Il corpo è sempre irriducibile
alla sua materialità, così come la stessa materialità corporea non risolve e
esaurisce la realtà. Bisogna intendersi, però, sul significato di realtà per non
incorrere in un’incomprensione che invaliderebbe l’intero discorso.
Il senso comune ha conferito alla
realtà uno statuto di oggettività scientifica, un’esistenza indiscutibile perché
esterna al soggetto, una caratterizzazione di fenomeno in sé e per sé opposto
all’idealità, opposto a ciò che è presente nella mente, non ancora incarnato e
attualizzato in un corpo. Si tratta di una definizione spicciola, superata dalla
riflessione della psicologia della forma e dalla speculazione esistenzialista;
dalla realtà percettiva, quindi, e dalla dimensione soggettiva della realtà
stessa (dimensione che rende possibile l’accettazione del miracolo sulla base di
una sperimentazione interna ma oggettivata all’esterno(1)).
Non si dà realtà senza soggetto osservante: la realtà è un’esperienza. Questa
relativizzazione della realtà, che all’estremo può essere assunta come negazione
della realtà stessa, quasi in modo paradossale, mantiene e presuppone come
necessario il suo referente, quello che potremmo chiamare corpo organico
naturale. Ma davvero il corpo organico naturale esiste come referente
ineludibile o, nella diversità radicale dell’epoca dei consumi, deve, piuttosto,
essere inscritto nell’ordine del simulacro, nell’iper-realtà semiotizzata? Nel
circuito del segno che rinvia al segno, o, per dirla con Klossowski, al
codice?(2)
Qui il punto fondamentale da chiarire in via preliminare.
Pasolini, in diverse occasioni,
nella sua attività di saggista soprattutto, ha affermato l’esistenza di una
continuità tra Fascismo storico, incarnato in forme di coercizione fisica che
non investono la coscienza individuale perché limitate agli eventi
comportamentali concreti, e nuovo fascismo dei consumi, «peggio che totalitario
in quanto violentemente totalizzante»(3).
Sarebbe interessante individuare la natura della continuità da uno stato di
potere fisico a quello consumistico astratto e fantasmatico, ma non funzionale
all’argomento trattato e, in ogni caso, si correrebbe il rischio, comunque da
evitare, di finire nell’impero delle ipotesi se non delle illazioni. Tuttavia il
passaggio c’è stato e forse non si va troppo lontano spiegandolo sulla falsa
riga della linea nodale hegeliana, con il passaggio dalla quantità alla qualità
per effetto della variazione della quantità stessa. Ad ogni modo, la diffusione
a livello universale dei modelli industriali, della produzione ossessiva e
ossessionante, del consumo immediato preso nel vortice nevrotico di una
fagogitazione senza soluzione di continuità, è il nuovo fascismo. Non punto
culminante di un’evoluzione “normale” delle modalità di espressione del potere
classico, ma stravolgimento della sua intima natura. Un potere dislocato che non
preme sulla realtà oggettiva, ma che diventa esso stesso l’unica oggettività di
riferimento; un’astrazione assoluta che sollecita la complicità di ciascuno in
forme dissimulate e non evidenti; quasi un nuovo essere ontologico che
nell’illusione della libera scelta fa di ogni cosa, in primo luogo del corpo
umano, un robot.
È questa la “realtà” – le
virgolette sono obbligate – che presuppone Salò. Una realtà-immagine priva di
referente materiale. Un simulacro che annulla le opposizioni e vanifica le
distanze. Una realtà smaterializzata che rende necessario non tanto l’azione
progressiva ma il dono incondizionato e totale di sé: il sacrificio della
morte(4).
Vittime e carnefici: corpi a
confronto.
Il potere è smaterializzato nella
forma del liberismo. La macchina è il paradigma di rappresentazione universale.
Anche le immagini del testo filmico, per questa via, non presentano, a
differenza di quelle di Mamma Roma o
de La Ricotta, una
referenzialità fenomenica, nel senso che acquistano uno statuto simbolico, una
funzione di rimando. Al di là delle implicazioni stilistiche e scritturali del
ricorso a registri linguistici differenti, in primo luogo la pittura, e che
determinano una fruizione non solo visiva ma tattile, quindi sinestetica, il
discorso sulla realtà, realtà altra rispetto a quella prodotta dalle esperienze
solidarmente costruite nella tradizione contadina, è condotto attraverso una
radicalizzazione dell’uso della metafora, fino all’immagine al grado zero,
all’immagine pura. Di conseguenza il simbolismo delle immagini non si esaurisce
in una catena di rimandi, che inevitabilmente dovrebbe fermarsi ad un oggetto di
riferimento originario, ma è assunto come linguaggio poetico, evocativo; come
istanza rivoluzionaria simbolica che disarticola, anzi decostruisce i freddi
dogmi-principio culturali(5).
In Salò non si complica solo il trattamento
iconico delle immagini, la loro relazione; le immagini stesse sono funzionali al
complesso di significati che più che veicolare incarnano.
