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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

Pasolini in Friuli

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini in Friuli:


Con queste due citazioni di Pasolini messe a modo di esergo diamo inizio alla pubblicazione della tesi della professoressa Mariella Chieco sull'attività poetica e teatrale di Pier Paolo Pasolini in Friuli: un capitolo poco noto ma importantissimo del percorso umano di questo straordinario personaggio. 

“Devo assolutamente investire l'atto
assoluto del vivere in un pretesto,
che naturalmente è così prosaico, così inferiore,
così impari, così povero, così delusorio, 
rispetto a ciò che esso è incaricato 
di «far passare» nel tempo. 
(...)
Però la letteratura insieme con l'esperienza religiosa,
è l'unica attività che (...) può far intravedere 
o perlomeno pensare
a cosa sarebbe la vita senza la storia”(1)

“Questa è bellezza, e come la vera bellezza, 
non è semplice ma composta: 
è occorsa la sovrapposizione dei secoli, 
la tettonica inestricabile degli odi e delle gioie (...). 
Alla bellezza occorre sempre un precedente impuro, una storia: 
Valvasone è bello perché è blasonato. 
E dunque a Valvasone 
si addirebbe l'inno, non la cronaca (...)”(2)


Quella fredda notte di gennaio 1950, raggelata «sotto la coltre di neve che copriva tutto il Friuli», non sarebbe stata scaldata dall’arrivo in una terra abitata da «amica gente». Questa volta l’“amato” treno lo avrebbe condotto tra gente sconosciuta, in una terra «che non è la sua», in quella Roma «sorda ad ogni ingenua attesa».

Pasolini esule friulano (1)


“Irrompono negli orecchi, fissi,
ai nuovi campi dell’Aniene i vecchi 
grilli, e mi gridano in silenzio
la mia inascoltata solitudine. 
Scomparso dentro questa vecchia 
calma campestre che non è la mia 
rincaso (...)” (2).

Pier Paolo Pasolini il 28 gennaio 1950, dopo lo scandalo di Ramuscello (3), accompagnato dalla mamma Susanna Colussi, prende dalla stazione di Casarsa il rapido diretto a Roma. Qualche anno più tardi in un racconto richiesto dalla Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato definirà questo treno «il rapido della decisione più importante della mia vita».
Pasolini ha sempre parlato del suo «amore per il treno» e per quelle rotaie che «puntavano drittissime su Casarsa, (...) luogo assoluto dell'universo, (...) prima campagna del mondo» (4). Quella fredda notte di gennaio, raggelata «sotto la coltre di neve che copriva tutto il Friuli» (5), non sarebbe stata scaldata, però dall’ arrivo in una terra abitata da «amica gente» (6). Questa volta l’“amato” treno lo avrebbe condotto tra gente sconosciuta, in una terra «che non è la sua», in quella Roma «sorda ad ogni ingenua attesa» (7).

“...Sono in un altro tempo,
un tempo che dispone i suoi mattini
in questa strada che io guardo, ignoto, 
in questa gente frutto d'altra storia...”. (8)

La gente anonima di Roma non ha gli unici tratti somatici che Pasolini aveva imparato a riconoscere nei giovani casarsesi come la sensualità dal mistero avvenente che brucia nei loro occhi (9); questa gente è profondamente estranea a quella storia alla quale il nostro poeta aveva provato e imparato ad appartenere, raccontandola - meglio, cantandone un inno che la cogliesse «in pieno mistero e in piena castità» (10). Ora i campi, il cielo, le strade, la gente di Roma non gli parlano più; non sente più cantare le sue «fuejs», le sue «aghis», il «radic» colto da mani scure, i gesti famigliari dei «veci» contadini curvi sulla terra (11). Le sponde dell'Aniene non sono le sponde del Tagliamento. “Il trauma è fortissimo nel passaggio dal passato al presente: l'aria agra friulana e le luci barocche romane; i saluti di Versuta che sono tremiti del cuore e le esclamazioni della plebe romana”. (12) Persino la sua vocazione poetica sembra inizialmente venir meno:
“(...) Ora da quando sono a Roma, basta che mi metta alla macchina da scrivere perché tremi e non sappia più pensare: le parole hanno come perso il loro senso”. (13)
Il senso delle parole è dato dalla sua "tanto bramata" e conquistata familiarità con il Friuli; solo qui la sua scrittura, la sua poesia può continuare ad avere valore. Pasolini non può concepire la sua vocazione poetica come altro dall'appartenenza alla sua terra. Il paesaggio friulano non è l'equivalente «in poesia di un'arte popolare da iconografia o da ex voto». (14)
“(...) amo questi luoghi, come un uomo può amare le rocce e i boschi; ma non le olografie”. (15)
La sua poesia non nasce nel cantuccio di un laboratorio scientifico, i suoi versi hanno il colore e l'odore delle stagioni casarsesi, e in ogni rigo si legge la fatica delle corse in bicicletta fino al Tagliamento. “La cosa è molto più poetica. Si tratta della più alta, perfetta traduzione in termini linguistici dei dati del paesaggio: (...) per una assoluta convivenza e coesistenza del popolo che canta con il paese in cui canta”. (16) Solo chi conosce quest’intimità con il Friuli può capire la sua estraneità a Roma.


E' nell'estate del 1941, la più bella estate della sua vita, che Pier Paolo "riscopre" Casarsa nella sua più riposta bellezza campestre, «mentre la sua umanità viene assimilata a un'affascinante storia barbarica riattualizzata nei fenomeni della vita presente; vivificata dai miti popolari e da altri miti inventati dallo stesso poeta».


