"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Ancora su Pasolini e Caravaggio.
Per Pasolini, essenziale e formativo essere stato allievo di Roberto Longhi
febbraio 2012
Caravaggio, certamente, vuol dipingere la realtà, ma è molto probabile che - e gli ultimi studi l'hanno ampiamente dimostrato - tutto questo avesse in lui anche una finalità simbolica. Pensiamo alla luce che entra da una finestra ne La vocazione di Matteo di San Luigi dei Francesi; essa è una luce di salvazione, è una luce divina. E ' il raggio della salvezza che arriva sugli uomini per riscattarli dal loro essere uomini. Quindi, anche se noi siamo fatti di carne, non possiamo rinunciare alla speranza che qualcosa arrivi per salvarci e portarci al di là. La luce diviene protagonista con Caravaggio e da questo momento in poi si entra nell'attimo luminoso, in quell'istante di luce dovuto al cambiamento continuo delle condizioni atmosferiche, che sarà caratteristica della pittura impressionista. Si giunge all'idea dell'attimo luminoso, di un attimo quasi fotografico. Non per nulla l'impressionismo è quasi contemporaneo della fotografia. Da qui si entra proprio in quell'idea di attimo fuggente che viene catturato dall’opera pittorica, che sarà la chiave stessa di tutta la raffigurazione del Ventesimo Secolo e che fatalmente è ancora la chiave sia della pittura che del cinema dei nostri tempi.
Parlare di realismo e di tenebrismo non è più sufficiente per definire questo grande e geniale pittore. Infatti i brani di vita popolare e gli effetti dei suoi «notturni» sono caratteristici di tutta la pittura della fine del XVI secolo, e in particolare dell?Italia del Nord, nell'opera di artisti di primo piano quali Bassano e perfino Tintoretto. L'originalità di Caravaggio consiste nell'uso della luce per affermare la pienezza delle forme e dei volumi, ma anche per drammatizzare i personaggi più umili. Soprattutto questo aspetto eroico ha colpito l'attenzione degli storici dell'arte contemporanei: quest'arte plastica, espressiva, diretta, che esprime un sentimento semplice e profondo della vita umana, rispondente alle aspirazioni della Controriforma. Quello del realismo è, da sempre, uno dei grandi problemi della storia dell'arte. La radice del problema sta nella stessa ambiguità e polivalenza del termine, che ne ha permesso l'applicazione alle realtà più disparate. Nel Seicento in particolare, il termine è stato usato per indicare situazioni diversissime, compromettendone in questo modo la comprensione per secoli: realista Caravaggio, realista Vermeer, realisti i fiamminghi autori di nature morte, realisti i pittori di scene di genere.
La spada di Damocle dell'incomprensione ha pesato in maniera particolarmente preoccupante sul capo di Caravaggio e di tutti quegli artisti che hanno saputo coglierne e svilupparne le conquiste più alte: Velàzquez, Ribera, Zurbaràn, Rembrandt, La Tour (per citare solo i nomi più eclatanti). Quanto a Caravaggio il nostro secolo ha ampiamente sfatato il mito dell'artista maledetto, dedito a un realismo fine a se stesso e che si compiace degli aspetti più crudi, violenti e urtanti della realtà. Per restare su un piano divulgativo e accessibile, il Calvesi del primo, mitico Art Dossier, dedicato proprio al Merisi, ha ben evidenziato, forse addirittura cadendo nell'eccesso opposto, il coacervo di simboli e di significati di matrice essenzialmente Oratoriana e Gesuitica che la 'presa diretta' di Caravaggio dissimula e nello stesso tempo potenzia in massimo grado.
E tuttavia non è mai stato messo sufficientemente in rilievo un fatto fondamentale: ciò che, in Caravaggio, conferisce verità e concretezza alle cose, ciò che le rende quasi fastidiosamente vive agli occhi di chiunque si accosti alla sua opera, è la Luce: non una luce puramente fisica, ma La Luce, la luce vera, quella divina. Questo, e solo questo, rende il 'realismo' di Caravaggio così poco 'naturalistico': la Luce, che conferisce verità alle cose, è nello stesso tempo la Luce della Verità, "la luce vera che illumina ogni uomo", e che le tenebre non ricevettero (Vangelo secondo Giovanni). La luce ha sempre avuto un significato mistico-religioso: è una delle più alte manifestazioni del divino, e come tale ha tutti i carismi per essere vista ora come attributo di Dio, ora come mezzo con cui Dio si manifesta, ora come simbolo di Dio stesso. Senza avventurarmi in discorsi teologici di cui peraltro non sarei capace, potrei però ricordare la mistica delle vetrate gotiche, l'oro degli arredi sacri, il rifulgere dei mosaici medievali, i quadri di Van Eyck, il Paradiso di Dante, la Cattedra di San Pietro…(e chi più ne ha più ne metta). Ormai lontane memorie liceali mi ricordano inoltre che il latino Iuppiter, il greco Zeus e quindi il nostro Dio traggono la loro origine da una medesima radice indoeuropea che sta ad indicare il luminoso.
Il Seicento, in modo particolare, è un secolo di estasi e visioni mistiche (S. Teresa d'Avila, S Giovanni della Croce, …); è il secolo in cui si tenta di rendere visibile e spettacolare il Divino: nascono così le creazioni Berniniane, le visioni celesti sui soffitti sfondati, le mistiche geometrie del Guarini; e nasce il realismo: un realismo mai fine a se stesso, un realismo in cui la luce conferisce realtà e fisicità alle cose proprio in quanto non è essa stessa puramente fisica, ma tramite fisico di una realtà meta-fisica. Nel XVII secolo si contrappongono, in pittura, la luce mistica e astratta di Zurbaràn, quella immobile e contemplativa di La Tour, quella fisica e materiale di Rembrandt e, infine, quella calda e sferzante del Caravaggio, che raggiunge il suo apice espressivo ne la vaticana Deposizione di Cristo.
Vediamo di chiarire meglio questo concetto e questo confronto. Zurbaràn è un pittore discontinuo, che ad esiti altissimi accosta risultati men che mediocri: indubbio capolavoro è l'Estasi di S.Francesco, con il santo emaciato e perso in una visione di cui noi possiamo cogliere soltanto la luce che, cadendo dall'alto, inonda la sua figura e riverbera nei suoi occhi lucidi. Georges de La Tour, invece, crea molti capolavori: dalla Natività di Rennes al Giobbe e la moglie, dal Pentimento di San Pietro al Sogno di San Giuseppe al delicatissimo Battista, in cui la luce calda delle candele perde ogni fisicità per diventare 'luce intellettual, piena d'amore' (Dante, Paradiso, canto XXX, v 40), luce mistica e astratta (tanto più astratta quanto più si sofferma su particolari concreti, come la carne macilenta di Giobbe, le rughe di Giuseppe, le lacrime che cadono dagli occhi cisposi di un San Pietro pateticamente ridicolo nel suo pianto da vecchio e nella sua assimilazione al gallo del tradimento). Per Rembrandt, la luce è fisica, che non modella le cose, ma ne costituisce la materia, non le illumina, ma le forma, non viene dall'esterno, ma dall'interno di esse. Una luce alchemica che opera materiche trasformazioni.
In Caravaggio la luce è insieme protagonista fisica e metafisica, portatrice della parola divina e non del reale, cornice mistica in cui compiere la trasmutazione dell’umano che anela al divino. Anzi, il discorso è ancora più complesso per il nostro. La luce ha in Caravaggio una funzione costruttiva e una funzione simbolica, metafora della grazia redentrice, irradiata spesso in modo tangenziale, con un'azione costruttiva sui corpi che spesso emergono da fondi indefiniti.
E questo modo di vedere la luce reale e non naturale, metafisica ed insieme materia, richiama alla mente la maniera "pittorica" di Pier Paolo Pasolini. Non ha caso, Cesare Garboli, l'ultimo dei grandi critici letterari italiani, nel numero di aprile-giugno 1970 della rivista "Nuovi Argomenti", scrive: "Si direbbe che il Pasolini lavorasse, allora, non allo specchio del Caravaggio ma allo specchio del Caravaggio "romano". Quello, per intenderci, che finge per Maddalena la povera ciociarella tradita, gli sciolti capelli che si asciugano al sole nella stanzetta smobiliata, o quello dei bacchi rifatti su torpidi e assonnati garzoni d'osteria, o quello, infine, della Vergine morta e gonfia a gambe scoperte, come una popolana del rione, a dirla gentilmente, o una mignotta agli ultimi rantoli nella stanzaccia spartita dal tendoni".
