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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

Le ceneri di Gramsci

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Le ceneri di Gramsci,

di Pier Paolo Pasolini.



  « Mi chiederai tu, morto disadorno,

d'abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo? »


Le ceneri di Gramsci è un libro di poesie nel quale Pasolini raccoglie in un unico volume 11 poemetti che lo stesso poeta aveva scritto e pubblicato in varie riviste tra il 1951 e il 1956 revisionati e pubblicati nel 1957 nelle edizioni Garzanti.

La poesia originariamente uscì sulla rivista “Nuovi Argomenti” del novembre-febbraio del ‘55’, ma la composizione risale al 1954. La poesia è divisa in sei parti.
Il poeta si trova davanti alla tomba di Antonio Gramsci, presso il cimitero degli inglesi a Roma, e dialoga con le sue spoglie, descrivendo un maggio autunnale, che sembra rappresentare “il grigiore del mondo, la fine del decennio in cui ci appare | tra le macerie finito il profondo | e ingenuo sforzo di rifare la vita”
Gli undici poemetti delle "Ceneri di Gramsci" vennero raccolti in volume per la prima volta nel 1957, in un momento particolarmente delicato per la cultura di sinistra, a un anno di distanza dalla condanna di Stalin al XX Congresso del Partito Comunista Sovietico e dalla drammatica invasione dell'Ungheria. Ebbero un successo di vendite insolito per un libro di poesia e provocarono accese discussioni tra i critici. Con la prefazione di Giuseppe Leonelli:

«la divaricazione tra io e mondo, tra l’intellettuale borghese raffinato e il popolo, si risolve e si sublima sul piano estetico. Tra l’immagine della "vita proletaria" elaborata nella mente, rappresentata dalla figura di Gramsci, e l’altra depositata nelle "buie viscere", si crea una differenza di potenziale che produce un incessante passaggio di energia poetica».

Il volume:

1) L’Appennino; 
2) Il canto popolare; 
3) Picasso; 
4) Comizio; 
5) L’umile Italia; 
6) Quadri friulani; 
7) Le ceneri di Gramsci; 
8) Recit; 
9) Il pianto della scavatrice; 
10) Una polemica in versi; 
11) La Terra di lavoro.




Le ceneri di Gramsci


Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia
 
con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
 
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
 
tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
 
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo...
 
Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
 
quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri - non padre, ma umile
fratello - già con la tua magra mano
 
delineavi l'ideale che illumina
 
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell'umido
 
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
 
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
 
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
 
la sua giornata, mentre intorno spiove.
II
 
Tra i due mondi, la tregua, in cui non
siamo.
Scelte, dedizioni... altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo
 
e nobile, in cui caparbio l'inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
 
che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte
 
e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni
 
più grandi; ronzano, quasi mai
scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell'urne sparse
 
inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti
 
uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo
 
a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà
 
questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera
 
rasserenando spegne in disadorni
sentori d'alga... quest'erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda
 
l'atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta
 
trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda
 
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
- familiari da latitudini e
 
orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come
 
smeraldi: "And O ye Fountains..." - le pie
invocazioni...
III
 
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,
 
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
 
morti: Le ceneri di Gramsci... Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
 
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
 
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d'adolescente di sesso con morte...)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
 
la tua tensione, sento quale torto
- qui nella quiete delle tombe - e insieme
quale ragione - nell'inquieta sorte
 
nostra - tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
 
non ancora disperso dell'antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
 
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d'incudini, in sordina,
soffocato e accorante - dal dimesso
 
rione - ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in
vetrine
 
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
 
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
 
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
 
l'odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
- con te - il mondo, oggetto non appare
 
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
 
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio - nella sua miseria
 
sprezzante e perso - per un oscuro
scandalo
della coscienza...
  IV
 
Lo scandalo del contraddirmi,
dell'essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;
 
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
 
degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
 
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria
 
dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
 
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...
 