Nel 1936, il giovane Pier Paolo, con la sua famiglia, si ristabilisce nella «bella e dolce» Bologna (17) , dove era nato quattordici anni prima e dove lui stesso riconosce di aver passato sette anni, «forse i più belli», della sua vita. (18) Qui, nel 1939, dopo aver superato brillantemente gli esami di maturità, si iscrive alla facoltà di lettere. All'università comincia a seguire con «febbrile» entusiasmo le lezioni di storia dell'arte medievale e moderna tenute dal professor Roberto Longhi.
La vitalità segna il ritmo delle sue giornate, quella «disperata vitalità» che caratterizzerà ogni istante della sua vita, e che ha origine in quella «possibilità illogica di rassegnazione» (19) anche davanti agli eventi più tragici dell'esistenza. Scrive da Casarsa nella primavera del 1943 all'amico Franco Farolfi:

“(...) non posso rassegnarmi (...). Non ho un momento di calma, perché vivo sempre gettato nel futuro: (...) con disperazione immensa e accorata, (...) una coscienza continuamente viva e dolorosa del tempo”. (20)

Ogni estate, dopo svaghi e studi della vita cittadina, sin dall'infanzia, come per un programma rigorosamente osservato, Pasolini con tutta la famiglia si trasferisce a Casarsa, paese dove è nata e cresciuta la madre. Ma è nell'estate del 1941, la più bella estate della sua vita, che Pier Paolo "riscopre" Casarsa nella sua più riposta bellezza campestre, «mentre la sua umanità viene assimilata a un'affascinante storia barbarica riattualizzata nei fenomeni della vita presente; vivificata dai miti popolari e da altri miti inventati dallo stesso poeta». (21)
“(...) uno dei dolci miti, che, qui a Casarsa, mi nascono più generosamente e spontaneamente che in qualsiasi luogo della terra” (22).
Tutto sembra nuovo, tutto di Casarsa sembra stupirlo come se fosse il primo, esitante affacciarsi in un mondo sconosciuto ma desiderabile. Pier Paolo ha sempre cercato di appartenere al «mistero contadino» del suo popolo, sebbene costantemente con «l'ansia di sentirsene escluso»: (23) 

(...) “oscuro / senso le mie parole a chi di altri luoghi mi sa”. (24)

Straniero, Pasolini parla una lingua diversa, ma benché estraneo a questo mondo, chiede di appartenervi: 

 “Il mio volo ha ali / per essere come voi”. (25)

Per tutta l'estate, Pier Paolo scrive ai suoi amici condirettori di «Eredi» (26) che sono rimasti a Bologna e insieme alle lettere invia i suoi primi esperimenti poetici. I temi delle poesie non possono che riguardare la piccola ed umile vita a Casarsa: 

«le opere dei contadini nelle aie e nelle stalle», «le famiglie che fanno baruffa all'aperto», i giovani “che guidano i carri nei campi” (27), i ragazzi che si destano "ed erba vanno a tagliare / nella gronda dell'alba"(28). 

Alle accuse «carognette» dell' amico Luciano Serra, che in una lettera aveva sottolineato il carattere "crepuscolare" del suo linguaggio poetico, reagisce fortemente, affermando che esso, più che 

«umile e dimesso, se mai pecca di eccessiva ridondanza e ricercata aulicità». (29)

“Il piccolo mondo di Casarsa non viene affatto proposto come un nido regressivo; anzi, viene sempre con più forza dichiarata la sua qualità di metonimia della realtà, sia essa degli istinti, della tradizione, della storia o del mito”. (30)
In Pier Paolo c'è la volontà di appropriazione della realtà attraverso la poesia, e questa «non nasce per se stessa, ma vive (...), di avvenimenti umani» (31) Leggendo le lettere dell'estate del 1941, è sorprendente considerare la sua notevole produzione poetica (quasi due poesie al giorno). Non crediamo che per il nostro poeta si possa parlare di nevrosi o schizofrenia creativa, ma di pura e assoluta vocazione letteraria; in lui, «ergastolano della propria vocazione», c'è, come scrive Walter Siti «l'allegria di chi ogni giorno ha voglia di divorare, - scrivendola la realtà». (32) D'altronde, lo stesso Pasolini "canta":

“Ciò che non esprimo muore.

Non voglio che nulla muoia in me”. (33)

Se, dunque, il luogo da cui partire per riscoprire una civiltà è quello abitato da «uomini ingenui», ecco spiegata la scelta di Casarsa: quale modo dunque più immediato per raccontare le origini di una civiltà, partendo da luoghi, focolari, foglie, acque, volti che cantano, o meglio gridano le sue origini?


A questo punto non possiamo non chiederci perché Pasolini elegga proprio Casarsa come luogo del suo esordio poetico. La sua tensione nello scrivere è volta ad un progetto che va al di là della semplice ambizione, ma che è coscienza di una missione poetica che abbraccerà tutta la vita.
Da Bologna, nell'autunno del 1940, invia a Franco Farolfi il primo «capitoletto di un breve trattatello»: “Noi non vogliamo, amici, porci nel novero di chi vive nell'esilio decretato dagli efebi. (...) Noi non siamo il fantasioso poeta che si accontenta della realtà degli uomini come egli è uso nei suoi sogni mutarla. Questo fantasioso poeta fa come il falso uomo che musica ascolta, e la pensa come pretesto al proprio pigro sogno. Ma noi non siamo come il fantasioso poeta che si umilia, accontentandosi della realtà mutata in idea (...)” (34).
Questo è solo il "timido" dischiudersi della percezione del desiderio di autenticità che Pasolini voleva attribuire alla sua poetica. Solo un'intuizione di quella che qualche anno più tardi sarà la certezza di un «contributo» reale e «necessario» che la sua generazione di poeti poteva dare alla storia: riedificare una civiltà.
“Del resto la genesi di una civiltà nasce da profonde ragioni umane, e poi pratiche-economiche; e il contributo che noi letterati potremo arrecare (...) ci riguarda soprattutto come uomini «che hanno e che sanno», e se ora (...) si avverte una mancanza di una matura e alta civiltà che ci raccolga, noi, questa civiltà, la potremo ritrovare risalendo alle sue origini lontane e immutabili (...). La potremo ritrovare (...), muovendoci nello stretto cerchio che una vita familiare ci riserba, all'ombra del nostro focolare, sotto le foglie dei nostri orti, tra i gesti, che da secoli non mutano, degli uomini ingenui”. (35)
Se, dunque, il luogo da cui partire per riscoprire una civiltà è quello abitato da «uomini ingenui», ecco spiegata la scelta di Casarsa: quale modo dunque più immediato per raccontare le origini di una civiltà, partendo da luoghi, focolari, foglie, acque, volti che cantano, o meglio gridano le sue origini?

“(...) Jo i nas
ta l'odòur che la ploja
a suspira tai pras
di erba viva ... I nas
tal spieli da la roja.

