanta (come del resto in buona parte dell‟Europa, uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale) aveva coinciso con il modello del politico-studioso di formazione marxista:
Alcuni manager hanno preso il posto di Togliatti o di Alicata. Ma Togliatti e Alicata per quanto cinici, per quanto diplomatici, per quanto pragmatici erano ancora uomini di cultura: erano gli ultimi rappresentanti di quel tipo di intellettuale (a cui del resto anche tutta la mia generazione appartiene) che era stato descritto da Čechov, e che Lenin aveva conosciuto e analizzato. L‟intellettuale umanista, di nascita o di origine provinciale e contadina: pre-industriale.(151)
Al posto del dirigente di partito subentra dunque una specie di tecnocrate, indebitamente prestato alla cultura da altri quadri direttivi, quelli del mondo industriale neocapitalista:
In genere, invece, i manager dell‟industria culturale non sono uomini di cultura. E appunto per questo – benché non più giovani di noi – appartengono a una nuova qualità di intellettuale: l‟intellettuale che né Čechov né Lenin hanno conosciuto, non più umanista, direi non più umano: tipico fenomeno di una civiltà tecnica, che sta mercificando la cultura. Insomma, l‟industria culturale può essere diretta soltanto da chi è fuori da quella che ancora è per noi storicamente la cultura.(152)
Le motivazioni così esposte inducono Pasolini a sollecitare nei votanti dello “Strega” un gesto di serriana memoria: «Per queste ragioni io vi dico, cari colleghi letterati, che è giunto il momento di fare un non novecentesco esame di coscienza»(153). Pertanto, la riconsiderazione dei propri compiti deve muovere dalle tre premesse sopraelencate ed approdare ad una precisa strategia:
È finita l‟egemonia culturale della sinistra, coi suoi miti e i suoi valori? Bene. Ne sta nascendo un‟altra, quella dell‟industria culturale coi suoi miti (del tutto cinici e materiali) e i suoi valori (inevitabilmente falsi)? Bene. Vuol dire che dovremo agire al di fuori di qualsiasi forma egemonica. Qui mi viene spontanea alle labbra una parola che detesto, perché divenuta senhal: autogestione. Il letterato italiano deve finalmente politicizzarsi attraverso la propria decisione: con ciò non dico che debba fare della politica: ma che deve inventarsi e portare avanti una politica culturale che rivendichi la sua autonomia e la sua libertà.(154)
Da Serra a Vittorini: nel passo, specialmente nell‟ultima frase, vibra un certo tono d‟arringa nel quale – fatte le debite differenze – si percepisce l‟eco dell‟editoriale Una nuova cultura, il fondo introduttivo al primo numero del “Politecnico” (apparso quasi all‟indomani della Liberazione(155)). Dall‟autore di Conversazione in Sicilia, tra l‟altro, Pasolini sembra qui recuperare in particolare l‟atteggiamento battagliero nella strenua difesa dell‟autonomia dell‟arte, argomento sul quale nel biennio 1946-1947 avevano discusso – sempre sulle colonne della medesima rivista, incrociando le lame in un‟aspra polemica basata su uno scambio di lettere aperte – lo stesso Vittorini e Palmiro Togliatti, allora segretario del PCI. D‟altronde, se subito dopo il secondo conflitto mondiale era la politica ad insidiare l‟indipendenza della cultura, nello scorcio conclusivo degli anni Sessanta è la volta di un‟ipoteca ben più pericolosa:
Ciò che minaccia oggi tale autonomia e tale libertà e non in maniera indiretta e tutto sommato civile (la discussione ed il dibattito avvenivano su un piano umanistico comune) delle sinistre è la furia produttiva e consumistica di una cultura di altra natura, che finirà con lo svisare completamente i caratteri letterari, sia pur modesti, della nostra provinciale Nazione, e falserà tutti i suoi valori stabilendone nuove gerarchie.(156)
