"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini in Friuli:
1° parte
2° parte
3° parte
4° parte
5° parte
6° parte
7° parte
8° parte
Come gli Ebrei consegnano le loro cetre ai salici, demotivati al canto se la patria è lontana, allo stesso modo Pasolini teme il silenzio della parola poetica lontano dalle sue “amate rocce e boschi”.
“Agosto è sul morire (...)
O mio paese, io di già sento che le tue foglie
sono pronte a cadere. Alberi già famigliari
ecco che a me si toglie il tremante silenzio della neve. (...)
Qui non cesserà la vita. Ma ignote mi sarete
risa, fatiche, e cadenti nevi...
O nostalgia
del tempo presente! (...)”. (50)
O mio paese, io di già sento che le tue foglie
sono pronte a cadere. Alberi già famigliari
ecco che a me si toglie il tremante silenzio della neve. (...)
Qui non cesserà la vita. Ma ignote mi sarete
risa, fatiche, e cadenti nevi...
O nostalgia
del tempo presente! (...)”. (50)
La «prematura nostalgia» che riempiva i canti dell'estate casarsese è destinata a trasformarsi in acuto dolore per l'imminente ritorno a Bologna. Scrive nell'estate a Franco Farolfi: “Tremo all'idea della partenza. (...) Credo che non ci sia cosa più bella della vita in campagna, nel paese natío, tra semplici amici”. (51)
Dopo la scoperta di Casarsa come ideale lucus poetico e trepidante «utero linguistico», a Pier Paolo sembra che in nessun altro luogo della terra possa ripetersi lo «sciogliersi del canto al mattino». (52)
“Super flumina Babylonis, illic sedimus
Et flevimus, dum recordaremur tui, Syon.
In salicibus, in medio eius, suspendimus organa
[nostra”. (53)
Nell'esergo di una poesia, Nostalgia del tempo presente, Pasolini, ricorda le parole che il popolo ebreo in esilio rivolge all'amata e lontana Gerusalemme, e con accorata nostalgia destina il verso poetico alla sua «perduta, Syon», Casarsa:
“Quando rievocherò, sospeso il canto, (...)”. (54)
Come gli Ebrei consegnano le loro cetre ai salici, demotivati al canto se la patria è lontana, allo stesso modo Pasolini teme il silenzio della parola poetica lontano dalle sue “amate rocce e boschi”.
Lucidi e maturi, i grappoli d'uva splendono al sole dell'ormai prossimo autunno casarsese, ma il nostro poeta non aspetterà la vendemmia, l'«amica gente» continuerà le sue occupazioni, indifferente «alla figura nostalgica dell'assente». (55) Pasolini nel settembre del 1941 ritorna a Bologna «dove ha affondato radici e ricordi da molti anni, e ha antiche consuetudini e cose che si ripetono secondo un uso ormai divenuto caro (…). (56)
Ma de loinh ("da lontano"), il giovane poeta, benché “strappato e remoto” dalle terre friulane, non sospenderà il suo canto, la sua cetra continuerà a suonare, continuerà a ripetere, ricordandoli, i suggestivi suoni del dialetto friulano.
“Ab l'alen tir vas me l'aire
Qu'eu sen venir de Proensa:
Tot quant es de lai m'agensa”. (57)
Nonostante i numerosi impegni intellettuali a Bologna, non resiste al desiderio di ritornare a Casarsa, in quei posti che sempre più si identificano con la sua ambizione poetica; così anticipando il trasferimento estivo, parte per il Friuli nella primavera del '42. Qui, chiuso nel mistero e nella poeticità più accorati, Pier Paolo riprende a scrivere poesie in friulano, le quali vanno a completare la raccolta che intende pubblicare al più presto col titolo Poesie a Casarsa.
L'urgenza di Pavese sembra essere la stessa di Pasolini, l'urgenza di spiegare attraverso il mito l'origine di una terra ma soprattutto l'origine, il significato del proprio esserci nel mondo.
Intanto, alimentata e consolata da letture erudite, la sua tensione poetica si fa sempre più chiara: “Pier Paolo Vergerio e Leonardo Bruni mi sono di consolazione, (...) perché dicono i poeti essere gli unici grandi educatori dell’umanità. (...) Viva i poeti, come siamo noi”. (58)
Questa certezza è il punto di consolazione oggettiva anche nello «spleen» e nella stanchezza più estenuanti: «tutto può, nella poesia, avere una soluzione». (59) Con il suo solito atteggiamento da leader della compagnia degli «Eredi», scrive a Luciano Serra dal campo militare di Porretta Terme dove sta seguendo un corso di allievo ufficiale di complemento:
“Il riso è vero, la sofferenza è congenita. Io e tu crediamo al riso: nella vita a vele spiegate; al futuro in bonaccia. Noi siamo poeti.