In chel spieli Ciasarsa
- come i pras di rosada -
di timp antic a trima”. (36) 

Mosso da un desiderio di autenticità, dal desiderio di risalire al mistero profondo delle cose e soprattutto del suo essere, Pasolini, nell'eleggere Casarsa, elegge anche la lingua della sua gente.
“Io scrissi i primi versi in friulano a Bologna, senza conoscere neanche un poeta in questa lingua, e leggendo invece abbondantemente i provenzali. Allora per me il friulano fu un linguaggio che non aveva nessun rapporto che non fosse fantastico col Friuli e con qualsiasi altro luogo della terra (...)”. (37)



Pasolini sente la necessità di rendere grafica quella parola che fino a quel momento aveva solo sentito vibrare nell'aria, tra i vicoli del paese materno. Comincia così a comporre i primi versi in friulano, nelle sue mani il casarsese diventa poesia: «una poesia che viene dall'anima di un popolo e della sua parlata».


Pasolini si avvicina alla lingua friulana, a quella varietà casarsese ascoltando i suoi compagni di gioco, i suoi vicini di casa, e rimane subito suggestionato dalla «ruvida musicalità del friulano» (38), da quelle vocali aperte, dalle sibilanti e dalle altre inflessioni caratteristiche che danno una "collocazione romanza" alla parlata casarsese. Da buon studente universitario di filologia romanza, riesce ad accostare i familiari suoni del friulano alla tradizione provenzale delle origini. Non è a caso, infatti, che, in esergo al libretto Poesie a Casarsa che pubblicherà più tardi, cita un verso di Peire Vidal:

Ab l’alen tir vas me l'aire
Qu'eu sen venir de Proensa:
Tot quant es de lai m'agensa
”. (39)

Dai versi di Peire Vidal, oltre che un canto di lode alla Provenza, traspare un'acuta nostalgia per la propria terra.

"(...) l'intenzione di Pasolini è di dichiarare, alla base della propria dichiarazione poetica, un'operazione analogica. Il Friuli descritto in queste pagine è una "Provenza dello spirito"; e quest'epigrafe in provenzale simboleggia certo il rapporto del poeta con la propria terra (...)”. (40)

Ma il fascino per la lingua di Casarsa, nasceva anche dalla scoperta di vedere rappresentata graficamente, per la prima volta, una parola che prima era vissuta solo in una dimensione orale. Ci sia consentito ripercorrere, con il racconto fatto dallo stesso Pasolini, il dischiudersi di questa scoperta come l'avvenimento della parola.

In una mattina dell'estate del 1941 io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico... su quel poggiolo o stavo disegnando (...), oppure scrivendo versi. Quando risuonò la parola ROSADA.
Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. Un ragazzo alto, d'ossa grosse... proprio un contadino di quelle parti... ma gentile e timido come lo sono certi figli di famiglie ricche, pieno di delicatezza. Poiché i contadini, si sa, lo dice Lenin, sono dei piccoli-borghesi, tuttavia Livio parlava certo di cose piccole ed innocenti. La parola ROSADA non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito. (...) E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola ROSADA
”. (41)

Pasolini sente la necessità di rendere grafica quella parola che fino a quel momento aveva solo sentito vibrare nell'aria, tra i vicoli del paese materno. Comincia così a comporre i primi versi in friulano, nelle sue mani il casarsese diventa poesia: «una poesia che viene dall'anima di un popolo e della sua parlata». (42) Una poesia che riproduce i suoni di quei luoghi attraverso «una lingua più vicina al mondo» (43), «anteriore e infinitamente più pura», (44) il casarsese, che «riporta Pasolini alla madre e alla terra con viscerale insistenza».(45)

Prima che io esistessi che ne era di me, se ora sono così infinito?(...) Ma c'è in noi qualcosa di «solido» che mi sfugge. Mistero, si dice, eterno, ombra, vuoto.. .”. (46)

Ci sembra che il ritorno ad una lingua più vicina al mondo risponda a quell'urgenza nostalgica di "solida" ed autentica originarietà: la ricerca di ciò che Pasolini chiamerà «ossessione dell'identità». (47)

“(...) nostalgia di chi viva - e lo sappia - in una civiltà giunta ad una crisi linguistica, al desolato, e violento, «je ne sais plus parler», rimbaudiano”. (48)

Alla luce di questo, ci sembra che la sua "poesia" non nasca da un trasporto sentimentale da adolescente, né da una svenevole malinconia. I suoi versi si iscriverebbero piuttosto all'ombra della definizione che Heidegger dà della nostalgia: «dolore per la prossimità del lontano». (49)

Come gli Ebrei consegnano le loro cetre ai salici, demotivati al canto se la patria è lontana, allo stesso modo Pasolini teme il silenzio della parola poetica lontano dalle sue “amate rocce e boschi”.

“Agosto è sul morire (...)
O mio paese, io di già sento che le tue foglie
sono pronte a cadere. Alberi già famigliari
ecco che a me si toglie il tremante silenzio della neve. (...)
Qui non cesserà la vita. Ma ignote mi sarete
risa, fatiche, e cadenti nevi...
O nostalgia
del tempo presente! (...)”. (50)

La «prematura nostalgia» che riempiva i canti dell'estate casarsese è destinata a trasformarsi in acuto dolore per l'imminente ritorno a Bologna. Scrive nell'estate a Franco Farolfi: “Tremo all'idea della partenza. (...) Credo che non ci sia cosa più bella della vita in campagna, nel paese natío, tra semplici amici”. (51)
Dopo la scoperta di Casarsa come ideale lucus poetico e trepidante «utero linguistico», a Pier Paolo sembra che in nessun altro luogo della terra possa ripetersi lo «sciogliersi del canto al mattino». (52)

“Super flumina Babylonis, illic sedimus
Et flevimus, dum recordaremur tui, Syon.
In salicibus, in medio eius, suspendimus organa
[nostra”. (53)


Nell'esergo di una poesia, Nostalgia del tempo presente, Pasolini, ricorda le parole che il popolo ebreo in esilio rivolge all'amata e lontana Gerusalemme, e con accorata nostalgia destina il verso poetico alla sua «perduta, Syon», Casarsa:

“Quando rievocherò, sospeso il canto, (...)”. (54)

Come gli Ebrei consegnano le loro cetre ai salici, demotivati al canto se la patria è lontana, allo stesso modo Pasolini teme il silenzio della parola poetica lontano dalle sue “amate rocce e boschi”.
Lucidi e maturi, i grappoli d'uva splendono al sole dell'ormai prossimo autunno casarsese, ma il nostro poeta non aspetterà la vendemmia, l'«amica gente» continuerà le sue occupazioni, indifferente «alla figura nostalgica dell'assente». (55) Pasolini nel settembre del 1941 ritorna a Bologna «dove ha affondato radici e ricordi da molti anni, e ha antiche consuetudini e cose che si ripetono secondo un uso ormai divenuto caro (…). (56)
Ma de loinh ("da lontano"), il giovane poeta, benché “strappato e remoto” dalle terre friulane, non sospenderà il suo canto, la sua cetra continuerà a suonare, continuerà a ripetere, ricordandoli, i suggestivi suoni del dialetto friulano.