L‟ultima prova, in ordine cronologico, di quanto nel campo della letteratura sia divenuta invasiva la presenza di interessi allotri – come magari li avrebbe definiti Croce –, nella fattispecie di carattere meramente economico, arriva dalla classifica provvisoria della manifestazione romana:
Come tale minaccia sia grave e incombente – e non remota, e tale da guardarsi col solito scetticismo trovato così comico dall‟opinione pubblica – basti guardare alcuni dei casi letterari-umani creatisi durante la recente campagna elettorale del Premio Strega, avvenuta appunto sotto la brutale volontà di successo di una casa editrice. (Penso, esplicitamente, ad alcuni critici di rotocalco, miei amici, che tuttavia io voglio persistere ad amare.)(157)
L‟inciso tra parentesi tonde, con tutta probabilità, serve a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, dato che chiama direttamente in causa i votanti rivelatisi franchi tiratori nel segreto dell‟urna. A costoro – ma in senso lato all‟intera classe intellettuale italiana – sono infatti indirizzati gli strali successivi:
Insomma, la brutalità dell‟industria culturale non deforma solo dei valori letterari, ma giunge a deformare le coscienze e a deteriorare l‟umanità. Altro che guide spirituali. Ci siamo ridotti, ancora una volta, al grado di buffoni: non di corte (dove almeno c‟era l‟alternativa dell‟altro, cioè della povertà e della realtà) ma del neocapitalismo (in cui l‟altro è costituito dal consumatore medio e dall‟irrealtà).(158)
Ecco dunque che, lungi dall‟essere un semplice «arengo di pura vanità»(159), lo “Strega” diviene un evento emblematico, o meglio «un caso di coscienza, e riguarda non solo il futuro personale di un singolo letterato in quanto letterato, ma anche il suo futuro di uomo, e la sua funzione pubblica di cittadino»(160). Si può insomma parlare di spartiacque, di una sorta di terminus post quem nella storia della cultura italiana del Novecento (e il cupo pessimismo che colora queste riflessioni, seppur in un altro campo d‟indagine, precorre gli accenti a tratti millenaristici del polemista corsaro e luterano):
La battaglia perduta del Premio Strega (e non posso essere ottimista in questo) sarà una battaglia perduta non dico dalla letteratura italiana, ma dalla cultura italiana. Vorrà dire che da ora in poi i libri saranno scritti da certi editori: vorrà dire che tutto ciò che una cultura letteraria può dare a una nazione, sarà totalmente negativo, in quanto sarà costituito da prodotti di consumo medi, dove tutto ciò che è la reale funzione del poeta, anche minore (protesta, contestazione, invenzione, innovazione, irriconoscibilità, problematica, scandalo, religiosità, dubbio, maledizione, vitalità) sarà scomparso.(161)
C‟è, tuttavia, ancora un margine di resistenza all‟invasione dei prodotti pseudo-culturali, preconfezionati in serie e calibrati sui gusti e le aspettative borghesi del pubblico. Nel caso specifico del premio, il fronte di opposizione può essere rappresentato dall‟arma di un consapevole e critico astensionismo:
Dunque, cari amici votanti, lasciate che la gente che non ha nulla a che fare con la letteratura, con la cultura e con una qualsiasi morale che abbia qualche accento di verità, voti per il libro che l‟editore e gli organizzatori del premio, ormai, evidentemente, dalla sua parte, vogliono che vinca. Ma voi, uomini di cultura, votate scheda bianca. Sarebbe, questa, la prima protesta collettiva della società letteraria italiana, sarebbe il suo primo titolo collettivo di merito.(162)