Ma c'è una cosa ancora, su tutte, che unisce i due, attraverso la luce e l’apparente, complessa, descrizione del reale. La compassione per gli ultimi, per i brutti, gli sporchi ed i cattivi (titolo di un film di Scola, che proprio Pasolini avrebbe dovuto girare). "Qui degli umili sento compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via», scrive Umberto Saba in Città Vecchia. Ma il poeta triestino è solo di passaggio. Nutre la propria coscienza con la visione di quelle vite disperate e gettate via nelle ombre delle strade, ma non si ferma assieme alla "prostituta, al marinaio, al vecchio che bestemmia alla femmina che bega". C'è pietas, ma non compartecipazione.
Pasolini e Caravaggio invece no, loro passano e si fermano. Vivono fino in fondo il mondo che rappresentano. Il pittore perso nel sottobosco delle osterie del Seicento e lo scrittore perso nella Roma delle borgate. Li spinge qualcosa, una necessità, che arriva direttamente dall'anima e dal ventre. L'amore febbrile per la vita. La "strana gioia di vivere" (così ha scritto Sandro Penna) che li pervade.
In entrambi i due grandi autori la vera protagonista a è la luce, atta a farci percepire l’essenza della vita come spirituale, come lascito della parola divina. Essa irradia dalle loro opere e vuole sempre accentuare il significato della fede: la chiamata di Dio è sempre rivolta a tutti gli uomini, ma ciascuno è libero, secondo la propria coscienza, di aderirvi o di respingerla. E, in entrambi, via via che procede la maturazione creativa, la luce si fa ampia ed ingombrante, quasi unica protagonista della tela o delle inquadrature.
L’esempio è, per Caravaggio, La resurrezione di Labaro, che richiama e la Vocazione di San Matteo dipinta qualche anno prima per la chiesa di S. Luigi dei Francesi, ma con una luce più soffusa e guizzante, che crea un effetto di maggiore drammaticità, tendente quasi a "cancellare" i personaggi, come accade a Pasolini da Il fiore delle Mille e una notte in poi.
Non a caso, nel mai realizzato e conclusivo film Porno-Teo-Kolossal (che, secondo quanto da lui stesso dichiarato, avrebbe concluso la sua carriera cinematografica), la luce si sarebbe fatta sempre più viva e avrebbe scolorito gli stessi personaggi, durante il racconto morale e metafisico di un re mago, che insieme al suo servitorello (suo angelo custode travestito) parte per seguire la Stella Cometa, ma giunge in ritardo davanti alla grotta, che ormai è vuota, morendo di dispiacere e di stanchezza.
Qui di seguito, ecco un ampio stralcio di ciò che scrisse Roberto Longhi nel suo "Da Cimabue a Morandi", uscito da Mondadori nel 1973. Un libro che certamente Pasolini, che aveva una vera e propria venerazione per Longhi, conosceva benissimo.
* * *
Caravaggio, di Roberto Longhi
in http://www.lanuovabottegadellelefante.it/
Una lettura di alcuni dei più importanti dipinti del Caravaggio (1571-1610) attraverso le pagine di Roberto Longhi (1890-1970), maestro indiscusso degli studi artistici del nostro paese e figura eminente della cultura europea del Novecento.
Massimo critico d’arte, Longhi fu anche grande scrittore. "Piazza de’ lumi entro il gran fiotto d’ombre": l’invenzione di un verso endecasillabo compendia il metodo compositivo del Caravaggio.
La sua prosa inimitabile riesce a tradurre il fatto figurativo e a renderlo leggibile anche senza l’ausilio del corredo illustrativo. Basandosi proprio su questo assunto, Gianfranco Contini raccolse i principali saggi longhiani sulla pittura italiana e li pubblicò, nel 1973, in un famoso Meridiano Mondadori, Da Cimabue a Morandi, senza note né apparati figurativi, per far conoscere il livello espressivo dello scrittore e diffondere la sua prosa fuori dai canali strettamente specialistici.
La monografia sul Caravaggio (prima edizione, 1952; seconda edizione, Editori Riuniti, 1968) è l’ultimo scritto di ampio respiro licenziato da Longhi prima della morte e il principale fra i tardi lavori longhiani. In quest’opera, l’autore torna, per l’ultima volta, su un argomento appassionatamente indagato in numerosi interventi precedenti, a cominciare dalla tesi di laurea (1911), che già avevano trovato un momento di felice sintesi in una famosa mostra del 1951 a Milano, che stabilì la completa rivalutazione del naturalismo caravaggesco.
* * *
da Roberto Longhi, "Caravaggio", da "Da Cimabue a Morandi", Mondadori 1973. pp. 801-875
[Primi quadri «da lui nello specchio ritratti», p. 810]
Educato in quella cerchia di provincia lombarda di cui si è dato qui un breve abbozzo e giunto a Roma, giova crederlo, già con quel suo chiodo fisso di una pittura fedele alla realtà, era prevedibile che, nella città tra manieristica e bigotta di Sisto V, egli dovesse sembrare un irregolare, se non proprio un eretico. A Roma non si chiedeva verità alla pittura, ma «devozione» o «nobiltà»; nobiltà di soggetti e di azioni, a qualunque mitologia appartenessero, e secondo un’inventiva che poteva oscillare dalla tetraggine della stretta Controriforma alla volante ma vacua fantasia degli ultimi manieristi: dal Pulzone e dal Muziano, insomma, al Barocci e al D’Arpino.(…)
E, infatti, valga il vero: già il primo biografo competente, perché pittore anche lui, ci asserisce che i primi quadri del Caravaggio furono «da lui nello specchio ritratti». Che mai significa? Si è giunti a proporre che, forse per risparmiare la spesa del modello, egli non attendesse che a dei successivi, continui autoritratti; proposizione assurda, oltre che smentita da tutti gli esemplari restanti, salvo quello del Bacchino malato. Ma allora, perchè ritrarre quei tanti modelli diversi «nello specchio»? (…)
Ogni nuova personale verità nell’arte è una nuova scoperta che gli idoli artistici precedenti miravano a precludere. Che cosa aveva impedito sino a lui di rendere fedelmente ciò che egli chiamò per primo un «pezzo» di realtà, se non l’antica fabula de lineis et coloribus che egli avvertiva ormai come mitologia da lasciare finalmente cadere? Guardava intorno a sé e la realtà gli appariva in «pezzi» bloccati di universo dove non era luogo né a contorni, né a rilievi, né a colori come formule astrattive. E perché la rètina, da sé sola, ha un campo visivo sempre sfocante, svagante, non era meglio stagliarlo come ci appare nel quadro veridico dello specchio che ci dà sempre l’«unità del frammento» immerso nella sua luce: una specie di «realtà-acquario»?
E’ possibile insomma che, naturalizzando l’antica metafora che la pittura deve essere il rispecchiamento della realtà, il Caravaggio, da schietto San Tommaso, provasse di attenersi al sodo dello specchio vero che gli dava finalmente il vano della visione ottica già colmo di verità e privo di vagheggiamenti stilizzanti. Così egli venne a scoprire - e fu quasi una scoperta scientifica, fu in ogni caso un’esperienza – la sua personale, empirica «camera ottica»; ciò che meno sorprende ai tempi del Porta e, ormai, di Galileo. D’accordo che, da grande spirito qual era, egli non poteva che scoprire il senso poetico, la portata sentimentale di una realtà allora tutta sconosciuta, anche non avendone piena coscienza. La sua ostinata deferenza al vero poté anzi dapprima confermarlo nella ingenua credenza che fosse «l’occhio della camera» a guardare per lui e a suggerirgli tutto. Molte volte egli dovette incantarsi di fronte a quella «magia naturale»; e ciò che più lo sorprese fu di accorgersi che allo specchio non è punto indispensabile la figura umana; se, uscita questa dal campo, esso seguita a rispecchiare il pavimento inclinato, l’ombra sul muro, il nastro lasciato a terra. Che cosa potesse conseguire a questa risoluzione di procedere per specchiatura diretta della realtà, non è difficile intendere. Ne conseguiva la tabula rasa del costume pittorico del tempo che, preparandosi gli argomenti in carta e matita per via di erudizione storico-mitologica e di astrazione stilizzante, aveva elaborato una partizione in classi del rappresentabile, che, trasposta socialmente, non poteva idoleggiarne che i gradini più alti. Ma il Caravaggio si rivolgeva alla vita intera e senza classi, ai sentimenti semplici e persino all’aspetto feriale degli oggetti, delle cose che valgono, nello specchio, al pari degli uomini, delle «figure». (…)
Cominciò del resto con dipinti che non erano neppure in grado di intitolarsi. E’ già molto che i biografi scrivano per esteso: «un putto morso da un racano che tiene in mano», un «fanciullo che monda una pera con il cortello» (…). E quando si avvertì ch’essi celavano anche un nuovo contenuto, si cercò di correre ai ripari infliggendo loro una condanna morale. Essa verrà codificata circa mezzo secolo dopo, quando si concluderà che il Caravaggio non aveva dipinto che i «simili»; un gradino appena più in su del Bamboccio che addirittura «dipinse i peggiori»; e cioè, diciam pure, la povera gente che fa soggetto di strada, ma non di «historia».