L’ambizione è coscienza di noi. Il futuro è certo. (...) Il campo è un inferno, ma lo vivo per la memoria. Lavo le gavette: orribile cosa! (...) Ma la vita pianta le sue radici dappertutto, e la coda le rinasce come alle lucertole. Io vivo”. (60)
Ritornato a Bologna con i nuovi manoscritti, prepara la pubblicazione del libretto di poesie “dialettali”(61): Poesie a Casarsa. Il libretto viene subito notato dal maestro «de loinh» Gianfranco Contini che gli dedica una recensione in cui esprime la sua profonda ammirazione per il lavoro. Le parole del grande maestro rappresentano per il nostro letterato in erba la conferma della validità di una poetica che aveva solo confusamente intuito. Pasolini è rilanciato nel suo lavoro e, trepidante d’entusiasmo, non può che aspettare l’estate per ritornare nell’«eterno Friuli».
A Casarsa, nell’estate del ‘42 tutto si è ricomposto come nelle precedenti, ma davanti agli occhi di Pier Paolo si spalanca “un nuovo incanto, un nuovo sogno, e un nuovo mistero”. Ora è cosciente di possedere «un’anima come possibilità», la possibilità di entrare a far parte di quell’inesauribile incanto, la possibilità di «ritrovare dentro questa natura le fonti stesse dell’essere». (62)
A questo punto ci permettiamo di citare una lettera che Cesare Pavese scrive da Santo Stefano Belbo a Fernanda Pivano, frutto di una sorprendente e del tutto inaspettata scoperta. Il maturo poeta delle Langhe piemontesi proprio nell’estate del 1942 descrive, a nostro parere, il desiderio che, nella sua aurorale verginità poetica, covava il nostro giovanissimo Pasolini nel suo «esteso mondo» friulano: “(...) so che il mio mestiere è di trasformare tutto in «poesia». Il che non è facile. (...) Quanto ho scritto finora erano sciocche cose, tracciate secondo schemi allotrî, che non hanno nessun sapore dell’albero, della casa, del sentiero, ecc. come li conosco. (...) Ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti (...), per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo. (...) Descrivere paesaggi è cretino. Bisogna che i paesaggi - meglio, i luoghi, cioè l’albero, la casa, la vite, il sentiero, il burrone - vivano come persone come contadini, e cioè siano mitici. (...) Ho capito le Georgiche. Le quali non sono belle perché descrivono con sentimento la vita dei campi, (...), ma bensì perché irridono tutta la campagna in segrete realtà mitiche, vanno al di là della parvenza, mostrano anche nel gesto di studiare il tempo o affilare una falce, la dileguata presenza di un dio che l’ha fatto o insegnato”. (63) L’urgenza di Pavese sembra essere la stessa di Pasolini, l’urgenza di spiegare attraverso il mito l’origine di una terra ma soprattutto l’origine, il significato del proprio esserci nel mondo; dunque, il senso del suo posto nel mondo non può essere una mera e sentimentale descrizione paesaggistica, come dirà più tardi attaccando la ottocentesca poetica zoruttiana, ma “il poetare” che «nomina il sacro» (64), il far affiorare attraverso il suo canto la sacra presenza di padri e madri, di una generazione insomma, che ha modellato i suoi campi ed ha insegnato a farlo.
“(...) uno sguardo umano rivolto a quell’imperturbato orizzonte ha fatto nascere la storia di questa regione”. (65) Dunque, il mito come storia, non come qualcosa di asettico: il mito come accadimento dell’origine dell’essere.
Questa certezza è il punto di consolazione oggettiva anche nello «spleen» e nella stanchezza più estenuanti: «tutto può, nella poesia, avere una soluzione». (59) Con il suo solito atteggiamento da leader della compagnia degli «Eredi», scrive a Luciano Serra dal campo militare di Porretta Terme dove sta seguendo un corso di allievo ufficiale di complemento:
“Il riso è vero, la sofferenza è congenita. Io e tu crediamo al riso: nella vita a vele spiegate; al futuro in bonaccia. Noi siamo poeti.
L’ambizione è coscienza di noi. Il futuro è certo. (...) Il campo è un inferno, ma lo vivo per la memoria. Lavo le gavette: orribile cosa! (...) Ma la vita pianta le sue radici dappertutto, e la coda le rinasce come alle lucertole. Io vivo”. (60)
Ritornato a Bologna con i nuovi manoscritti, prepara la pubblicazione del libretto di poesie “dialettali”(61): Poesie a Casarsa. Il libretto viene subito notato dal maestro «de loinh» Gianfranco Contini che gli dedica una recensione in cui esprime la sua profonda ammirazione per il lavoro. Le parole del grande maestro rappresentano per il nostro letterato in erba la conferma della validità di una poetica che aveva solo confusamente intuito. Pasolini è rilanciato nel suo lavoro e, trepidante d’entusiasmo, non può che aspettare l’estate per ritornare nell’«eterno Friuli».