Optare, quindi, per la scheda bianca equivarrebbe ad una scelta dalla portata in qualche modo rivoluzionaria, al primo concreto tentativo, in Italia, di scuotere la repubblica delle lettere dal profondo torpore nel quale pare irreversibilmente piombata:
Infatti sarebbe sufficiente il cinquanta per cento più uno di schede bianche, perché la letteratura italiana – rappresentata, purtroppo parzialmente e arbitrariamente, nel corpo elettorale dello Strega – ottenesse la sua prima vittoria, esprimesse per la prima volta la sua decisione ad essere padrona di se stessa, e la sua scelta a lottare per una causa che è ancora così evidentemente la causa giusta.(163)
Se Vittorini – per continuare nell‟analogia con l‟editorialista del “Politecnico” – auspicava una cultura che riuscisse davvero a conquistare il potere (e di conseguenza fosse in grado di scongiurare il ripetersi degli orrori che avevano funestato la storia della prima metà del secolo), a distanza di poco più di vent‟anni Pasolini può solo incaricarsi di salvare la letteratura dal naufragio, ossia dal totale asservimento al potere della civiltà dei consumi. In questa ottica, per impedire che l‟arte di leggere e scrivere si trasformi nel relitto di se stessa, occorre una netta presa di posizione da parte dei letterati. Il salvataggio delle humanae litterae dall‟imbarbarimento passa innanzitutto attraverso l‟auto-riabilitazione degli scrittori, i quali – esortati alla maniera di sodali dall‟animus militante pasoliniano, cioè dal viscerale bisogno di denuncia e d‟intervento a 360° dell‟autore – sono chiamati a riappropriarsi del loro mestiere.
L‟autore di questo appello giornalistico aveva visto giusto nel preconizzare una «battaglia perduta» a proposito dell‟esito della votazione decisiva, durante la quale il primato del romanzo di Bevilacqua in effetti non venne scalfito, anzi finì con il rafforzarsi (forse raccogliendo anche qualche preferenza tra chi aveva inizialmente sostenuto la candidatura di uno dei concorrenti poi ritiratisi); d‟altra parte, però, l‟invito di Pasolini non può dirsi caduto completamente nel vuoto, considerata l‟alta percentuale di astenuti che fu registrata: «La sera del 4 luglio, al Ninfeo di Villa Giulia, ultima votazione, L’occhio del gatto di Alberto Bevilacqua vinceva con 127 voti: di contro, 117 schede bianche»(164). Come d‟abitudine, la presa di posizione pasoliniana sollevò voci di dissenso, talora espresse tutt‟altro che garbatamente («Alcuni elettori, intervistati alla televisione, indirizzarono a Pasolini insulti plateali»(165)), perché a molti – invero in maniera un po‟ troppo semplicistica – la ribellione dello scrittore parve una mossa studiata a tavolino, sulle orme del presunto stratagemma che aveva ispirato Teorema-libro: «Le polemiche ebbero fiato per qualche tempo. Il gossip voleva che Pasolini, per via della sua assenza dalla scena letteraria, avesse disegnato rientrarvi col chiasso della “contestazione globale alle istituzioni”»(166). In realtà, come ha fatto notare ancora Siciliano, «le ragioni della sfida erano tutt‟altro che contingenti»(167): «Pasolini sfidava, partecipando al premio e quindi ritirandosi da esso, la fragilità di una parte della critica letteraria italiana – quella che aveva accolto il romanzo di Bevilacqua con disattente quanto calorose esaltazioni»(168). Nel colpo di mano pasoliniano, insomma, si nascondeva ben più dell‟istintiva invidia per il vincitore o della banale ricerca del “rumore” mediatico: l‟urgenza, avvertita quale responsabilità connaturata al ruolo dell‟intellettuale, di «verificare, di nuovo, la “verità” di una letteratura»(169).