E perché questo del soggetto feriale fu il pensiero fisso del Caravaggio fin dai primissimi giorni, si può star sicuri che, su quella via, egli non sarebbe mai riuscito a farsi largo, ma soltanto a mettersi in cattiva luce come pittore di novità sospette perchè senza «decoro». Che, avvertendone tuttavia l’innegabile talento pittorico, gli si chiedesse presto ben altro, e ch’egli non potesse rifiutarvisi se voleva crescere e primeggiare come uomo dell’arte, è cosa altrettanto certa, naturale, umana. Guai a dimenticare che a quei giorni quasi non si dipingeva che per soggetti imposti, su commissione, e che questa era appannaggio esclusivo o di ordinatori ecclesiastici o di nobili collezionisti discretamente colti anche in favole antiche. (…)
E, infatti, valga il vero: già il primo biografo competente, perché pittore anche lui, ci asserisce che i primi quadri del Caravaggio furono «da lui nello specchio ritratti». Che mai significa? Si è giunti a proporre che, forse per risparmiare la spesa del modello, egli non attendesse che a dei successivi, continui autoritratti; proposizione assurda, oltre che smentita da tutti gli esemplari restanti, salvo quello del Bacchino malato. Ma allora, perchè ritrarre quei tanti modelli diversi «nello specchio»? (…)
Ogni nuova personale verità nell’arte è una nuova scoperta che gli idoli artistici precedenti miravano a precludere. Che cosa aveva impedito sino a lui di rendere fedelmente ciò che egli chiamò per primo un «pezzo» di realtà, se non l’antica fabula de lineis et coloribus che egli avvertiva ormai come mitologia da lasciare finalmente cadere? Guardava intorno a sé e la realtà gli appariva in «pezzi» bloccati di universo dove non era luogo né a contorni, né a rilievi, né a colori come formule astrattive. E perché la rètina, da sé sola, ha un campo visivo sempre sfocante, svagante, non era meglio stagliarlo come ci appare nel quadro veridico dello specchio che ci dà sempre l’«unità del frammento» immerso nella sua luce: una specie di «realtà-acquario»?
E’ possibile insomma che, naturalizzando l’antica metafora che la pittura deve essere il rispecchiamento della realtà, il Caravaggio, da schietto San Tommaso, provasse di attenersi al sodo dello specchio vero che gli dava finalmente il vano della visione ottica già colmo di verità e privo di vagheggiamenti stilizzanti. Così egli venne a scoprire - e fu quasi una scoperta scientifica, fu in ogni caso un’esperienza – la sua personale, empirica «camera ottica»; ciò che meno sorprende ai tempi del Porta e, ormai, di Galileo. D’accordo che, da grande spirito qual era, egli non poteva che scoprire il senso poetico, la portata sentimentale di una realtà allora tutta sconosciuta, anche non avendone piena coscienza. La sua ostinata deferenza al vero poté anzi dapprima confermarlo nella ingenua credenza che fosse «l’occhio della camera» a guardare per lui e a suggerirgli tutto. Molte volte egli dovette incantarsi di fronte a quella «magia naturale»; e ciò che più lo sorprese fu di accorgersi che allo specchio non è punto indispensabile la figura umana; se, uscita questa dal campo, esso seguita a rispecchiare il pavimento inclinato, l’ombra sul muro, il nastro lasciato a terra. Che cosa potesse conseguire a questa risoluzione di procedere per specchiatura diretta della realtà, non è difficile intendere. Ne conseguiva la tabula rasa del costume pittorico del tempo che, preparandosi gli argomenti in carta e matita per via di erudizione storico-mitologica e di astrazione stilizzante, aveva elaborato una partizione in classi del rappresentabile, che, trasposta socialmente, non poteva idoleggiarne che i gradini più alti. Ma il Caravaggio si rivolgeva alla vita intera e senza classi, ai sentimenti semplici e persino all’aspetto feriale degli oggetti, delle cose che valgono, nello specchio, al pari degli uomini, delle «figure». (…)
Cominciò del resto con dipinti che non erano neppure in grado di intitolarsi. E’ già molto che i biografi scrivano per esteso: «un putto morso da un racano che tiene in mano», un «fanciullo che monda una pera con il cortello» (…). E quando si avvertì ch’essi celavano anche un nuovo contenuto, si cercò di correre ai ripari infliggendo loro una condanna morale. Essa verrà codificata circa mezzo secolo dopo, quando si concluderà che il Caravaggio non aveva dipinto che i «simili»; un gradino appena più in su del Bamboccio che addirittura «dipinse i peggiori»; e cioè, diciam pure, la povera gente che fa soggetto di strada, ma non di «historia».
E perché questo del soggetto feriale fu il pensiero fisso del Caravaggio fin dai primissimi giorni, si può star sicuri che, su quella via, egli non sarebbe mai riuscito a farsi largo, ma soltanto a mettersi in cattiva luce come pittore di novità sospette perchè senza «decoro». Che, avvertendone tuttavia l’innegabile talento pittorico, gli si chiedesse presto ben altro, e ch’egli non potesse rifiutarvisi se voleva crescere e primeggiare come uomo dell’arte, è cosa altrettanto certa, naturale, umana. Guai a dimenticare che a quei giorni quasi non si dipingeva che per soggetti imposti, su commissione, e che questa era appannaggio esclusivo o di ordinatori ecclesiastici o di nobili collezionisti discretamente colti anche in favole antiche. (…)
[Bacco, Galleria degli Uffizi, Firenze, pp. 814-815]
Dopo i primi dipinti di vena lombarda, come il Ragazzo del fruttaiolo e l’autoritratto vagamente arieggiante un Bacchino convalescente, ma che s’incorona per ischerzo non avendo in suo dominio che un rametto d’edera, due pesche duracine e due grappolini d’uva da tavola, il più dichiarato Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse s’ingolfa subito in una polemica palese per chi rievochi nel corso del secolo i Bacchi di Michelangelo o del Sansovino, o persino quelli del Bellini e di Tiziano.
Recuperi, codesti, di un’antichità vista con occhi diversi, se nel primo caso gravano di più sull’apologia del corpo umano e nell’altro sull’accordo corale tra uomo e natura egualmente magnificati, in ciò almeno convengono, nel non aver nulla da spartire con questo torpido e assonnato garzone d’osteria romanesca, incoronato a caso da pampini d’ogni colore, con un calice di lusso (l’unico rimasto nell’osteria?) tenuto leziosamente con la sinistra (da un mancino dunque, ma perchè ritratto dallo specchio!), in contrasto col vassoio di terraglia rustica e con la caraffa comune; a non parlar di quello stramazzo ad uso di triclinio plebeo.
In tanto palese impaccio, l’aspetto del quadro sembra, col consenso ironico del pittore, già pronto a sopportare qualunque pesante motteggio popolare trasteverino («me sembri tal e quale un Bacco in India», o qualcosa di simile); ma, nei punti di sutura più sottile tra tema e visione, il pensiero, per quei tempi, è più moderno che non sia stata, tanto più vicina a noi, la Barista di Manet al banco di zinco delle «Folies Bergère».
Recuperi, codesti, di un’antichità vista con occhi diversi, se nel primo caso gravano di più sull’apologia del corpo umano e nell’altro sull’accordo corale tra uomo e natura egualmente magnificati, in ciò almeno convengono, nel non aver nulla da spartire con questo torpido e assonnato garzone d’osteria romanesca, incoronato a caso da pampini d’ogni colore, con un calice di lusso (l’unico rimasto nell’osteria?) tenuto leziosamente con la sinistra (da un mancino dunque, ma perchè ritratto dallo specchio!), in contrasto col vassoio di terraglia rustica e con la caraffa comune; a non parlar di quello stramazzo ad uso di triclinio plebeo.