A Casarsa, nell’estate del ‘42 tutto si è ricomposto come nelle precedenti, ma davanti agli occhi di Pier Paolo si spalanca “un nuovo incanto, un nuovo sogno, e un nuovo mistero”. Ora è cosciente di possedere «un’anima come possibilità», la possibilità di entrare a far parte di quell’inesauribile incanto, la possibilità di «ritrovare dentro questa natura le fonti stesse dell’essere». (62)
A questo punto ci permettiamo di citare una lettera che Cesare Pavese scrive da Santo Stefano Belbo a Fernanda Pivano, frutto di una sorprendente e del tutto inaspettata scoperta. Il maturo poeta delle Langhe piemontesi proprio nell’estate del 1942 descrive, a nostro parere, il desiderio che, nella sua aurorale verginità poetica, covava il nostro giovanissimo Pasolini nel suo «esteso mondo» friulano: “(...) so che il mio mestiere è di trasformare tutto in «poesia». Il che non è facile. (...) Quanto ho scritto finora erano sciocche cose, tracciate secondo schemi allotrî, che non hanno nessun sapore dell’albero, della casa, del sentiero, ecc. come li conosco. (...) Ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti (...), per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo. (...) Descrivere paesaggi è cretino. Bisogna che i paesaggi - meglio, i luoghi, cioè l’albero, la casa, la vite, il sentiero, il burrone - vivano come persone come contadini, e cioè siano mitici. (...) Ho capito le Georgiche. Le quali non sono belle perché descrivono con sentimento la vita dei campi, (...), ma bensì perché irridono tutta la campagna in segrete realtà mitiche, vanno al di là della parvenza, mostrano anche nel gesto di studiare il tempo o affilare una falce, la dileguata presenza di un dio che l’ha fatto o insegnato”. (63) L’urgenza di Pavese sembra essere la stessa di Pasolini, l’urgenza di spiegare attraverso il mito l’origine di una terra ma soprattutto l’origine, il significato del proprio esserci nel mondo; dunque, il senso del suo posto nel mondo non può essere una mera e sentimentale descrizione paesaggistica, come dirà più tardi attaccando la ottocentesca poetica zoruttiana, ma “il poetare” che «nomina il sacro» (64), il far affiorare attraverso il suo canto la sacra presenza di padri e madri, di una generazione insomma, che ha modellato i suoi campi ed ha insegnato a farlo.
“(...) uno sguardo umano rivolto a quell’imperturbato orizzonte ha fatto nascere la storia di questa regione”. (65) Dunque, il mito come storia, non come qualcosa di asettico: il mito come accadimento dell’origine dell’essere.
NOTE
50. Seconda elegia, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.85.
51. PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 78.
52. Cfr. ibid, p.91.
53. In Salmo 136 (1-2) dell'Antico Testamento. I versi dicono: "Lungo i fiumi di Babilonia / sedevamo in pianto, ricordandoci di Syon. / Sospese ai salici di quella terra / tenevamo le nostre cetre".
54. Paesi nella memoria, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.55.
55. Cfr. Al nuovo lettore di Pasolini, di Nico Naldini, in Un paese di temporali e di primule, cit. p.36.
56. Cfr. PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.115.
57. Cfr. Tutte le poesie, tomo I, P. P. PASOLINI, cit., p. 3. Riprendiamo il già citato verso poetico di Peire Vidal per ricordare il sentimento che lega Pasolini alla terra friulana.
58. A Luciano Serra, San Vito di Cadore, 31 maggio 1942, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, p. 128.
59. Poeta delle ceneri, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo II, cit., p. 1268.
60. In PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.135.
61. Si tratta di poesie scritte in friulano, ma abbiamo ritenuto opportuno scrivere tra virgolette l’espressione «dialettale» per sottolineare la precarietà del termine per Pasolini. In seguito nel nostro lavoro approfondiremo la «tranquilla polemica» del nostro autore verso Zorutti, poeta vernacolare della tradizione friulana.
62. Cfr. ALBERTO ASOR ROSA, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1965, p. 432.
63. In CESARE PAVESE, Lettere 1926-1950, Einaudi, Torino 1966, p. 425.
64. Cfr. M. HEIDEGGER, Poscritto a «Che cos’è metafisica?», Adelphi, Milano 2001, p. 85.
65. Di questo lontano Friuli, «Libertà», 13 novembre 1946; ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 218.
59. Poeta delle ceneri, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo II, cit., p. 1268.
60. In PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.135.
61. Si tratta di poesie scritte in friulano, ma abbiamo ritenuto opportuno scrivere tra virgolette l’espressione «dialettale» per sottolineare la precarietà del termine per Pasolini. In seguito nel nostro lavoro approfondiremo la «tranquilla polemica» del nostro autore verso Zorutti, poeta vernacolare della tradizione friulana.
62. Cfr. ALBERTO ASOR ROSA, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1965, p. 432.
63. In CESARE PAVESE, Lettere 1926-1950, Einaudi, Torino 1966, p. 425.
64. Cfr. M. HEIDEGGER, Poscritto a «Che cos’è metafisica?», Adelphi, Milano 2001, p. 85.
65. Di questo lontano Friuli, «Libertà», 13 novembre 1946; ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 218.
Autore: Chieco, Mariella
Curatore: Leonardi, Enrico
Curatore: Leonardi, Enrico
Curatore, Bruno Esposito
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