Il 4 settembre, a due mesi esatti dal giorno in cui Pasolini esortava i votanti a lasciare in bianco le schede e la giuria dello “Strega” assegnava invece il premio al discusso libro di Bevilacqua, la versione filmica di Teorema fu proiettata (in una prima visione riservata ai critici(170)) alla XXIX “Mostra internazionale d‟arte cinematografica” di Venezia. L‟onda lunga della contestazione – una seconda, metaforica “acqua alta” – dilagò anche nella città lagunare, tra «giovani e cineasti che facevano sit-in», «interventi della polizia», «proteste e controproteste»(171):
Sensibile alle sirene della contestazione, l‟Associazione Nazionale Autori Cinematografici (ANAC), spalleggiata in questa battaglia dai partiti della sinistra (PCI, PSIUP e la frangia di sinistra del Partito Socialista Unitario, effimero raggruppamento nato dalla fusione del Partito Socialista di Nenni con il Partito Socialista Democratico di Saragat) e dal movimento studentesco, lancia un appello per la modifica dello “statuto fascista” della Biennale di Venezia, il boicottaggio della rassegna cinematografica e, previo dimissionamento degli organi direttivi, l'autogestione della Mostra da parte degli stessi cineasti.(172)
Nella circostanza, il Pasolini regista esordì alla mostra con una mossa che ne accomunò il comportamento a quello tenuto settimane addietro nelle vesti di scrittore:
All‟inizio della proiezione Pasolini chiese che i presenti abbandonassero la sala per protestare contro il presidente Chiarini che difendeva, nella sostanza, lo status quo della Mostra.
[…]
Comunque, il pubblico degli specialisti non disertò la proiezione di Teorema. Seguì, nei giardini dell‟hotel Des Bains, al Lido, una conferenza-stampa improvvisata. Pier Paolo venne accusato di far «capriole»: contestava e insieme trovava il modo di non spiacere agli obblighi contratti col produttore, si salvava l‟anima con la contestazione e non perdeva d‟occhio il box-office.(173)
Tuttavia, questa non fu che l‟ultima conseguenza di una decisione controversa, maturata dopo alcuni ripensamenti di cui recano tracce, innanzitutto, due articoli apparsi di nuovo sul “Giorno”, rispettivamente il 15 ed il 22 agosto, entrambi in anticipo sulla data d‟inaugurazione della rassegna veneziana (che avrebbe dovuto aprire i battenti il 27). Il primo pezzo – che già dal titolo sembra sgombrare il campo dagli equivoci: Perché vado a Venezia(174 )– si apre sulle note di una risposta ad un altro intervento giornalistico:
Finalmente è uscito sul Festival di Venezia un articolo che, pur contestandolo (Dio solo sa che sforzo faccio su me stesso per usare questa che è diventata la parola di un nuovo conformismo), lo fa pacatamente e ragionando. Si tratta di un breve intervento del critico Mino Argentieri (“Rinascita”, n. 32). Va bene, Argentieri scrive da uomo iscritto a un partito, e i suoi argomenti sono gli argomenti della linea politica di un partito, che è, eternamente, la solita (cfr. la mia Polemica in versi del ‟57), e che implica quindi una sorta di cinismo strumentalizzatore e una certa dose di cosciente calcolo. Tuttavia il discorso di Argentieri è “pacato”: non è terroristico. E questo è già molto, direi che è tutto, in un momento in cui il “fascismo di sinistra” (che è fenomeno assolutamente nuovo: non ha nulla a che fare con la analogia istituita dal basso anticomunismo nel passato, tra totalitarismo fascista e totalitarismo staliniano: che è una bestialità), in cui il fascismo di sinistra, dico, ha creato una situazione di vero e proprio terrore ideologico.(175)