Un’analisi dei procedimenti di
costruzione delle immagini, che tenga conto dei rapporti tra spazio e figure e,
primariamente, della caratterizzazione dei corpi, consente di dar conto delle
dinamiche di costituzione del potere, sia nella forma del fascismo storico, cioè
dei regimi totalitari, sia nella forma liberista dell’epoca post-moderna,
dell’epoca, cioè, della dissociazione della produzione da qualsiasi tipo di
«finalità sociale»(6).
Nei regimi dittatoriali classici
le istanze di indottrinamento, di educazione e di livellamento dei
comportamenti, sono espresse secondo il meccanismo della legge: predisposizione
del divieto e sanzione. Il potere ha, quindi, un carattere manifesto, evidente,
che nella richiesta di un’adesione comportamentale assoluta tralascia, per la
sua stessa natura, la coscienza individuale. La percezione della fisicità del
potere rende possibile dissociare il comportamento esperito fattivamente
dall’intenzione e conservare, anche solo a livello coscienziale, una sacca di
resistenza ideologica. In Salò,
quindi, il codice normativo, minuziosamente fissato, dalle adunanze nella sala
delle orge ai pranzi, dai riti liturgici matrimoniali alla didattica
normalizzatrice, può essere interpretato come trasposizione-evocazione delle
modalità eclatanti di espressione del potere dittatoriale.
All’inverso, l’astrattezza del
potere consumistico rende non evidente il meccanismo d’imposizione dei modelli
comportamentali. Attraverso la produzione non finalizzata se non a nuova
produzione, e il consumo bulimico di merce feticizzata, si attua una continua e
sottile induzione di bisogni. Il controllo, quindi, avviene su due livelli
inestricabili: la coscienza e il comportamento. La prima gestita per mezzo
dell’induzione di bisogni, il secondo regolato dallo stesso bisogno indotto,
neutralizzando la volontà e riducendo il soggetto a mero consumatore, ad agente
artificiale in un circuito di ri-produzione indefinito e potenzialmente
infinito(7).
Le dinamiche di costituzione del
potere, in entrambe le forme discusse in precedenza, (anche se da ora,
prevalentemente, l’interesse sarà rivolto al potere omologante dei consumi),
sono inscritte nei corpi: nei corpi dei carnefici, opachi e marchiati; nei corpi
sacrificali, manipolabili e da manipolare, delle vittime.
Prendiamo in considerazione una
scena del film.
Girone della merda. Salone delle
orge. La signora Maggi, una delle narratrici, racconta le sue storie per
alimentare l’atmosfera orgiastica richiesta dai libertini.
Gli spazi presentano
un’organizzazione razionale: oggetti, finestre, figure umane, sono disposti
secondo un principio sistematico, di equilibrio tra i pieni e i vuoti.
L’inquadratura iniziale, a camera fissa di circa venti secondi, mostra sul fondo
del salone due finestre rettangolari, poste una a destra l’altra a sinistra di
un’ampia scala su cui sono seduti, in pose che ricordano il naturalismo di
Caravaggio, quattro ragazzi-vittima completamente nudi. La posizione lievemente
rialzata della macchina da presa rispetto al profilmico, riprendendo il tavolo
lungo posto esattamente al centro del salone in corrispondenza della scala sul
fondo, divide lo spazio in due aree simmetriche e speculari. La divisione dello
spazio, tuttavia, non ha nessuna correlazione con i ruoli dei diversi
personaggi: vittime e carnefici, disposti ordinatamente lungo le pareti laterali
della stanza, occupano confusamente l’area, realizzando quella compresenza, tra
perseguitati e persecutori, indispensabile sia al conseguimento dell’obbedienza
e alla gestione del codice normativo, sia, e soprattutto, all’ottenimento della
connivenza delle vittime(8).
Anzi, la prossimità è condizione necessaria per consentire un controllo
minuzioso dei perseguitati; per la verifica dei movimenti, delle funzioni
fisiologiche primarie, come la fame e la defecazione, per l’instaurazione, in
definitiva, di un regime “igienico” dei corpi(9).
La presenza simultanea nello
stesso spazio di corpi-vittima e di corpi-carnefice fornisce la possibilità di
metterli a confronto.
Il corpo delle narratrici e dei
carnefici è un corpo marcato ed esaltato da una serie di segni. Collane,
bracciali, cinture, gioielli anelli, adornano i corpi per suddividerli, per
negare la loro integrità. Il frammento di corpo esaltato, isolato
dall’oggetto-marchio in posizione verticale, si pensi ad una cintura in vita e a
come il petto rispetto alla totalità del corpo acquisti una posizione erettile,
rinvia alla forma fallica, assunta come equivalente generale dell’intero corpo.