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
 
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
 
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la
storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
 
ma a che serve la luce?
  V
 
Non dico l'individuo, il fenomeno
dell'ardore sensuale e sentimentale...
altri vizi esso ha, altro è il nome
 
e la fatalità del suo peccare...
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale
 
oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna
 
delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce
all'inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche
 
le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza... e ironico ardore
 
liberale... e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute... Fino alle infime minuzie
 
in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia... Ben protetto
dall'impura virtù e dall'ebbro peccare,
 
difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l'io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto
 
il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento... Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio
 
del vento, qui dov'è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l'anima il cui graffito suona
 
Shelley... Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico
 
villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell'avventura, estetica
 
e puerile: mentre prostrata l'Italia
come dentro il ventre di un'enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,
 
sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme
 
col membro gonfio tra gli stracci un
sogno
goethiano, il giovincello ciociaro...
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
 
d'erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.
 
Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
 
le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,
 
dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa... Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico
 
di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii
 
del mare... E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza
 
ne è l'Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome
 
del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,
 
in luride spiaggette...
 
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d'abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
VI
 
Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
 
che al quartiere in penombra si
rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
 
di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
 
e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
 
caseggiati dove si consuma l'infido
ed espansivo dono dell'esistenza -
quella vita non è che un brivido;
 
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
 
- forse più lieta della vita - come
d'un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
 
che per l'operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l'umile corruzione. Quanto più è vano
 
- in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace -
ogni ideale, meglio è manifesta
 
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
 
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine...
 
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
 
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
 
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina... Manca poco alla cena;
 
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d'operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
 
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d'immondizia
nell'ombra, rintanate zoccolette
 
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
 
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
 
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
 
vespertina; e scrosciano le
saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
 
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
 
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
 
È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
 
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente
 
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
 
1954
Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: "Cinera Gramsci" con le date.



La vita e l’opera di Pier Paolo Pasolini, come la vita e l’opera di Percy Bisshe Shelley, furono scomode, senza momenti di remissione. Le loro morti si consumarono l’una nel fragore confuso di una tempesta nel mare e l’altra si compì nell’oscurità senza echi di una povera fredda periferia romana, sfruttata probabilmente da chi ordì l’attacco come trappola. 

Il giovanissimo Percy Bisshe Shelley amava le atmosfere create dalla luce della luna e da quella delle candele, si travestiva per interpretare i personaggi soprannaturali che la sua immaginazione evocava ai suoi occhi e a quelli delle sorelle, era affascinato dall’energia del fuoco che sprigionava con ripetuti esperimenti – anche a rischio di provocare pericolose conflagrazioni. 
Questa inestinguibile pulsione ad investigare il segreto delle cose, a misurarsi con le forze sorgive della vita, oltre la placida e falsa apparenza del quotidiano, caratterizzò tutta la breve vita del poeta, che costantemente impiegò la sua passione non solo per denunciare le catene delle istituzioni della società, ma per far vivere le virtù e i valori in cui la sua visione filosofica credeva con dedizione totale.
Figlio del tempo in cui si compirono le rivoluzioni di America e di Francia, Shelley fu appassionato difensore di ogni forma di libertà, quella politica che si incarna nel completo diritto di parola, anatema per ogni forma di governo, quella civile, religiosa, e quella privata che coltivò predicando e vivendo con mite fermezza il libero amore, scandalo tra i più imperdonabili non solo nel suo tempo. Si battè per l’indipendenza dell’Irlanda, professò il vegetarianismo per amore delle creature del mondo. Shelley non solo criticò ogni forma di abuso e di tirannìa contro l’individuo, ma difese i suoi ideali conducendo un’esistenza letteralmente “sulla strada”, esule volontario dalla terra che lo vide nascere e lo considerò nemico.

Shelley annegò poco prima di compiere il suo trentesimo anno, mentre si recava con la propria imbarcazione, l’Ariel, da Livorno a Lerici, a seguito di una tempesta improvvisa. Ombre e sospetti circondarono da subito la sua morte: furono le forze scatenate della natura a recidere il filo della sua vita o intervenne anche un oscuro complotto? Qualche amico, in particolare Edward John Trelawny, scrisse di inspiegabili rinvenimenti : pare che la barca rivelasse uno strano squarcio sul fianco, come di una speronata; un vecchio marinaio ligure, anni dopo sul letto di morte, forse confessò un attacco piratesco all’Ariel. Cosa può attendersi chi senza posa e a voce alta critica e condanna ingiustizie e prevaricazioni e vive secondo codici comportamentali non usuali?




Curatore, Bruno Esposito

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