Nel capoverso iniziale troviamo subito confessata l‟idiosincrasia per la moda linguistica connessa al termine “contestazione”, sotto la quale si cela infatti il concreto pericolo di un «nuovo conformismo», altrettanto odioso di quello che i ribelli vorrebbero chiassosamente lasciarsi alla spalle. Che lo spirito del testo sottintenda, così, la vena caustica del PCI ai giovani!! è poi confermato dalle osservazioni con cui di sfuggita viene apostrofato il principale partito della sinistra italiana, arroccato su una condotta «che è, eternamente, la solita» (ed è significativo, a proposito, il rimando esplicito alla Polemica in versi di un decennio prima, antenata ideologica del pamphlet anti-studentesco). Ma ad una vecchia polemica segue presto un nuovo bersaglio, individuato nell‟ambiguo fenomeno del cosiddetto «fascismo di sinistra», ossimoro che nasconde un altro fraintendimento lessicale. E dopo aver distinto in tre schieramenti i vari oppositori della rassegna cinematografica veneziana (le persone che «forse inconsciamente, lottano contro il Festival perché non vi sono mai state invitate e non avranno mai la possibilità di esserlo»(176); un «folto gruppo di uomini politici, che, sapendo che Chiarini ha deciso di lasciare la direzione della Mostra, cercano per se stessi, o per il loro gruppo di potere la successione»(177); una «maggioranza di generici rappresentanti della contestazione, contro cui io non ho nulla da dire, perché sono su tutto d‟accordo con loro»(178), Pasolini chiarisce – in un lungo periodo parentetico – quali siano gli aspetti salienti di questa ibrida formazione di carattere para-politico:
(Ecco perché parlavo del “fascismo di sinistra” come di un fenomeno del tutto nuovo: basti guardare qualche suo aspetto esteriore: accanto agli slogans rivoluzionari ricalcati su quelli delle réclames, c‟è stata una inaspettata riscoperta delle bandiere: cioè, accanto a uno spirito di corpo ricalcato su modelli della società dei consumi, assolutamente conformista, c‟è uno spirito di corpo riesumato imprevedibilmente da vecchi tipi di collettività).(179)
Dell‟odierno, reale «fascismo di sinistra», la maggioranza dei contestatori – con i quali, peraltro, lo scrittore ha appena precisato di concordare pienamente – non riesce a intuire l‟inquietante pericolosità e di conseguenza non sa prendere le distanze, con il risultato di «subire, senza consapevolezza, quasi, una situazione storica nuova, che crea e scatena, in seno alla società opulenta o quasi opulenta, correnti fanatiche straordinariamente simili a quelle medioevali»(180). L‟autore dell‟articolo oggetto della replica pasoliniana fa parte comunque di un quarto, ulteriore fronte di opposizione alla mostra:
Restano, in fondo alla lista, gli oppositori veri, che non è esatto definire contestatori (parola giusta per l‟America e la Germania, dove la classe operaia non è politicamente organizzata e cosciente: dove non c‟è insomma una esplicita e codificata lotta di classe). Argentieri, comunista, appartiene a questo tipo di persone: il che significa che dovremmo essere d‟accordo: e infatti lo siamo.(181)
I motivi della convergenza di idee con Argentieri trovano posto nei due successivi capoversi, dove sono spiegati sia in generale che in particolare. Dapprima viene dichiarata la sintonia di vedute sul triangolo equilatero arte-impegno-politica (e ancora una volta fa capolino all‟explicit il motto all'insegna del quale si era chiuso l‟intervento al convegno su Don Milani e la scuola di Barbiana):
Siamo d‟accordo sul fatto che l‟opera di un artista deve... essere impegnata! (Vorrei sapere però che ne dicono gli “operatori culturali” comunisti del loro giro di valzer testé conclusosi, con le avanguardie: come possono conciliare la loro “apertura” verso il disimpegno delle avanguardie, con questa apertura verso il “nuovo impegno” studentesco). Siamo d‟accordo che l‟opera di un artista deve nascere nello stesso terreno in cui nasce la sua azione politica; e che è anzi una cosa sola con questa (benché la identificazione sia piena di contraddizioni, anche insolubili). Siamo d‟accordo sul fatto che in certi momenti l‟artista deve avere il coraggio civile di smettere di esprimersi attraverso la mediazione delle opere, ed esprimersi invece direttamente, attraverso la sua propria esistenza: cioè «gettare il proprio corpo nella lotta», come dice un meraviglioso slogan della Nuova Sinistra americana.(182)