Il marchio, quindi, con la sua funzione erotica perversa è, allo stesso tempo,
simbolo e parodia della castrazione come mancanza. In altri termini acquistando
il marchio un valore di significazione, di segno, nel momento stesso
dell’affermazione della castrazione la disconosce, facendo della parte di corpo
marcata il feticcio fallico. Proprio come avviene nel feticismo, illustrato da
Freud, il desiderio di dominio dei carnefici di Salò può essere appagato solo
scongiurando la castrazione e la pulsione di morte. Così, il desiderio subisce
un ripiegamento: non più medium per il riconoscimento dell’altro ma, attraverso
il corpo altrui feticizzato e posseduto come fosse il proprio sesso, intrappola
il soggetto nelle maglie dell’autocompiacenza e dell’autoseduzione(10).
L’autoreferenzialità dei corpi dei libertini di Salò, tuttavia, non può escludere
l’altro; al contrario il prossimo è necessario alla ricerca, nella forma di
un’utopia del male, della libertà originaria, di uno stato in cui le forze
impulsionali, per mezzo di crimini irrazionali, conservino l’altro proprio nel
momento in cui lo si costituisce come oggetto della pratica
criminale.
Salò è, quindi, la messa in scena della
coscienza sadica e della sua contraddizione, dell’opposizione tra la necessità
di conservazione e quella della distruzione dell’altro; dell’unica possibilità
“possibile” che si dà all’uomo dopo la morte di Dio e il venir meno
dell’identità: «la reiterazione senza fine degli atti»(11).
Il corpo sadico, in Salò, diviene
emblema della dinamica del potere totalizzante: la continua alienazione e
riedificazione del prossimo, in circolarità apatica e senza fine.
Diversamente da quello dei
carnefici, il corpo delle vittime è mostrato nella sua pura nudità, aperto alla
violenza, quasi offerta sacrificale obbligata. Corpo umiliato, piegato, fatto
oggetto del desiderio, annientato e reificato ma non completamente innocente,
perché, in una certa misura, collaborativo. D’altra parte la coscienza sadica, e
quindi il potere, trovando una giustificazione naturale alla propria
perversione, in quanto considera l’annientamento del prossimo rispondente alle
leggi di natura, annulla ogni demarcazione tra il proprio corpo e quello altrui
nell’apatia. Di conseguenza, all’interno della villa-prigione, attraverso la
partecipazione sollecitata delle vittime, l’alienazione è totale e definitiva:
destituzione della libertà legata ad una subdola integrazione al sistema(12);
fino all’estremo: la morte incondizionata.
Dall’inizio alla fine, anzi, la
morte è il leit-motiv del film. La vita dei ragazzi-vittima, i primi ad
imbrigliarsi nelle maglie di un potere reticolare, è dissolta nella
sopravvivenza, nella continua minaccia di una pena irreversibile(la non
accettazione nell’era dei consumi potrebbe significare la concessione al
“disadattato” di un mero stato di sopravvivenza?). Il potere dei libertini
deriva proprio dalla facoltà di differire la morte in modo indefinito, di
mantenere la propria vittima in uno stato di sopravvivenza perenne. L’intera
esistenza diventa dono del potere, della dirigenza che agita la morte,
sospendendola, come minaccia incombente.
Nessuna via d’uscita nella
conservazione della vita frazionata e spodestata della vittima. L’accettazione
della mera sopravvivenza è perpetuazione della sospensione della morte; è
riconoscere al potere la facoltà di concedere unilateralmente la vita. Solo il
sacrificio totale e immediato è riappropriazione della propria esistenza e della
propria coscienza(13).
Così, la terrificante scena
finale del film può essere interpretata non solo come soluzione estrema del
sadismo del potere ma, da una visione capovolta, come riscatto immediato,
totale. L’immolarsi che, rifiutando la logica del dono unilaterale, incrina
irreversibilmente il potere. I ragazzi-vittima, infatti, votati all’orrenda
agonia, e che, significativamente, non raggiungeranno Salò, sono scelti per delle colpe non
meglio precisate. Ma quali? Il non aver osservato scrupolosamente la
precettistica che regola la vita della comunità di schiavi? Può darsi. Tuttavia,
considerando la complessità dell’extratesto del film, sembra poco. Le vittime
sacrificali prescelte, anche se in forme diverse, per il loro concedersi
incondizionato, estromettono il potere, impedendogli il differimento della
morte, costringendolo a mostrare la sua reale essenza violenta e prevaricatrice.
Forse, emblema della solitudine a cui una coscienza vigile ed integra è
condannata, senza appello, in una società che polverizza la tradizione e
vanifica il futuro, in una dilatazione folle del presente.
In conclusione, Salò è una pellicola complessa, ricca di
riferimenti extratestuali. Non solo Sade così com’è stato letto da Klossowski,
ma Freud, Lacan, Foucault; non solo lucido resoconto di una forma storica di
potere, il fascismo, ma inesorabile critica al potere totalizzante, scentrato e
smaterializzato del consumo.
di Alfonso Trillo
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