"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
LA RABBIA di Pasolini
di Angela Molteni
Nei primi mesi del 1963 Pasolini, accettando una proposta del produttore Gastone Ferranti, iniziò a selezionare brani da vecchi cinegiornali e documentari. Parte di questi materiali gli servirono per realizzare una sorta di “saggio-documentario” sul tema: “Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”.
Pasolini, nel film La rabbia, precisa subito, sulle note
dell’Adagio di Albinoni e tramite la
“voce narrante” di Renato Guttuso, che risponde a tali domande “senza seguire
alcun filo cronologico e forse neppure logico”, esponendo soltanto le sue
ragioni politiche e il suo sentimento poetico. Gli avvenimenti cui fa cenno nel
film sono in parte sottolineati anche da suoi testi poetici letti da Giorgio
Bassani.
Vi è
una particolare attenzione ai problemi degli “uomini di colore”, cioè a quei
popoli in prevalenza del Terzo Mondo assoggettati al colonialismo, che proprio
in quegli anni – anche attraverso rivolte inizialmente contrastate con violenza
da quegli stessi poteri coloniali – intendevano conquistare la propria libertà
(“gente di colore... / è nella speranza che la gente non ha colore... / è nella
vittoria che la gente non ha colore...).
Scorrono così le immagini della crisi
d’Algeria e della rivolta di quel popolo contro il tronfio dominio francese
(“Una crisi che ricrea la morte vuole vittime la cui vittoria è certa”, commenta
Pasolini); delle ribellioni delle genti del Congo, dei cubani che riscattano la
loro terra da una sorta di colonialismo statunitense e la liberano dalla
dittatura di Batista. In quest’ultimo “affresco”, sottolineato da canzoni di
lotta cubane, e mentre scorrono immagini di guerra, di morte, di disperazione,
il Poeta suggerisce: “... forse solo una canzone poté dire che cos’era il
combattere a Cuba... / ... forse solo una canzone poté dire che cos’era il
morire a Cuba” e ribadisce: “... gente di colore / è nella vittoria che la gente
non ha colore”.
Ma è
messa in risalto, già all’inizio del film, anche la rivolta d’Ungheria del 1956
contro la repressione dei carri armati sovietici, simboli di quella nomenklatura grigia e ottusa che finirà
per portare allo sfacelo tutte le grandi speranze della Rivoluzione.
Il
film prosegue mettendo in luce altre storture dei Paesi capitalistici: la guerra
tra Israele ed Egitto; l’India e la rilevanza della figura di Gandhi contro un
potere che letteralmente affama il popolo; il franchismo, cioè il fascismo
spagnolo e le sue squallide autocelebrazioni. Non manca l’accenno critico al
simbolo stesso del capitalismo di casa nostra: la Fiat (“comprare un operaio non
costa nulla...”).
Dall’incoronazione di Elisabetta II in
Inghilterra (“una cerimonia vecchia di 2000 anni”), Pasolini trae spunto per
denunciare l’imborghesimento già ampiamente in atto nelle classi sfruttate di
quel Paese (quale sarà il futuro di una classe operaia che “oggi sciopera per
l’ora del tè”?); mentre dalla Convention del Partito repubblicano per
le primarie (da cui uscirà la candidatura a Presidente di Eisenhower) ricava
alcune considerazioni sul sistema americano (“quando sarà inarrestabile il ciclo
della produzione e del consumo, allora la nostra Storia sarà finita...”).
Seguono spezzoni di altri cinegiornali: una esplosione atomica; Pasolini la
chiama “questo irriconoscibile sole” e aggiunge che poi, dopo, “sarà
preistoria”.
“Il
sentimento della libertà ha le sue origini in visi simili”, dice il Poeta, e
mostra volti sorridenti di gente comune in Unione Sovietica (“mio padre ha
combattuto contro lo zar e il capitalismo [...]” Chi ieri era servo della gleba,
oggi è “il primo figlio istruito di una generazione che non ha avuto nulla, se
non calli nelle mani e pallottole nel petto”). Più avanti, Pasolini aggiungerà:
“La Rivoluzione vuole una sola guerra: quella dentro gli spiriti, che
abbandonano al passato le vecchie, sanguinanti strade della Terra”.
Pasolini definisce il pianto dei bambini
del Terzo Mondo, che patiscono la fame “un singhizzo che squassa il mondo”. E la
guerra, altro motivo di sofferenze soprattutto per quei bambini, “un terrore che
non vuole finire nell’animo del mondo”.
Le
pessime condizioni degli sfruttati (la classe che dà infinito valore alle sue
mille lire”) sono denunciate da Pasolini con brani tratti da documentari sulla
tragedia di lavoratori morti in miniera.
Un
raggio di speranza pare accendersi nel seguire l’impresa spaziale di Juri
Gagarin (che “sale nel cielo con un semplice cuore” e “ridiscende in terra fra i
semplici cuori” dei suoi compagni) che afferma: “Da lassù tutti mi erano
fratelli”. Ma tale speranza è di breve durata, poiché il film si conclude con
una serie impressionante di esplosioni nucleari che trasmettono un drammatico
senso di inquietudine e di terrore.
Il
film è in due parti: sulla seconda, affidata dal produttore a Guareschi, mi pare
più dignitoso
non fare alcun commento, non entrare cioè nel merito del modo in cui
Guareschi “svolge” il “tema” (che è lo stesso per i due episodi). Si commenta da
sé, infatti, il suo becero para-fascismo, il suo qualunquismo infarcito di
banalità, anche peggiore, se possibile, di quello esibito da Guareschi nella
serie di film realizzati sulle storia di “Peppone e Don Camillo”.
A ngela Molteni
maggio
1997
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