Poi si passa al caso specifico della manifestazione lagunare, citando testualmente dal pezzo di Argentieri alcuni passaggi relativi alle azioni concrete da intraprendere per riformare l‟ormai obsoleto statuto della mostra (e in senso lato dare una scossa all‟intero sistema del cinema italiano):
Siamo d‟accordo infine su tutto ciò che si deve pretendere dalla Mostra di Venezia (per rientrare nel nostro ristretto e marginale argomento) e su tutto ciò che si deve fare per riformare il codice fascista. Siamo d‟accordo, insomma, sull‟intera azione politica che Argentieri stralcia e prospetta:
«autogestione degli enti pubblici per conquistare qualche margine di autonomia a favore di una produzione che non sia dominata da intenti commerciali e speculativi»; «non un soldo dello Stato al cinema d‟evasione», ecc. ecc.; «aprire in seno al movimento operaio canali per un cinema di opposizione»; «rinnovare le strutture culturali del cinema», ecc. ecc.(183)
Arriva però anche il momento dei distinguo, perché la concordanza con l‟«urbano intervento»(184) del giornalista di “Rinascita” non è totale, trasformandosi anzi in divergenza laddove Argentieri affermava – in poche parole – che un regista “serio” deve rassegnarsi ad incrociare le braccia in attesa di tempi migliori, cioè fino a quando non saranno mutate le condizioni sociali e non sarà maturato il pubblico giusto per assistere con consapevolezza alla proiezione di certe pellicole:
Nel frattempo però, e qui si pone il problema concreto, l'artista non può essere obbligato a tacere. Io non mi sento obbligato a non fare più film, finché, per esempio, non si sarà trovato il modo di aprire in seno al movimento operaio un canale per distribuirli. Perciò, nell‟interregno (mentre, come Argentieri sa bene, continuerò la mia lotta politica “gettandovi il mio corpo” come sempre, e sfido qualcuno a dimostrare il contrario), io penso che si debba «continuare a sfruttare cinicamente il sistema». Questa coscienza è l‟unica, poi, che liberi dal meccanismo fatale per cui il sistema riassorbe sempre, in qualche modo, l‟artista. Voglio dire che io purtroppo, e così tutti i miei colleghi cineasti e anche scrittori, dovremo continuare a usare, per fare le nostre opere e farle conoscere, ancora per molto tempo, delle strutture culturali esistenti. E lo faremo appunto cinicamente, mentre continueremo a lottare (con le opere e con le azioni) contro di esse, per crearne di nuove.(185)
Uno sfruttamento cinico del sistema è la soluzione in grado di aggirare la drastica scelta del silenzio, inconcepibile per ogni vero artista, che deve essere mosso piuttosto da un costante spirito di partecipazione alla vita civile tramite le proprie opere. Detto in altri termini, ciò significa non aver timore di gettare se stessi nell‟agone sociale, sfuggendo alle lusinghe del sistema, che – come insegnano i classici del pensiero marxista – alla fine, pur di renderli innocui, non combatte ma riassorbe i suoi più pervicaci detrattori. Tra parentesi, va inoltre sottolineato come in queste righe ci sia, in nuce, quella sorta di salvacondotto che Pasolini chiamerà in causa una decina di giorni più avanti, quando – nelle colonne della rubrica personale tenuta sul settimanale “Tempo” – fornirà ulteriori chiarimenti sul suo atteggiamento, contraddittorio agli occhi tanto dell‟opinione pubblica quanto degli addetti ai lavori: prima ritirare dallo “Strega” Teorema-libro per protestare contro l‟invadenza dell‟industria culturale