“Ab l'alen tir vas me l'aire
Qu'eu sen venir de Proensa:
Tot quant es de lai m'agensa”. (57)


Nonostante i numerosi impegni intellettuali a Bologna, non resiste al desiderio di ritornare a Casarsa, in quei posti che sempre più si identificano con la sua ambizione poetica; così anticipando il trasferimento estivo, parte per il Friuli nella primavera del '42. Qui, chiuso nel mistero e nella poeticità più accorati, Pier Paolo riprende a scrivere poesie in friulano, le quali vanno a completare la raccolta che intende pubblicare al più presto col titolo Poesie a Casarsa.

L'urgenza di Pavese sembra essere la stessa di Pasolini, l'urgenza di spiegare attraverso il mito l'origine di una terra ma soprattutto l'origine, il significato del proprio esserci nel mondo.

Intanto, alimentata e consolata da letture erudite, la sua tensione poetica si fa sempre più chiara: “Pier Paolo Vergerio e Leonardo Bruni mi sono di consolazione, (...) perché dicono i poeti essere gli unici grandi educatori dell’umanità. (...) Viva i poeti, come siamo noi”. (58)
Questa certezza è il punto di consolazione oggettiva anche nello «spleen» e nella stanchezza più estenuanti: «tutto può, nella poesia, avere una soluzione». (59) Con il suo solito atteggiamento da leader della compagnia degli «Eredi», scrive a Luciano Serra dal campo militare di Porretta Terme dove sta seguendo un corso di allievo ufficiale di complemento:
“Il riso è vero, la sofferenza è congenita. Io e tu crediamo al riso: nella vita a vele spiegate; al futuro in bonaccia. Noi siamo poeti.
L’ambizione è coscienza di noi. Il futuro è certo. (...) Il campo è un inferno, ma lo vivo per la memoria. Lavo le gavette: orribile cosa! (...) Ma la vita pianta le sue radici dappertutto, e la coda le rinasce come alle lucertole. Io vivo”. (60)
Ritornato a Bologna con i nuovi manoscritti, prepara la pubblicazione del libretto di poesie “dialettali”(61): Poesie a Casarsa. Il libretto viene subito notato dal maestro «de loinh» Gianfranco Contini che gli dedica una recensione in cui esprime la sua profonda ammirazione per il lavoro. Le parole del grande maestro rappresentano per il nostro letterato in erba la conferma della validità di una poetica che aveva solo confusamente intuito. Pasolini è rilanciato nel suo lavoro e, trepidante d’entusiasmo, non può che aspettare l’estate per ritornare nell’«eterno Friuli».
A Casarsa, nell’estate del ‘42 tutto si è ricomposto come nelle precedenti, ma davanti agli occhi di Pier Paolo si spalanca “un nuovo incanto, un nuovo sogno, e un nuovo mistero”. Ora è cosciente di possedere «un’anima come possibilità», la possibilità di entrare a far parte di quell’inesauribile incanto, la possibilità di «ritrovare dentro questa natura le fonti stesse dell’essere». (62)
A questo punto ci permettiamo di citare una lettera che Cesare Pavese scrive da Santo Stefano Belbo a Fernanda Pivano, frutto di una sorprendente e del tutto inaspettata scoperta. Il maturo poeta delle Langhe piemontesi proprio nell’estate del 1942 descrive, a nostro parere, il desiderio che, nella sua aurorale verginità poetica, covava il nostro giovanissimo Pasolini nel suo «esteso mondo» friulano: “(...) so che il mio mestiere è di trasformare tutto in «poesia». Il che non è facile. (...) Quanto ho scritto finora erano sciocche cose, tracciate secondo schemi allotrî, che non hanno nessun sapore dell’albero, della casa, del sentiero, ecc. come li conosco. (...) Ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti (...), per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo. (...) Descrivere paesaggi è cretino. Bisogna che i paesaggi - meglio, i luoghi, cioè l’albero, la casa, la vite, il sentiero, il burrone - vivano come persone come contadini, e cioè siano mitici. (...) Ho capito le Georgiche. Le quali non sono belle perché descrivono con sentimento la vita dei campi, (...), ma bensì perché irridono tutta la campagna in segrete realtà mitiche, vanno al di là della parvenza, mostrano anche nel gesto di studiare il tempo o affilare una falce, la dileguata presenza di un dio che l’ha fatto o insegnato”. (63) L’urgenza di Pavese sembra essere la stessa di Pasolini, l’urgenza di spiegare attraverso il mito l’origine di una terra ma soprattutto l’origine, il significato del proprio esserci nel mondo; dunque, il senso del suo posto nel mondo non può essere una mera e sentimentale descrizione paesaggistica, come dirà più tardi attaccando la ottocentesca poetica zoruttiana, ma “il poetare” che «nomina il sacro» (64), il far affiorare attraverso il suo canto la sacra presenza di padri e madri, di una generazione insomma, che ha modellato i suoi campi ed ha insegnato a farlo.
“(...) uno sguardo umano rivolto a quell’imperturbato orizzonte ha fatto nascere la storia di questa regione”. (65) Dunque, il mito come storia, non come qualcosa di asettico: il mito come accadimento dell’origine dell’essere.

Il '43 è l'anno dell'abbraccio al Friuli: Pasolini, infatti, si stabilisce definitivamente a Casarsa, insieme con la madre e il fratello Guido. Fuggire dai bombardamenti di Bologna è il motivo più plausibile.


“(...) I soj tornàt di estàt.
E, in miès da la ciampagna,
se misteri di fuèjs!
E àins ch'a son passàs!