In tanto palese impaccio, l’aspetto del quadro sembra, col consenso ironico del pittore, già pronto a sopportare qualunque pesante motteggio popolare trasteverino («me sembri tal e quale un Bacco in India», o qualcosa di simile); ma, nei punti di sutura più sottile tra tema e visione, il pensiero, per quei tempi, è più moderno che non sia stata, tanto più vicina a noi, la Barista di Manet al banco di zinco delle «Folies Bergère».
[Il suonatore di liuto, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, p. 818]
Il Caravaggio non mancò di insistere nell’ambito di quel realismo feriale che ebbe un seguito lunghissimo nei seguaci d’ogni nazione e risorgerà, come soggetto pretestuale, nelle tranches de vie della pittura moderna (…). In quest’àmbito rientra anche il ritratto così semplice, ma intimamente episodico, della Sposa romana perdutosi a Berlino nel 1945; e così pure quello che, a detta del Caravaggio stesso, fu «il più bel pezzo, che facesse mai»: il Suonatore di liuto passato dal cardinale Del Monte al Giustiniani ed oggi a Leningrado.
La bilancia di luce, ombra e penombra che avvolge nella stanza il giovane incantato e lambisce il tavolo visto in tralice «nello specchio», rende la perfetta equivalenza mentale tra la figura e la mirabile natura morta di fiori e frutta a sinistra, e il famoso riflesso della camera entro la caraffa (e non già, per malposta e bigotta sottigliezza manieristica, nella pupilla).
Così, meno sorprende che il Caravaggio possa instaurare, negli stessi giorni, la rubrica, per Roma affatto nuova, della «natura morta» per sé sola. Uscito che sia il Bacco dal vano colmo dello specchio, vi restano ancora il vassoio di frutta, il nastro dimenticato; receduto il suonatore o il commensale dal tavolo, vi rimangonon ancora lo strumento di bellezza indecifrata o «Il Postpasto» non consumato: la caraffa smezzata, l’anguria e il melone affettati, la pera intatta e la mela mezza, le mosche che saltellano sulla propria ombra. Seguita così la realtà nella vita di queste cose silenti e ferme sotto il crescere o il diminuire della luce e dell’ombra; una forma d’incanto quasi autonomo che sembra portato dalle cose lasciate a se stesse, ma che pure riflettono lo sguardo inclinato dell’uomo e, in primis, di colui che l’ha prodotto, quell’incanto. Un’altra eretica innovazione, insomma, alla quale il pittore teneva moltissimo come dimostrano le sue stesse parole riferite dal più intelligente fra i suoi amici: «e il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure». Sorprende che l’amico trascrivesse un motto così fondamentale nel contesto di una lettera critica dove, classificando la pittura in dodici gradi, dal basso all’alto, non poneva la specialità di «fiori e frutta» che al quinto posto.
Non intendendo cioè ,(…), che con quel motto il Caravaggio aveva annullata la distinzione tra una natura superiore glorificata nell’uomo e una «inferior natura», come il Rinascimento aveva chiamato queste cose (…) che si andavano dipingendo per bizzarria o svago decorativo; o magari per acrostico figurale come nel passabilmente stupido Arcimboldi a Milano; ma sempre senza presa diretta di verità; e che, del resto, si relegavano in cucina o nelle stanze della servitù. Ai giorni stessi del Caravaggio poi, che pure aperse la nuova strada ma fu inteso da pochi (che oggi stanno lentamente recuperandosi e che vanno da Tommaso Salini al nipote di lui Mario dei Fiori), la natura morta tentò di rimontare di classe almeno con la scelta scrupolosa degli oggetti di pregio: bicchieri di Murano, cristalli di Boemia, antipasti e dolciumi sceltissimi; bocconi, come si diceva, da cardinali.
La bilancia di luce, ombra e penombra che avvolge nella stanza il giovane incantato e lambisce il tavolo visto in tralice «nello specchio», rende la perfetta equivalenza mentale tra la figura e la mirabile natura morta di fiori e frutta a sinistra, e il famoso riflesso della camera entro la caraffa (e non già, per malposta e bigotta sottigliezza manieristica, nella pupilla).
Così, meno sorprende che il Caravaggio possa instaurare, negli stessi giorni, la rubrica, per Roma affatto nuova, della «natura morta» per sé sola. Uscito che sia il Bacco dal vano colmo dello specchio, vi restano ancora il vassoio di frutta, il nastro dimenticato; receduto il suonatore o il commensale dal tavolo, vi rimangonon ancora lo strumento di bellezza indecifrata o «Il Postpasto» non consumato: la caraffa smezzata, l’anguria e il melone affettati, la pera intatta e la mela mezza, le mosche che saltellano sulla propria ombra. Seguita così la realtà nella vita di queste cose silenti e ferme sotto il crescere o il diminuire della luce e dell’ombra; una forma d’incanto quasi autonomo che sembra portato dalle cose lasciate a se stesse, ma che pure riflettono lo sguardo inclinato dell’uomo e, in primis, di colui che l’ha prodotto, quell’incanto. Un’altra eretica innovazione, insomma, alla quale il pittore teneva moltissimo come dimostrano le sue stesse parole riferite dal più intelligente fra i suoi amici: «e il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure». Sorprende che l’amico trascrivesse un motto così fondamentale nel contesto di una lettera critica dove, classificando la pittura in dodici gradi, dal basso all’alto, non poneva la specialità di «fiori e frutta» che al quinto posto.
Non intendendo cioè ,(…), che con quel motto il Caravaggio aveva annullata la distinzione tra una natura superiore glorificata nell’uomo e una «inferior natura», come il Rinascimento aveva chiamato queste cose (…) che si andavano dipingendo per bizzarria o svago decorativo; o magari per acrostico figurale come nel passabilmente stupido Arcimboldi a Milano; ma sempre senza presa diretta di verità; e che, del resto, si relegavano in cucina o nelle stanze della servitù. Ai giorni stessi del Caravaggio poi, che pure aperse la nuova strada ma fu inteso da pochi (che oggi stanno lentamente recuperandosi e che vanno da Tommaso Salini al nipote di lui Mario dei Fiori), la natura morta tentò di rimontare di classe almeno con la scelta scrupolosa degli oggetti di pregio: bicchieri di Murano, cristalli di Boemia, antipasti e dolciumi sceltissimi; bocconi, come si diceva, da cardinali.
[La canestra di frutta (Pinacoteca Ambrosiana, Milano), p. 819]
Il Caravaggio aveva invece dipinto la cestina comune dell’affittacamere colma di frutta a buon mercato; dove, perciò, accanto alla mela sana, non mancava mai quella bacata; così come nei pampini del Bacco, accanto alle foglie virenti, ci sono anche quelle vizze e scolorite, come Dio manda. Proprio quella cestina, finita a Milano nel museo di Federico Borromeo, veniva a trovarsi accanto alle lussuose specialità sul tipo di Flegel o di Jan Brueghel. Il contrasto non poteva essere più schietto. Se però il cardinal Federico lo avvertisse davvero, questa è un’altra faccenda (…)
[La nuova via, p. 829]
Già qualche antico biografo non mancava di avvertire che, in codeste opere, [Giuditta, Santa Caterina], in confronto a quelle trasparenti dell’adolescenza, il Caravaggio cominciava a «ringagliardire gli scuri». La cosa, lì per lì, sorprende anche noi che, versati nei fatti della pittura naturalistica posteriore, quasi ci saremmo attesi che il Caravaggio puntasse subito sulla pittura limpida e obbiettiva degli spagnoli o dei nordici, Velázquez, Hals o Vermeer. La verità è che ogni pittore non dà alla fine che ciò che il mondo gli chiede.(...) La chiesta era allora del quadro di evento sacro e patetico: questo è a spingere il Caravaggio sulla nuova via. Gli scuri che si ringagliardiscono sono dunque pur essi, preventivamente, affare di contenuto: che, fortunatamente, nell’occhio di un grande pittore, porterà con sé anche una forma atta ad incidere rapidamente sul contenuto stesso. Questo è il costante circolo di scambio fra arte e mondo sociale.
Ben vero che l’antico biografo, formalizzante come ogni strenuo idealista, dice che egli escogitò gli scuri gagliardi per «dar rilievo alli corpi»: E che altro poteva dire chi, a spiegare una così ostica rivoluzione, ardua persino per chi la fece, non aveva a disposizione altra grammatica da quella cinquecentesca?
Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nell’apologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello e da Michelangelo, e persino nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto. Ma ciò che gli andava balenando era ormai non tanto il «rilievo dei corpi» quanto la forma delle tenebre che li interrompono. Lì era il grumo drammatico della realtà più complessa ch’egli ora intravedeva dopo le calme specchiature dell’adolescenza. E la storia dei fatti sacri, di cui ora si impadroniva, gli appariva come un seguito di drammi brevi e risolutivi la cui punta non può indugiarsi sulla durata sentimentale della trasparenza, anzi inevitabilmente s’investe del lampo abrupto della luce rivelante fra gli strappi inconoscibili dell’ombra. Uomini e santi, torturatori e martiri si sarebbero ora impigliati in quel tragico scherzo. Per restare fedele alla natura fisica del mondo, occorreva far sì che il calcolo dell’ombra apparisse come casuale, e non già causato dai corpi; esimendosi così dal riattribuire all’uomo l’antica funzione umanistica dirimente di eterno protagonista e signore del creato. Perciò il Caravaggio seguita, e fu fatica di anni, a scrutare l’aspetto della luce e dell’ombra incidentali.
Inutile, a questo punto, chiedersi se vi siano stati stimoli particolari al mutamento. Quanto più alti i frangenti, sempre ve ne furono. Dalla vita stessa? Meglio non indagare in quel mare di miseria che gli cresceva attorno, anche doppiato il capo della povertà materiale. Dall’arte? Nel bene e nel male, tanto poteva servirgli riguardare, obtorto collo, un brano di Michelangelo o di Raffaello o qualche modello antico (e concludere che tutto questo era già stato fatto e perciò perento), quanto sbirciare il D’Arpino o i suoi accoliti sui palchi di San Giovanni in Laterano (al solo fine di rinfocolarsi nell’indignazione che è pur un pungolo a fare tutt’altro). O mormorare accanto al Giustiniani sull’arrivo dei primi quadri bolognesi a Roma e poi di Annibale in persona; smozzicando che proprio il meglio di quei dipinti s’era già visto altrove più schietto e che questa verità dimidiata tornava a «macinar colori» e non «carne» com’egli faceva (e come si dice che Annibale stesso gli abbia riconosciuto). Quanto ai quadri veneti, ne conobbe i migliori quando giunsero da Ferrara, nel 1599, forse scortati dal suo rivale D’Arpino; ma a quella data egli aveva già dipinto a San Luigi le tavole a più riprese cancellate, variate e corrette, della sua nuova realtà. Nulla di meglio, perciò, che guardar subito ad esse.
Già qualche antico biografo non mancava di avvertire che, in codeste opere, [Giuditta, Santa Caterina], in confronto a quelle trasparenti dell’adolescenza, il Caravaggio cominciava a «ringagliardire gli scuri». La cosa, lì per lì, sorprende anche noi che, versati nei fatti della pittura naturalistica posteriore, quasi ci saremmo attesi che il Caravaggio puntasse subito sulla pittura limpida e obbiettiva degli spagnoli o dei nordici, Velázquez, Hals o Vermeer. La verità è che ogni pittore non dà alla fine che ciò che il mondo gli chiede.(...) La chiesta era allora del quadro di evento sacro e patetico: questo è a spingere il Caravaggio sulla nuova via. Gli scuri che si ringagliardiscono sono dunque pur essi, preventivamente, affare di contenuto: che, fortunatamente, nell’occhio di un grande pittore, porterà con sé anche una forma atta ad incidere rapidamente sul contenuto stesso. Questo è il costante circolo di scambio fra arte e mondo sociale.
Ben vero che l’antico biografo, formalizzante come ogni strenuo idealista, dice che egli escogitò gli scuri gagliardi per «dar rilievo alli corpi»: E che altro poteva dire chi, a spiegare una così ostica rivoluzione, ardua persino per chi la fece, non aveva a disposizione altra grammatica da quella cinquecentesca?
Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nell’apologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello e da Michelangelo, e persino nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto. Ma ciò che gli andava balenando era ormai non tanto il «rilievo dei corpi» quanto la forma delle tenebre che li interrompono. Lì era il grumo drammatico della realtà più complessa ch’egli ora intravedeva dopo le calme specchiature dell’adolescenza. E la storia dei fatti sacri, di cui ora si impadroniva, gli appariva come un seguito di drammi brevi e risolutivi la cui punta non può indugiarsi sulla durata sentimentale della trasparenza, anzi inevitabilmente s’investe del lampo abrupto della luce rivelante fra gli strappi inconoscibili dell’ombra. Uomini e santi, torturatori e martiri si sarebbero ora impigliati in quel tragico scherzo. Per restare fedele alla natura fisica del mondo, occorreva far sì che il calcolo dell’ombra apparisse come casuale, e non già causato dai corpi; esimendosi così dal riattribuire all’uomo l’antica funzione umanistica dirimente di eterno protagonista e signore del creato. Perciò il Caravaggio seguita, e fu fatica di anni, a scrutare l’aspetto della luce e dell’ombra incidentali.
Inutile, a questo punto, chiedersi se vi siano stati stimoli particolari al mutamento. Quanto più alti i frangenti, sempre ve ne furono. Dalla vita stessa? Meglio non indagare in quel mare di miseria che gli cresceva attorno, anche doppiato il capo della povertà materiale. Dall’arte? Nel bene e nel male, tanto poteva servirgli riguardare, obtorto collo, un brano di Michelangelo o di Raffaello o qualche modello antico (e concludere che tutto questo era già stato fatto e perciò perento), quanto sbirciare il D’Arpino o i suoi accoliti sui palchi di San Giovanni in Laterano (al solo fine di rinfocolarsi nell’indignazione che è pur un pungolo a fare tutt’altro). O mormorare accanto al Giustiniani sull’arrivo dei primi quadri bolognesi a Roma e poi di Annibale in persona; smozzicando che proprio il meglio di quei dipinti s’era già visto altrove più schietto e che questa verità dimidiata tornava a «macinar colori» e non «carne» com’egli faceva (e come si dice che Annibale stesso gli abbia riconosciuto). Quanto ai quadri veneti, ne conobbe i migliori quando giunsero da Ferrara, nel 1599, forse scortati dal suo rivale D’Arpino; ma a quella data egli aveva già dipinto a San Luigi le tavole a più riprese cancellate, variate e corrette, della sua nuova realtà. Nulla di meglio, perciò, che guardar subito ad esse.
[Dipinti per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, Roma, pp.831-839]
Le vicende dei due famosi dipinti, una volta accertato ch’essi cadono nel cuore dell’ultimo decennio del secolo e, specificando, dopo la fase speculare di adolescenza e prima della «grande maniera personale» che si apre col secondo San Matteo, potrebbe anche omettersi nei particolari così poco decifrabili sulle carte….
Ben presto sentiamo aprirsi la vicenda dei due grandi «pensieri» per San Luigi: la Vocazione e il Martirio di San Matteo.
E per prendersi dalla Vocazione. Che il primo e palese spunto mentale dell’artista sia stato di raffigurarla come una scena di «giocatori d’azzardo» (…) è indice di quasi immediato attacco con le precedenti opere di soggetto feriale, coi Bari soprattutto; mentre è del pari segno di giovanile e spregiudicata esperienza (o inesperienza) che il Caravaggio ardisca cimentarvisi proprio in un’opera di gran mole e di pubblica destinazione chiesastica. E’ stata anche rievocata, e opportunamente, la preziosa indicazione di un biografo germanico (il Sandrart), che il Caravaggio, per il suo dipinto, avesse tratto qualcosa dall’incisione dello Holbein con i Giocatori e la Morte; indicazione assai più portante che non fosse stata sul finire del Cinquecento quella di Federico Zuccari quando tacciava il Caravaggio di plagio da un’improbabile opera di Giorgione: calunnia presto rinforzata, in quella stessa cerchia ostile, con il disegno «alla giorgionesca» (oggi agli Uffizi) insidiosamente atteggiato a guisa di modello per il dipinto di San Luigi, dal quale invece desume; e con tali refusi da svelare subito l’inganno. Giovi insistere che la incisione holbeiniana è ben altrimenti significativa, proprio per la concezione poetica di un tema di vita dissoluta che si cangia ad un tratto per forza di un destino che sopravviene: la Morte nello Holbein, il Cristo salvatore nel Caravaggio; due simboli di eternità nel senso di quei tempi e per due diverse nazioni. Restò fermo anche per il Caravaggio (da quella stampa) che il più dello svolgimento del tema era nella tavolata dei giocatori; e così ne provenne al Cristo un che di citazione iconografica suppletiva; e non pienamente risolta finché egli non intese quanto più risolutivo, anche come struttura di luce e di ombra, fosse l’appello creato dalla folata di luce radente che penetra, nello stanzone, col Cristo, e con la velocità del suo raggio lo precede. Ed è in questa parte, infatti, che l’esame radiografico ha rivelato le corretture più forti.