in campo letterario; poi presentare alla mostra di Venezia Teorema-film come se niente fosse, senza curarsi dell‟influenza degli incassi al botteghino (equivalenti alle ragioni di tiratura del mercato librario) nella produzione delle pellicole. Assodato che «impedire la proiezione dei film alla Mostra di Venezia è quindi perfettamente inutile»(186)(infatti «è certo che, prima di tutto, il codice fascista della Biennale verrà riformato, e poi che il Festival si trasformerà secondo esigenze più moderne, ormai inevitabili»(187)), resta da ribattere alla prevedibile reazione della massa che guida la contestazione:
La risposta dei contestatori, anche dei migliori, è facilmente immaginabile: gli autori invitati devono sacrificarsi ai più alti fini della contestazione e, in fondo, per protesta, farebbero anche bene a bruciare pubblicamente le loro opere (come primo atto di un futuro sciopero e ascesi globale). Ma tale risposta è profondamente antipopolare e aristocratica.(188)
Facinorosi o ragionevoli che siano, questi oppositori ignorano in particolare tre fattori che rendono superflua e sleale la loro protesta contro la rassegna veneziana: innanzitutto, «quanto noi vogliamo ottenere da Venezia, lo otterremo, anche se i film verranno proiettati»; in secondo luogo, «il cittadino italiano [...] è, in tale azione contestatrice, ignorato e disprezzato [...] perché egli non solo non condividerà mai, ma non potrà nemmeno mai concepire, una contestazione “puramente negativa”»; infine, «chiedere agli autori cinematografici di non voler raggiungere tale pubblico [...] significa non richieder loro qualcosa di esterno all‟opera, ma qualcosa che riguarda l‟opera nel suo interno, nel suo esserci, nel suo stile: ossia offenderla»(189). Pertanto, fatte salve ancora una volta le sintonie ideologiche, la scelta pasoliniana è presto compiuta:
Dunque, io sono d'accordo con Argentieri e, quindi, con l‟Anac e con l‟intero movimento di dissenso, sulle rivendicazioni contro il Festival di Venezia e ciò che esso rappresenta: si tratta di una lotta per i più elementari diritti democratici, e aderirvi è il minimo che si possa fare. Tuttavia accetto l‟invito e mando il mio film a Venezia.(190)
E, nell‟avviarsi alla conclusione, il regista motiva ulteriormente la propria decisione, ribadendo il vero avversario cui essa intende contrapporsi:
La mia scelta è contro il fascismo di sinistra. Mi sono, naturalmente, interrogato a lungo, e ho analizzato ciò che più offende in questo momento la mia coscienza: mi sono così accorto che il vecchio conformismo accademico, ufficiale, dell‟establishment mi è totalmente estraneo: ho verso di esso una ripugnanza ormai abitudinaria, e gli rispondo con la leggerezza irridente e sacrilega del cinismo. Esso quindi offende meno la mia coscienza, e la mia maniaca esigenza di libertà, di un nuovo conformismo che, al contrario del vecchio, non può non imporsi, aggressivamente, moralisticamente, e non solo per il presente, ma con tutta probabilità per il prossimo futuro. È il conformismo – tanto per definire l‟indefinibile, e concretarlo in un nome – di certa frangia del Psiup che è rifugio di vecchi moralisti finti giovani e di giovani borghesi pieni insieme di un profondo senso di colpa e di una aggressiva coscienza dei propri diritti.(191)