Adès, eco Fevràr,
sgivìns, ledris moràrs...
mi sinti cà ta l'erba,
i àins passàs par nuja”. (66)


Il '43 è l'anno dell'abbraccio al Friuli: Pasolini, infatti, si stabilisce definitivamente a Casarsa, insieme con la madre e il fratello Guido. Fuggire dai bombardamenti di Bologna è il motivo più plausibile (67), anche se con questo trasferimento ciascun membro della famiglia ha un desiderio da esaudire.
Ma scrive Amedeo Giacomini:
“Aveva lasciato Bologna, non per paura dei bombardamenti, ma per una sorta d'atto d'amore nei confronti del materno villaggio contadino, per ritirarsi in quel «paese dell'anima» a verificare concretamente, nel quotidiano, la validità e lo spessore delle tensioni ideologiche, poetiche e sentimentali che allora lo appassionavano” . (68)
Con la sistemazione definitiva a Casarsa, la terra friulana diventa esclusivo luogo di elezione che implica, necessita un impegno totale. In una lettera a Fabio Luca Cavazza del febbraio del 1943 dice che occorre dedicarsi «a problemi di educazione». E' il periodo in cui il direttore politico del “Setaccio”(69), Giovanni Falzone, punta i piedi di fronte all'impostazione data dal giovane Pasolini alla rivista. Nella stessa lettera a Cavazza, Pier Paolo scrive: “Ho pensato a lungo sul da farsi; e mi sono convinto di questo, che non dobbiamo cedere. Abbiamo parlato a lungo (...), della missione educatrice della nostra generazione, ed ora che abbiamo un mezzo per poter attuare questo - una goccia nell'oceano - perché dovremmo arrenderci?" (70). Con il precipitare degli eventi, le restrizioni sull'uso della carta provocano la scomparsa di molte riviste, e anche del "Setaccio". Ma se a Pasolini, in questo momento, viene a mancare il mezzo, gli restano un luogo, dei volti a cui rivolgere la sua passione educativa.
“La libertà è un nuovo orizzonte (...). Sento nelle narici un odore fresco di morti; i cimiteri del Rinascimento hanno la terra appena smossa e recenti le tombe. E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà (71). Casarsa, «topos del vagheggiamento giovanile di una terra mitica, pura» (72), non è più un'isola di pace, non è più il sereno rifugio di un tempo:


“O sen svejàt
Dal nòuf soreli!
O me cialt jet
Bagnàt di àgrimis!

Cu n' altra lus
mi svej a planzi
i dìs ch' a svualin
via coma ombrenis”. (73)


Pasolini scrive a Franco Farolfi nell'estate del '43:

“La guerra non mi è mai sembrata tanto schifosamente orribile come ora: ma non si è mai pensato cos'è una vita umana?”


La sensibilità del giovane Pier Paolo lo porta a sentir battere in lui il cuore di tutto il paese, il cuore di tutti quei ragazzi, compagni di nuotate, che parlano solo di aeroplani e che lui definisce ironicamente «ignavi di storia e di letteratura». (74) Pasolini, invece, conosce Ippolito Nievo, la sua amata fontana di Venchiaredo che l'ha visto vivere, ridere, e improvvisamente morire. (75) L'idea che la morte, la guerra possano privarlo del volto di suo padre o dell'amico Ermes Parini (76) lo ferisce con un dolore «quasi fisico» che non riesce nemmeno ad esprimere perché «è troppo vivo, violento». E il felice ricordo di momenti sereni non suscita in lui vaghi tremori, ma lo richiama al presente crocifisso nel dolore scavato sul volto della madre.

“(...) E quegli incanti
- il fuoco acceso nella casa, il fumo
greve dell'aria fresca, i melanconici
lumi, la voce stanca di mia mamma –
ravviva questo odore
(...)".(77)


Scrive a Franco Farolfi nell'estate del '43:

La guerra non mi è mai sembrata tanto schifosamente orribile come ora: ma non si è mai pensato cos'è una vita umana?” (78)

Ma nonostante, o meglio, con tutto il dolore Pier Paolo rimane ancorato alla speranza che viene dalla poesia, dalla letteratura:

“(...) probabilmente devo la mia salvezza (non diventare maniaco, non consumarmi) alla mia fantasia, che sa trovare un'immagine concreta ad ogni sentimento (...). Così al doloroso e continuamente sofferto urgere dei sentimenti, corrisponde in me, un riordinamento poetico (... )” (79).

Pasolini continua a lavorare molto, la sua fantasia matura e raggiunge 

«una chiarezza di invenzione, che lo fortifica a vivere» (80); 

ma contemporaneamente, sente il peso dei suoi pensieri 

“(...) che da mille anni nascono uno dall'altro e sono soltanto miei. Vorrei gettarmi sugli altri, trasfigurarmi, vivere per loro.” (81)

I pericoli della guerra sono diventati più incombenti. Per gli studenti che frequentano le scuole di Pordenone ed Udine diventa estremamente difficoltoso e rischioso il viaggio; così Pasolini, con alcuni amici, apre a San Giovanni (a due chilometri da Casarsa) una scuola privata.

Abbiamo voluto vedere alla base di questo desiderio il primo emergere della sua vocazione pedagogica, che da questo momento, sarà una dimensione essenziale della sua esistenza. Un attaccamento profondo alla vita, alla realtà, tanto più quanto il presente si mostrava perduto e privo d’attese. 

«Un attaccamento cioè reso ancora più bruciante dal disincanto» (82)

Nell’autunno del ‘43, quando i Tedeschi scendono nel Friuli assoggettandolo alle loro leggi di guerra col nome di “Litorale Adriatico”, i pericoli della guerra sono diventati più incombenti. Per gli studenti che frequentano le scuole di Pordenone ed Udine diventa estremamente difficoltoso e rischioso il viaggio; così Pasolini, con alcuni amici, apre a San Giovanni (a due chilometri da Casarsa) una scuola privata.

“Anche il treno ti porta nel mezzo
di una guerra che ormai è qui (...)
le mani sulle orecchie per non sentire
urla e fischi laceranti
quando gli aerei se ne vanno
risali sul treno e cerchi la cartella
lasciata sul sedile come pegno
per il ritorno (...)
La strada per Udine ormai è chiusa
non vale la pena morire
per un po’ di greco e di latino
ma ecco che nasce una scuola
S. Giovanni è Pierpaolo con Giovanna
Riccardo Cesare che si inventano
professori di latino greco italiano
inglese matematica... (...)” (83)

L’iniziativa scolastica è un luogo favorevole per far emergere quel prezioso linguaggio friulano in cui, dopo studi linguistici e filologici (84), aveva riconosciuto un nuovo strumento poetico.
Pasolini legge ai sui giovani discepoli le poesie dei più alti esponenti della letteratura italiana, ma ciò che più gli sta a cuore è trasmettere loro la sua stessa passione per 

«quella lingua che li ha svezzati» (85), «la lingua che hanno parlato fin da piccoli nella loro famiglia e nel loro paese, nelle mani della loro madre» (86). 