Su questo punto, insomma, il Caravaggio dovette meditare in un secondo tempo, quando cioè, su quell’iniziale impianto di scena mondana che anche la scelta dei colori vividi mostra legato allo spirito dei primi anni (il giovinetto piumato visto di fronte è probabilmente lo stesso modello della Buona Ventura), procedette a rinforzare via via ombre e luci fino a un colmo drammatico che richiama l’immagine poetica dello Eliot … (rispondenza significativa, anche se casuale, tra un pittore della fine del Cinquecento e un poeta neoelisabettiano…) (…).
Ma che il pittore, rinforzando con gli strati successivi della esecuzione il quadrante della partitura tra la luce e l’ombra, venisse sempre più a gravare sulla fatale rilevanza dell’evento, questo è il segno di una nuova capitale esperienza che succede a quella dello «specchio» degli anni adolescenti; ed è l’esperienza ad uso pittorico (leggi poetico) della «camera oscura».
Questa nuova esperienza del Caravaggio non disdice al costante avvicendarsi delle idee artistiche; anzi, come già la prospettiva ai tempi del Brunelleschi, essa costeggia le indagini tra naturalistiche, sperimentali e magiche della nuova epoca. Non maraviglierebbe che il Caravaggio dichiarasse d’intendere ormai con le sue ricerche a una specie di «magia naturale» che era, fin dal 1558, il titolo di un libro famosissimo di Giambattista Porta. E quando, sul 1620, leggiamo in un biografo questa descrizione dello studio, dell’atelier del Caravaggio: «Un lume unito che venga dall’alto senza riflessi, come sarebbe in una stanza con le pareti colorite di nero che così avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto oscure, vengano a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto né pensato da altro secolo o pittori più antichi», non sorprende che la definizione sia molto simile a quella della «camera oscura», che negli anni quasi del Caravaggio il Porta ci descriveva come sua propria invenzione. (…)
Le vicende dei due famosi dipinti, una volta accertato ch’essi cadono nel cuore dell’ultimo decennio del secolo e, specificando, dopo la fase speculare di adolescenza e prima della «grande maniera personale» che si apre col secondo San Matteo, potrebbe anche omettersi nei particolari così poco decifrabili sulle carte….
Ben presto sentiamo aprirsi la vicenda dei due grandi «pensieri» per San Luigi: la Vocazione e il Martirio di San Matteo.
E per prendersi dalla Vocazione. Che il primo e palese spunto mentale dell’artista sia stato di raffigurarla come una scena di «giocatori d’azzardo» (…) è indice di quasi immediato attacco con le precedenti opere di soggetto feriale, coi Bari soprattutto; mentre è del pari segno di giovanile e spregiudicata esperienza (o inesperienza) che il Caravaggio ardisca cimentarvisi proprio in un’opera di gran mole e di pubblica destinazione chiesastica. E’ stata anche rievocata, e opportunamente, la preziosa indicazione di un biografo germanico (il Sandrart), che il Caravaggio, per il suo dipinto, avesse tratto qualcosa dall’incisione dello Holbein con i Giocatori e la Morte; indicazione assai più portante che non fosse stata sul finire del Cinquecento quella di Federico Zuccari quando tacciava il Caravaggio di plagio da un’improbabile opera di Giorgione: calunnia presto rinforzata, in quella stessa cerchia ostile, con il disegno «alla giorgionesca» (oggi agli Uffizi) insidiosamente atteggiato a guisa di modello per il dipinto di San Luigi, dal quale invece desume; e con tali refusi da svelare subito l’inganno. Giovi insistere che la incisione holbeiniana è ben altrimenti significativa, proprio per la concezione poetica di un tema di vita dissoluta che si cangia ad un tratto per forza di un destino che sopravviene: la Morte nello Holbein, il Cristo salvatore nel Caravaggio; due simboli di eternità nel senso di quei tempi e per due diverse nazioni. Restò fermo anche per il Caravaggio (da quella stampa) che il più dello svolgimento del tema era nella tavolata dei giocatori; e così ne provenne al Cristo un che di citazione iconografica suppletiva; e non pienamente risolta finché egli non intese quanto più risolutivo, anche come struttura di luce e di ombra, fosse l’appello creato dalla folata di luce radente che penetra, nello stanzone, col Cristo, e con la velocità del suo raggio lo precede. Ed è in questa parte, infatti, che l’esame radiografico ha rivelato le corretture più forti.
Su questo punto, insomma, il Caravaggio dovette meditare in un secondo tempo, quando cioè, su quell’iniziale impianto di scena mondana che anche la scelta dei colori vividi mostra legato allo spirito dei primi anni (il giovinetto piumato visto di fronte è probabilmente lo stesso modello della Buona Ventura), procedette a rinforzare via via ombre e luci fino a un colmo drammatico che richiama l’immagine poetica dello Eliot … (rispondenza significativa, anche se casuale, tra un pittore della fine del Cinquecento e un poeta neoelisabettiano…) (…).
Ma che il pittore, rinforzando con gli strati successivi della esecuzione il quadrante della partitura tra la luce e l’ombra, venisse sempre più a gravare sulla fatale rilevanza dell’evento, questo è il segno di una nuova capitale esperienza che succede a quella dello «specchio» degli anni adolescenti; ed è l’esperienza ad uso pittorico (leggi poetico) della «camera oscura».
Questa nuova esperienza del Caravaggio non disdice al costante avvicendarsi delle idee artistiche; anzi, come già la prospettiva ai tempi del Brunelleschi, essa costeggia le indagini tra naturalistiche, sperimentali e magiche della nuova epoca. Non maraviglierebbe che il Caravaggio dichiarasse d’intendere ormai con le sue ricerche a una specie di «magia naturale» che era, fin dal 1558, il titolo di un libro famosissimo di Giambattista Porta. E quando, sul 1620, leggiamo in un biografo questa descrizione dello studio, dell’atelier del Caravaggio: «Un lume unito che venga dall’alto senza riflessi, come sarebbe in una stanza con le pareti colorite di nero che così avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto oscure, vengano a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto né pensato da altro secolo o pittori più antichi», non sorprende che la definizione sia molto simile a quella della «camera oscura», che negli anni quasi del Caravaggio il Porta ci descriveva come sua propria invenzione. (…)
[p.837]
Nel Caravaggio, invece, è la realtà stessa a venir sopraggiunta dal lume (o dall’ombra) per «incidenza»; il caso, l’incidente di lume ed ombra diventano causa efficiente della nuova pittura (o poesia). Non v’è vocazione di Matteo senza che il raggio, assieme col Cristo, entri dalla porta schiusa e ferisca la turpe tavolata dei giocatori d’azzardo.
In effetto, l’artista stagliò questa sua descrizione di luce, questo poetico «fotogramma», quando l’attimo di cronaca gli parve emergere, non dico con un rilievo, ma con uno spicco, con un’evidenza così memorabile, invariabile, monumentale, come, dopo Masaccio, non s’era più visto. La luce che rade sotto il finestrone, spartita dall’ombra come in un quadrante regolabile, lascia riflessi fiochi sulla sordida impannata: sospende nell’aria greve la mano del Cristo mentre l’ombra corrode il suo sguardo cavo; striscia sulle piume, si intride nelle guance, si specchia nelle sete dei giocatorelli; sosta su Matteo mentre, raddoppiando ancora con la destra la puntata, addita se stesso, quasi chiedesse: «Vuol me?» (e il viso scocca dall’angolo delle palpebre sbarrate il ciglio dell’ombra); spiuma confusamente la canizie del vecchio importuno in occhiali; per ultimo, fruga viso e spalle del giocatore a capotavola che vorrebbe immergersi nell’ombra lurida della propria perplessità.
Concepita dunque, di seguito alle cose più giovanili, come evento di costume moderno (…), la scena non poteva non intoppare nell’ostacolo del Cristo e dell’apostolo che pur bisognavano di figurarvi ma che, in quel costume, non si ritrovavano; e il Caravaggio si ridusse, su quel punto, a concedere alquanto a una storica drappeggiatura, non senza soffrire di un contrasto che, soltanto nel corso del lavoro, la sopraggiunta unità drammatica di luce-ombra riuscirà, otticamente, a velare; ma che non è ancora il modo in cui il pittore saprà risolvere il problema più tardi, dopo ben altre meditazioni di «contenuto».