Nell‟Italia di fine anni Sessanta, un atteggiamento che metaforicamente somiglia ad una melassa «indefinibile» – e che trova in una formazione partitica coeva il suo corrispettivo politico – inizia a far breccia nell‟opinione pubblica, cavalcando la tigre delle mode contestatorie. Messe a confronto con le future, spietate requisitorie “corsare” e “luterane” sulla mutazione antropologica del nostro popolo, queste poche righe acquistano la valenza di una diagnosi precoce, ancorché vergata dalla mano malferma di uno studioso che si rende conto di assistere al primo manifestarsi di un cambiamento sociale dalla portata epocale e sente di non possedere, al momento, gli strumenti adatti per descriverlo meglio. Il «nuovo conformismo che [...] non può non imporsi, aggressivamente, moralisticamente, e non solo per il presente, ma con tutta probabilità per il prossimo futuro» è a tutti gli effetti antesignano dell‟imbarbarimento criminaloide della gioventù sul quale, circa un lustro più avanti, punterà l‟indice il polemista maturo in alcuni fra gli articoli più emblematici. La reazione istintiva (forse addirittura smisurata agli occhi di un osservatore esterno) di fronte a questo fumo invisibile destinato ad ottenebrare la mente e inaridire il cuore degli italiani, massime delle più giovani generazioni, è un categorico rifiuto, che – se ne intravedono le avvisaglie – con il passare del tempo sconfinerà in una simbolica dichiarazione di guerra:
Mi si dirà: ma si tratta di un particolarismo, combatterlo così clamorosamente non vale la pena. Rispondo: è un fatto importante, invece, è un nuovo momento intellettuale che dominerà a lungo il nostro futuro; esso è già riuscito a creare, in modo dilagante e irrefrenabile, un idealismo estremistico che rende subito celebrativi e fanatici i risultati raggiunti (anche magari buoni e rispettabili), erigendo un cerchio di sacralità intorno alle proprie idee (anche magari giuste):così che ne è nato subito un cumulo di discriminazioni, vigliaccherie, condanne, linciaggi, ricatti, calcoli, esaltazioni: insomma, il terrore. Non solo non intendo lasciarmi sopraffare da tale terrore, ma per quanto è in me lotterò perché la coscienza della sopraffazione che ne emana sia comune e diffusa; perché l‟opinione pubblica sia “sensibilizzata” (si dice così?) a questa nuova mitizzazione del razionalismo laico e progressista, sconsacrandola subito, sul nascere.(192)
136 Cfr. E. SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., p. 412.
137 P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, cit., pp. 122-143.
138 Ivi, pp. 132-133.
139 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 153-154.
140 Ivi, p. 154.
141 Ivi, p. 153.
142 Ivi, p. 154.
143 E. SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., p. 411.
144 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 154-155.
145 Ivi, p. 155.
146 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 159-162.
147 Ivi, p. 159.
148 Ibidem.
149 Ibidem.
150 Ivi, pp. 159-160.
151 Ivi, p. 160.
152 Ibidem.
153 Ibidem.
154 Ivi, pp. 160-161.
155 Il fascicolo d‟esordio del periodico uscì con la data del 29 settembre 1945.
156 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 161.
157 Ibidem.
158 Ibidem.
159 Ibidem.
160 Ivi, pp. 161-162.
161 Ivi, p. 162.
162 Ibidem.
163 Ibidem.
164 E. SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., pp. 412-413.
165 Ivi, p. 413.
166 Ibidem.
167 Ivi, p. 412.
168 Ibidem.
169 Ibidem.
170 Ivi, p. 414.
171 Ibidem (per tutte e tre le citazioni).
172 F. GRATTAROLA, Pasolini. Una vita violentata, cit., p. 229.
173 Ibidem.
174 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 163-169.
175 Ivi, p. 163. Il pezzo di Argentieri – Risposta a Bertolucci e Pasolini – era apparso sul numero del 9 agosto. Tra parentesi, si può segnalare il piccolo lapsus pasoliniano a proposito della Polemica in versi, che infatti non risale al 1957 ma uscì sulla rivista "Officina" nel novembre dell‟anno precedente (cfr. Note e notizie sui testi, cit., p. 1749).
176 Ivi, pp. 163-164.
177 Ivi, p. 164.
178 Ibidem.
179 Ibidem.
180 Ibidem.
181 Ibidem.
182 Ivi, p. 165.
183 Ibidem.
184 Ivi, p. 163.
185 Ivi, pp. 165-166.
186 Ivi, p. 166.
187 Ibidem.
188 Ivi, p. 167.
189 Ivi, pp. 167-168.
190 Ivi, p. 168.
191 Ivi, pp. 168-169.
192 Ivi, p. 169.
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