Così Ovidio Colussi testimonia il suo incontro con Pasolini, “maestri di puisia”:

A la fin di otobri - doma dopu qualche setemana di lessino - il Pieri Pauli al à scuminsiat a spiegani che `l furlan `a è na lenga (...), il furlan al ven four, dret, dal latin. Ch’à noi bisogna vergognassi a tabajà furlan. “Tabajà furlan al è tabajà latin“. (87)
Nu studens, una setemana dopo, quant ch’al ni à invidat a scrivi un alc in furlan, i vin tacat a domandà milanta di robis: coma si scrivia, ponemo scjiavassà, sciala e via discurint.
“Scriveit coma ch’à vi capita. L’ impuartant al è ch’i scrivesi
“ (88)

Questo è l’unico punto positivo a cui ancorarsi, l’unico motivo per cui rimanere attaccati a questa terra, dove

 «tutto puzza di spari, tutto fa nausea». (89)

Un improvviso veto burocratico del provveditore agli studi di Udine fa chiudere la «scuoletta» di San Giovanni, ma quest’ennesima difficoltà non può sminuire la sua dedizione per i ragazzi, il suo amore per la letteratura, la sua 

«passione per la vita, per la realtà, per la realtà fisica (...), esistenziale» 

(90) attorno a sé. Pasolini continua ad insegnare, anche in condizioni precarie, a Casarsa, nella sala da pranzo di casa sua.

L'aspirazione a creare una rivista letteraria, che aveva “inutilmente” impegnato Pasolini a Bologna nel progetto di “Eredi”, si concretizza a Casarsa. La rivista esce nell'aprile del 1944 con il nome di «Stroligùt di cà da l'aga».

Nella primavera del '44 i campi friulani sono vuoti, da lontano si sente solo l'eco delle fucilazioni e i tonfi delle bombe cadute nei dintorni; eppure la terra, 

«questa cretina», «continua a metter fuori erbucce verdi a fiori gialli e celesti, e gemme sugli alni». (91)

I rastrellamenti di fascisti per l'arruolamento forzato nel nuovo esercito della Repubblica di Salò hanno compromesso la tranquillità di Casarsa. Si organizzano le prime formazioni partigiane e il diciannovenne Guido Pasolini sta maturando la decisione di unirsi a quelle della Carnia.

Il coraggio che ha ereditato dal padre e l'idealismo dalla madre, ne fanno un eroe già votato al sacrificio”. (92)

Ai primi di giugno del '44, Guido, superata la maturità scientifica, parte da Casarsa con un tascapane pieno di bombe a mano, una rivoltella nascosta in una nicchia scavata nelle pagine di un vocabolario e il volume “Canti Orfici” di Dino Campana. Sui monti della Carnia, si unisce alla formazione partigiana della Brigata Osoppo.
Pier Paolo, invece, continua ad armarsi di studio e poesia, unica consolazione adesso che la guerra ha tolto anche il volto del fratello alle sue giornate. Ma già dalle prime esperienze scolastiche, la 

«accuratamente e segretamente sua» poesia perde il carattere intimistico e assoluto degli esordi e si rende "disposta a cantare tutto un paese e tutta una gente a cui, fin da prima della nascita, egli appartiene». (93)

L'aspirazione a creare una rivista letteraria, che aveva “inutilmente” impegnato Pasolini a Bologna nel progetto di “Eredi”, si concretizza a Casarsa. La rivista esce nell'aprile del 1944 con il nome di «Stroligùt di cà da l'aga». (94) Il sottotitolo «di cà da l'aga», cioè al di qua del Tagliamento, intende fungere da confine tra due ambienti culturali:


Ora se la lingua è il genio di una terra, questa parte del Friuli compresa tra il Tagliamento e la Livenza, ai piedi dei monti, sarebbe deserta fino al punto di non possedere uno spirito particolare. Infatti non ha una lingua, ha una varietà di lingue, di dialetti, di cadenze che cangiano quasi di brolo in brolo, ricomponendosi in una interminabile sfumatura. Un paesaggio perfettamente uguale (...) tutto d'un colore (...) una monotonia infinita. (...) Come il paesaggio non ha mutamenti, così la popolazione che lo abita non ha storia (...). Ma basta che retrocediamo un poco verso Oriente - al di là della diagonale che da Latisana punta a Maniago, dividendo in due questo verde rettangolo - ed ecco che si riodono i familiari, gli unici suoni del friulano. Specie nella pianura che verdeggia intorno alla linea delle risorgive - all'altezza di Casarsa, per intenderci - è ben vivo friulano, che se non ha l'aurea, femminile cadenza dello Spilimbergese, è di un'innocenza così puerile, così rustica". (95)

La rivista nasce proprio con l'esigenza di rivolgersi all'intera comunità casarsese, nasce come tentativo di far emergere nel popolo la coscienza, anche ambiziosa, di parlare una lingua mitica, i cui suoni, le inflessioni, rimasti inalterati da secoli, i bambini da sempre succhiano dal seno della propria madre. Insomma, un dialetto, una lingua degni di un uso letterario:

“(...) par esprimi i sintimins pì als e segres dal cour (...). Nisun, a è vera, a lu à mai doprat par scrivi, esprimisi, ciantà; ma a no è justa nencia pensà che, par chistu, al vedi sempri di sta soterat tai vustris fogolars, tai vustri cìamps, tai vustri stomis (...)”. (96)

In un momento di così profondo dolore per i friulani, mentre i tedeschi «cacano» (97)sulla loro terra e uccidono «la meglio gioventù», Pasolini ha la tenacia di affermare l'identità di un popolo, tirando fuori la sua voce, i suoi sentimenti, i suoi ideali: (...) 

florùs nassùs, squasi par casu, tal desert di àgrimis e di passions dal 1944”. (98)

Pier Paolo vive, tra questi miseri casolari, la più appassionante esperienza didattica della sua carriera scolastica.

Nell'ottobre del 1944, dopo un rastrellamento dei Tedeschi che più degli altri ha messo in pericolo la vita dei giovani casarsesi, Pier Paolo e sua madre Susanna decidono di rifugiarsi a Versuta, una località campestre nei pressi di Casarsa, meno esposta a bombardamenti e a rappresaglie.