Di fronte alla Vocazione, il Martirio del Santo. (…) Così com’è, inutilmente sorretta nei primi piani dai nudoni retorici dei manigoldi scamiciati, l’opera non va immune da alcuni odiosi ricordi manieristici che non mancano di riconfermare precocità e relativa immaturità d’invenzione, respingendo ancora di alquanto l’abbrivio del dipinto.
E non che occorra trascurare, neppure in questo caso, la controparte più geniale del giovine rivoluzionario. Sebbene si trattasse di una leggenda situata in Etiopia (…), ..il Caravaggio (…) ha l’ardire di trasformarlo in un fattaccio di cronaca nera entro una chiesa romana dei suoi giorni. Violata la santità del luogo, vi è entrata da più parti la squadraccia dei bravi e il santo, già trafitto, è ora rovesciato sotto i gradini dell’altare dal manigoldo che sta per finirlo. Degli astanti, venuti per la messa, oltre il signorotto insolente che con un gesto fatuo sull’elsa ribatte nel fodero la lama ormai inutile, taluni sembrano assistere attoniti; altri più timorosi (e fra questi, strano a dirsi, il Caravaggio stesso che s’è fatto ora crescere baffi e moschetta come uno studente spavaldo) tirano a scampare come da una comune rissa di strada; altri ancora, nella luce di spiraglio (forse dalla porta laterale lasciata aperta dall’irruzione), levano le mani in gesti di stupore o di orrore. Nell’aria bruna che ancora grava sul centro della scena quasi galleggia il nudo fortemente inciso d’ombre del carnefice (memore sempre di quello del Moretto nel San Pietro Martire di Bergamo): fiorisce come un petalo grasso la cotta del chierichetto che, fuggendo sulla destra, ancora ripete la reazione fisica, momentanea del Giovinetto morso dal ramarro, della Maddalena, dell’Isacco «che grida»; poi, nella «ingegnosa descrizione dell’oscurità» che invade l’abside, il Caravaggio trova ancora modo d’indugiarsi sull’angelotto nudo, mentre si flette, dalla nube densa, a sporgere la palma del martirio; di osservare come si torca per la ventata dell’ala la fiamma della candelina; di perlustrare sulla destra, in penombra, la preziosa «natura morta» delle ampolline da messa nel bacile di peltro; un altro smorzato ricordo della fase «speculare» di adolescenza.(…)
Nel Caravaggio, invece, è la realtà stessa a venir sopraggiunta dal lume (o dall’ombra) per «incidenza»; il caso, l’incidente di lume ed ombra diventano causa efficiente della nuova pittura (o poesia). Non v’è vocazione di Matteo senza che il raggio, assieme col Cristo, entri dalla porta schiusa e ferisca la turpe tavolata dei giocatori d’azzardo.
In effetto, l’artista stagliò questa sua descrizione di luce, questo poetico «fotogramma», quando l’attimo di cronaca gli parve emergere, non dico con un rilievo, ma con uno spicco, con un’evidenza così memorabile, invariabile, monumentale, come, dopo Masaccio, non s’era più visto. La luce che rade sotto il finestrone, spartita dall’ombra come in un quadrante regolabile, lascia riflessi fiochi sulla sordida impannata: sospende nell’aria greve la mano del Cristo mentre l’ombra corrode il suo sguardo cavo; striscia sulle piume, si intride nelle guance, si specchia nelle sete dei giocatorelli; sosta su Matteo mentre, raddoppiando ancora con la destra la puntata, addita se stesso, quasi chiedesse: «Vuol me?» (e il viso scocca dall’angolo delle palpebre sbarrate il ciglio dell’ombra); spiuma confusamente la canizie del vecchio importuno in occhiali; per ultimo, fruga viso e spalle del giocatore a capotavola che vorrebbe immergersi nell’ombra lurida della propria perplessità.
Concepita dunque, di seguito alle cose più giovanili, come evento di costume moderno (…), la scena non poteva non intoppare nell’ostacolo del Cristo e dell’apostolo che pur bisognavano di figurarvi ma che, in quel costume, non si ritrovavano; e il Caravaggio si ridusse, su quel punto, a concedere alquanto a una storica drappeggiatura, non senza soffrire di un contrasto che, soltanto nel corso del lavoro, la sopraggiunta unità drammatica di luce-ombra riuscirà, otticamente, a velare; ma che non è ancora il modo in cui il pittore saprà risolvere il problema più tardi, dopo ben altre meditazioni di «contenuto».
Di fronte alla Vocazione, il Martirio del Santo. (…) Così com’è, inutilmente sorretta nei primi piani dai nudoni retorici dei manigoldi scamiciati, l’opera non va immune da alcuni odiosi ricordi manieristici che non mancano di riconfermare precocità e relativa immaturità d’invenzione, respingendo ancora di alquanto l’abbrivio del dipinto.
E non che occorra trascurare, neppure in questo caso, la controparte più geniale del giovine rivoluzionario. Sebbene si trattasse di una leggenda situata in Etiopia (…), ..il Caravaggio (…) ha l’ardire di trasformarlo in un fattaccio di cronaca nera entro una chiesa romana dei suoi giorni. Violata la santità del luogo, vi è entrata da più parti la squadraccia dei bravi e il santo, già trafitto, è ora rovesciato sotto i gradini dell’altare dal manigoldo che sta per finirlo. Degli astanti, venuti per la messa, oltre il signorotto insolente che con un gesto fatuo sull’elsa ribatte nel fodero la lama ormai inutile, taluni sembrano assistere attoniti; altri più timorosi (e fra questi, strano a dirsi, il Caravaggio stesso che s’è fatto ora crescere baffi e moschetta come uno studente spavaldo) tirano a scampare come da una comune rissa di strada; altri ancora, nella luce di spiraglio (forse dalla porta laterale lasciata aperta dall’irruzione), levano le mani in gesti di stupore o di orrore. Nell’aria bruna che ancora grava sul centro della scena quasi galleggia il nudo fortemente inciso d’ombre del carnefice (memore sempre di quello del Moretto nel San Pietro Martire di Bergamo): fiorisce come un petalo grasso la cotta del chierichetto che, fuggendo sulla destra, ancora ripete la reazione fisica, momentanea del Giovinetto morso dal ramarro, della Maddalena, dell’Isacco «che grida»; poi, nella «ingegnosa descrizione dell’oscurità» che invade l’abside, il Caravaggio trova ancora modo d’indugiarsi sull’angelotto nudo, mentre si flette, dalla nube densa, a sporgere la palma del martirio; di osservare come si torca per la ventata dell’ala la fiamma della candelina; di perlustrare sulla destra, in penombra, la preziosa «natura morta» delle ampolline da messa nel bacile di peltro; un altro smorzato ricordo della fase «speculare» di adolescenza.(…)
[Secondo San Matteo e l’angelo, p. 854]
Siamo al punto in cui il Caravaggio, quasi affatto risolta la lunga crisi, può sorridere dell’ingenuo San Matteo «che prima aveva fatto per l’altare di San Luigi» e chiede egli stesso, c’è da credere, di poterlo sostituire con una seconda invenzione che meglio accompagni, anche di proporzione, le due storie finalmente collocate sulle pareti della cappella Contarelli.
Che il formato della tela dovesse, così, crescere assai più d’altezza che di larghezza, non fu l’ultima ragione che suggerì al Caravaggio di concedere, e per la prima volta, che gli angeli, almeno gli angeli, possano volare. E sia pure che la sua solita dialettica lo stimolasse a immaginarne uno sorretto in aria dallo schiocco dell’enorme accappatoio, quasi a guisa di paracadute. Ma in tal forma, almeno secondo il «decoro» dell’epoca, l’angelo poteva dar le sue spiegazioni ab alto e il santo, non più duro di cervice come nella prima versione, semmai d’orecchio, doveva, per sentir meglio quel che trascrivere nel registro aperto sul tavolo d’architetto, rizzarsi dallo sgabello; poggiandovi un ginocchio però e, ad ogni attacco di frase, prillandolo verso di noi fino a farlo sbandare nel vuoto, oltre il dipinto stesso.