La mattina del 10 settembre 1944, fui svegliato dal suono della sirena; dovevano essere circa le nove; dopo pochi minuti (...) gli aeroplani erano già su C. e cominciarono a bombardare la stazione (...). Cominciò il nostro sfollamento da C. a V., dove io, fin dall'ottobre del '43, (...), avevo affittato una specie di granaio, nel quale avevano trovato rifugio i miei libri e nel quale io ero già stato a dormire in certe notti in cui si sospettavano rastrellamenti. (...) Il sedici del mese io e mia mamma facemmo il nostro ingresso a V., con tutto il nostro linguaggio familiare, il nostro orgoglio ancora senza incrinature(...)”. (99)

La vita a Versuta va avanti diversamente rispetto all'ordine borghese, tanto silenzioso e funzionale, di Pier Paolo e della madre. Qui la gente, pur nell'estrema semplicità del vivere giornaliero, non si lascia travolgere passivamente dalle cose, anzi, 

«le decanta, le declama, è impegnata in una continua ed assordante lotta con esse». (100)

Pier Paolo vive, tra questi miseri casolari, la più appassionante esperienza didattica della sua carriera scolastica; quei figli di contadini, più ingenui, dalle menti più incondite dei ragazzetti borghesi di Casarsa, rappresentano per lui l'oggetto di una straordinaria dedizione.
D'altronde lo stesso Pasolini, per bocca di Don Paolo, personaggio di Romàns afferma:

Può educare solo chi sa cosa significa amare, chi tiene presente la divinità”. (101)

Una paideia in cui eros evoca sophia, nel nesso tra l'amore di educatore e la coscienza come mania della verità. Alla luce di questo, non possiamo guardare la dolorosa tensione amorosa di Pasolini, prescindendo dalla sua passione per il destino e la formazione culturale dei suoi ragazzi.
A Versuta Pier Paolo insieme alla mamma continua l’”insolita” esperienza della scuola privata; le lezioni si tenevano in un misera stanza che serviva da cucina e da camera da letto, ma 

quando venne la bella stagione (...) andammo a far scuola in quel casello tra i campi di cui ho già parlato. Era molto piccolo e ci si stava appena; ma spesso uscivamo sul prato e ci sedevamo sotto i due enormi pini sfiorati dal vento”. (102)
Pasolini estende il suo progetto poetico anche a questi contadini, che nella loro inferiorità culturale rappresentavano i compagni ideali e perfetti delle sue giornate; con pazienza li accompagna alla scoperta di sé e del loro mondo, con attenzione ascolta i loro pensieri e le loro parole, incantevolmente intrisi di imperfezione”. (103) 

Sente la vivezza dei sentimenti rampollare in loro 

«in un friulano che è l'equivalente del sole, dell'asfalto, dei campi deserti, della piazza vibrante di colori».(104) 

Si fa più chiara in Pasolini l'importanza, l'assoluta necessità di raccontare il Friuli «più perfetto» attraverso i «canti del popolo friulano», attraverso le voci, se pur imperfette, dei ragazzi nel cui 

«sentimento profondo sono una cosa sola coi monti o coi campi in cui vivono» (105):
Ecco dunque le cose concrete, rituali e impoetiche che egli assumeva nei giri impacciati del suo «linguaggio mentale» e affondava negli indistinti e precipitosi batticuori; ma quale poeticità non avrebbe pervaso quel suo discorso interiore (...), se fosse stato possibile trascriverlo per intero e con capillare verismo su una pagina stenografata (...)? Cosa c'è di più poetico di questo «pensare» di un giovane contadino che senza sfuggire (...), alle formule dell'idioma, si getta negli spazi del pensabile (...)? Ed è proprio questa la parte di sé (della sua carne) che egli non conosce, benché sia tanto radicata nella materia profonda, indistinta, attiva e puramente vitale del suo ambiente; è questa la corporeità dei sentimenti, questa polpa della vita giovanile che egli ignora e di cui sente il peso umiliante, ipoteca di ignoranza, e quindi approssimazione, assenza, scontento”. (106)

Il 18 febbraio 1945 viene formalmente costituita l'Academiuta di lenga furlana. I componenti sono Pasolini, Cesare Bordotto, Nico Naldini, Bruno Bruni, Ovidio ed Ermes Colussi, Pina Kalz, Rico De Rocco e Virgilio Tramontin.

Pasolini vuole farsi portavoce di una sensibilità informe, quella dei giovani friulani, e portarla all'espressione; vuole sperimentare la «melodia infinita» di cui è intrisa la lingua friulana la quale si presta «quietamente a farsi tramutare in linguaggio poetico». (107)
Con queste prerogative, il 18 febbraio 1945 viene formalmente costituita l'Academiuta di lenga furlana. I componenti sono Pasolini, Cesare Bordotto, Nico Naldini, Bruno Bruni, Ovidio ed Ermes Colussi, Pina Kalz, Rico De Rocco e Virgilio Tramontin. (108)

“(...) che dolcissime Domeniche passammo quell'inverno e quella primavera in grazia della poesia e della musica di P. ! (109) Io e mio cugino N. le ricordiamo come le più belle che abbiamo mai trascorso (...). Ci si riuniva nella mia camera, o nel piccolo retro cucina dei Cicuto (...), o, da ultimo nel casello in cui facevo scuola.(...), e dove non giungeva neppure l'eco di quei tremendi scoppi che notte e giorno scuotevano la terra (...). Si pensi che è nato in una di quelle Domeniche il nostro félibrige friulano”. (110)