Questo forte effetto illusionistico, rinforzato dal punto di vista dal basso, trovò poi un magico accordo sia con l’adozione di un costume aulico, ma immanente, e cioè che indossa bene ogni tempo e quasi non si può datare, sia con l’invenzione di un colore inedito, quasi fluorescente sull’oscurità, e che accozza i due toni, affini e pur distinti, di giallo e arancione che si scorzano dall’alto nella tunica e nel mantello del santo; per questa parte, una rivelazione già rembrandtiana. Nell’insieme, tuttavia, non è da negare che il quadro fa più che una concessione al «decoro» richiesto dai tempi e dal luogo. Il manto ricade in basso con una falda lunga, lanceolata, elegante quasi come, più tardi, nel Mochi; e di nuovo sboccia con eleganza di sèpali attorno alle mani ch’eran già moderne; naturali, «senza disegno», tutte a incisi tonali, a tacche, a tasselli, a cordelle di vene, tra rughe e pelle. In questo innegabile contrasto v’è riflessi dell’ambiente pittorico a quei giorni? Non polemica, come per l’innanzi, ma discussione pacata con Annibale Carracci; nel «maneggio del colore», una comprensione maggiore dei classici veneziani appena giunti da Ferrara.
Del resto, un biografo ci avverte ch’egli «usò ogni sforzo per riuscire in questo secondo quadro»; e lo sforzo era palesemente anche di cultura. Non è indiscreto, insomma, ammettere che il Caravaggio voglia qui provarsi in una sua propria «maniera grande», quasi una «classicità» inclusiva al proprio «modo naturale». Ma ciò non era senza pericoli, ché la classicità aveva una storia e una autorità troppo lunghe e fondate.
Che il formato della tela dovesse, così, crescere assai più d’altezza che di larghezza, non fu l’ultima ragione che suggerì al Caravaggio di concedere, e per la prima volta, che gli angeli, almeno gli angeli, possano volare. E sia pure che la sua solita dialettica lo stimolasse a immaginarne uno sorretto in aria dallo schiocco dell’enorme accappatoio, quasi a guisa di paracadute. Ma in tal forma, almeno secondo il «decoro» dell’epoca, l’angelo poteva dar le sue spiegazioni ab alto e il santo, non più duro di cervice come nella prima versione, semmai d’orecchio, doveva, per sentir meglio quel che trascrivere nel registro aperto sul tavolo d’architetto, rizzarsi dallo sgabello; poggiandovi un ginocchio però e, ad ogni attacco di frase, prillandolo verso di noi fino a farlo sbandare nel vuoto, oltre il dipinto stesso.
Questo forte effetto illusionistico, rinforzato dal punto di vista dal basso, trovò poi un magico accordo sia con l’adozione di un costume aulico, ma immanente, e cioè che indossa bene ogni tempo e quasi non si può datare, sia con l’invenzione di un colore inedito, quasi fluorescente sull’oscurità, e che accozza i due toni, affini e pur distinti, di giallo e arancione che si scorzano dall’alto nella tunica e nel mantello del santo; per questa parte, una rivelazione già rembrandtiana. Nell’insieme, tuttavia, non è da negare che il quadro fa più che una concessione al «decoro» richiesto dai tempi e dal luogo. Il manto ricade in basso con una falda lunga, lanceolata, elegante quasi come, più tardi, nel Mochi; e di nuovo sboccia con eleganza di sèpali attorno alle mani ch’eran già moderne; naturali, «senza disegno», tutte a incisi tonali, a tacche, a tasselli, a cordelle di vene, tra rughe e pelle. In questo innegabile contrasto v’è riflessi dell’ambiente pittorico a quei giorni? Non polemica, come per l’innanzi, ma discussione pacata con Annibale Carracci; nel «maneggio del colore», una comprensione maggiore dei classici veneziani appena giunti da Ferrara.
Del resto, un biografo ci avverte ch’egli «usò ogni sforzo per riuscire in questo secondo quadro»; e lo sforzo era palesemente anche di cultura. Non è indiscreto, insomma, ammettere che il Caravaggio voglia qui provarsi in una sua propria «maniera grande», quasi una «classicità» inclusiva al proprio «modo naturale». Ma ciò non era senza pericoli, ché la classicità aveva una storia e una autorità troppo lunghe e fondate.
[Dipinti per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, Roma, p. 856-859]
Come egli evitasse quei pericoli subito dopo, si rileva, tra il 1600 e il 1601, vedendolo all’opera nei due quadri commessigli da monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere papale, per le pareti laterali della sua cappella in Santa Maria del Popolo, con la Crocefissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. E quando, dalla premessa del contratto, si colleghi l’elogio dello «egregius in urbe pictor» con il fatto che il quadro dell’altare era stato invece commesso ad Annibale Carracci, non è dubbio che la duplice scelta stia ad indicare i due più famosi pittori di Roma.
I due dipinti, che il committente voleva condotti su tavola di cipresso e anticipati da modelli, ebbero, com’è noto, una prima redazione, subito passata in altre mani e ciò non già perché non piacessero al committente, come pure si è voluto insinuare (ché anzi chi li vide li dichiara quasi identici agli odierni), ma perché, è da credere, fu il pittore stesso a volerli sostituire con altri nella sua tecnica preferita ad olio su tela.(...)
Il Caravaggio, dopo le esperienze nella «stanza con le parete tinte di nero», è ormai signore delle tenebre e le disserra quel tanto che occorre a non diminuire mentalmente il suo tragico, virile pessimismo. Anche per gli uomini, ora a grandezza naturale per maggior certezza del fatto, non v’è quasi altro al mondo che la sopportazione della fine o una incondita, quasi incidentale, rivelazione.
Sopita ogni polemica, il pittore sa che per una Crocefissione di San Pietro non è ora più bisogno di misurarsi con i giochi di forza massicci svolti circa sessant’anni prima dall’altro Michelangelo nella cappella Paolina e neppure di gravare sulla crudeltà degli aguzzini o, tanto meno, di aggiungerne di bercianti e scamiciati come a San Luigi. Le cose accadono con un’evidenza incolpevole dove ognuno attende all’opera sua. La desolazione insomma è nel fatto stesso su cui sta allo spettatore di giudicare. Sulle rocce brune che saranno (con quella luce negli occhi) l’ultimo ricordo del martire, presso la cava di pozzolana o la calcara di San Pietro in Montorio, il pittore, impassibile, «gira» la fatica dei serventi (il cui gesto, è doveroso riconoscerlo, è di operai che si affaticano e non di carnefici che incrudeliscano nella bisogna), tutti in giubboni e brache frusti, baveri sgualciti (e pur rifiorenti nel lume), piedi fangosi e con i pochi attrezzi: E riprende da vicino il santo, forse notissimo modello buono di via Margutta, che, già infitto alla croce, ci guarda calmo, cosciente come un moderno eroe laico; mentre il mantello bigioazzurro va scivolando in angolo sotto l’ombra del badile brunito, accanto al pietrone friabile e caldo come un pane ancora impolverato dalla cenere del forno.
Anche nella Conversione di San Paolo, fattasi inutile ogni disputa con Michelangelo (o magari con Taddeo Zuccari), il pittore si limita a sorridere di se stesso che tanti anni prima (otto o dieci, chi se ne ricorda più?) aveva pensato così confusamente sullo stesso argomento. Gli ritorna semmai il più antico, toccante ricordo del suo Moretto «a Sant Cels», così spinto, così ingenuo; ma pur caro ricordo per chi ora intenda che si può far di più e più semplicemente. Mettersi, cioè, come spettatore, dalla parte dello scavalcato che si ritrova a terra, e non sa come, tra i finimenti e le redini che spazzano al suolo; e si veda addosso la massa enorme del cavallone pezzato, la bava che cola dal morso e quell’intrigo indecifrabile, tra quadrupede e servente, di vene nodose e varicose; tutto stampatogli in mente d’un tratto da quel fascio di lume spiovente (ma non era forse la lanterna della scuderia?) che ora sigilla nelle sue palpebre richiuse l’aspetto delle pupille cieche nei busti romani.
Con questo sottinteso discreto che sta per sommessa ironia dell’erudizione corrente e che, eliminando fino all’osso la tradizione iconografica del tempo, non manca di fermare un punto nell’immenso percorso mentale del maestro, questi licenzia il dipinto forse più rivoluzionario in tutta la storia dell’arte «sacra».
Non fosse che qui si trattava di un dipinto «laterale», potrebbe anzi sorprendere che il Caravaggio riuscisse a «pubblicarlo» senza incorrere in un rifiuto o almeno in serie censure. E quasi si amerebbe sapere se, nel ceto dei dilettanti, mancò chi, usando il titolo nel senso cinetico, galileiano, chiamasse il quadro «la conversione di un cavallo»; resta però lo stupore del biografo più famoso nel rilevare che «la storia è affatto senza azione». Lo stupore verrà corretto più tardi dall’elogio per «il cavallo pomellato che è simile al vero» o, addirittura, «mirabile». Ma queste sono già frasi di amatori. Nella vicenda comune.
Nessun commento:
Posta un commento