L'esperienza poetica in casarsese costituisce la parte fondamentale degli incontri; dai ragazzi il dialetto viene recuperato nella scrittura attraverso le potenzialità musicali della loro parlata, le cui voci racchiudono ancora intatte l'essenza cristiana e la radice romanza. Sono queste infatti, le caratteristiche del nuovo felibrismo (111) casarsese: vivezza, nudità e cristianità.
Il manifesto dell'Academiuta appare nell'agosto del '45 nello «Stroligùt», che ha perduto il sottotitolo «di cà da l'aga»; inoltre, per sottolineare l'apertura dell'iniziativa a programmi culturali più alti, la rivista ricomincia la numerazione da 1. Sulla copertina del nuovo fascicolo è rappresentato un cespo di dolcetta (ardilút in friulano), disegnato da Rico De Rocco. La dolcetta come spiega lo stesso Pasolini nel manifesto dell'Academiuta, è un'umile pianticella che da secoli i friulani -accolgono «tra l'ora q'a mour la lus dal dì e l'ora q'a nas la una» (112) e che da mille sere mangiano davanti al focolare. Questa «erbuta» è lo stemma dell'Academiuta, la cui ambizione
è recuperare la lingua friulana che ci è pervenuta intatta nel suo splendore attraverso i secoli; la parlata rustica casarsese al pari:e la dolcetta è da secoli testimone dei gesti rituali e ripetitivi di un popolo.
L'Academiuta vuole far risplendere e rendere degna di riconoscimento letterario la lingua casarsese, proprio come la rugiada rende la dolcetta brillante e degna di essere colta nei campi inariditi dal gelo invernale.
Pasolini all'interno del suo "cenacolo" trasmette agli imberbi neòteroi le sue conoscenze sulla tradizione romanza e provenzale, e con estrema convinzione indica il '300 letterario come il periodo dove ritrovare la propria tradizione.
Il Friuli, a differenza di quanto si possa pensare, ha una tradizione letteraria, dei poeti in cui riconoscersi; Pietro Zorutti, per esempio, 

«un poeta piccolo borghese che vede il paesaggio con lo spirito della scampagnata domenicale»
(113), 

è un saldo punto di riferimento nella tradizione vernacolare friulana, 

«un dolo che commuove da cento anni il cuore dei Friulani». (114) 

Ma è proprio questo aspetto vernacolare e sentimentale di cui è intrisa la tradizione poetica zoruttiana che Pasolini condanna e verso cui punta i piedi.

Se Pietro Zorutti non può essere considerato un poeta, gli Zoruttiani della seconda categoria poi, non sono di natura poco diversa da quella dei suoi «tacchini» e dei suoi «maiali» e della sua eterna luna, insulsa come una polentina senza sale (...), il Friuli, infine è quello che paga le spese di tutto quel buon umore non richiesto da nessuno”. (115)

La poesia degli Zoruttiani è dettata da una faciloneria borghese che si arreca il diritto di cantare con uno stile dimesso, con una mediocre retorica sentimentale, con un umorismo da beoni quei paesaggi che non gli appartengono. Essi cantano la storia del Friuli con dei versi, il cui tono 

«serba in qualsiasi stagione dell'anno un'ineffabile euforia natalizia” (116), 

dei versi che non fanno altro che sminuire, impoverire la loro così poetica terra e la loro così poetica lingua.
Verso quella terra e verso quella lingua la scuola casarsese invece si è assunta un grande impegno: le poesie dei neòteroi casarsesi generate in seno all'Academiuta fanno cantare altri paesaggi, non con uno stile dimesso, con un'allegria paesana, ma con la coscienza di un popolo che conosce la drammatica storia del Friuli:


Esiste un paesaggio friulano fuori dalla réclame sia turistica che sentimentale? Ebbene quello è divenuto il nostro paesaggio(...)” (117).

Per Pier Paolo e Susanna, Casarsa sarà la terra del "non ritorno": Guido è già morto, assassinato, non per mano di Tedeschi, ma di altri partigiani comunisti che hanno teso un'imboscata al gruppo della Brigata Osoppo.


“(...) passano gli ultimi mesi di guerra ciascuno impegnato come può nella lotta per cacciare il tedesco arriva il trionfante aprile
del Quarantacinque ed in armi torniamo al paese ferito ma liberato per sempre al prezzo di giovane sangue
(...) non torna Guido dalle colline di Cividale (...) non ci può essere consolazione nemmeno a Versuta
”. (119)


In casa Pasolini, il canto della cinciallegra nella primavera del 1945 sembra preannunciare la fine della guerra e il trionfante ritorno di Guido. La primavera casarsese sarà culla di pace per la riconquistata libertà, invece, per Pier Paolo e Susanna, Casarsa sarà la terra del "non ritorno": Guido è già morto, assassinato, non per mano di Tedeschi, ma di altri partigiani comunisti che hanno teso un'imboscata al gruppo della Brigata Osoppo. Il giovane partigiano muore combattendo con commovente coraggio per liberare il Friuli dalle “offese degli Slavi”. (120)
La notizia della morte di Guido arriva a Casarsa parecchie settimane dopo la fine della guerra e getta Pier Paolo in uno strazio senza fine:


La disgrazia che ha colpito mia madre e me , è come un'immensa, spaventosa montagna che abbiamo dovuto valicare (...). Non posso scrivere senza piangere, e tutti i pensieri mi vengono su confusamente come le lacrime. Dapprincipio non ho potuto provare che un orrore, una ripugnanza a vivere (...). Ora l'unico pensiero che mi consola non è l'idea che bisogna essere saggi, che bisogna superare e rassegnarsi; questa rassegnazione è egoismo; è crudele, disumana. (...) Bisognerebbe essere capaci di piangerlo sempre senza fine(...)”. (121)

Se pur incapace di fronte alla morte, verso la quale prova un'insormontabile “difficoltà d'infinito” (122), Pasolini sa che occorre vivere, o meglio «il faut tenter de vivre»:

“(...) per quale ragione non si sa (ossia non lo saprei, se non dovessi scrivere versi) (...)”. (123)

Ancora una volta, Pasolini, da ergastolano della propria vocazione trova nella poesia l'unica àncora di salvezza; parallelamente alla vocazione poetica, Pier Paolo riprende ad insegnare nella scuola privata di Versuta, «benché questo sembri inumano». Riprendere l'attività didattica dopo dieci giorni dalla notizia della morte del fratello, invece, ci sembra l'atteggiamento più umano di chi vuole, nel dolore insormontabile, affermare il positivo lì dove c'è.
La morte di Guido non può placare la sua disperata vitalità; Pier Paolo è profondamente 

«infelice, ma non annoiato», perché «la vita ha un senso preciso, ed è il suo essere infinito».(124)

 Proprio perché infinito, il suo essere non può accontentarsi di una sterile e limitante staticità; occorre tentare una strada, occorre rilanciarsi nella realtà, non come su un "bateau ivre" rimbaudiano, bensì con la coscienza, con una domanda drammatica ma sempre più urgente.

Ora tutto questo amore che quel ragazzo aveva per me e per i miei amici, tutta quella sua stima per noi e per i nostri sentimenti (per i quali è morto) mi tormentano sempre; vorrei poter contraccambiarlo in qualche maniera”.(125)

Lottare per l'autonomia friulana è una delle possibilità attuabili per continuare ad affermare quegli ideali per cui Guido ha combattuto in guerra, ma anche un'opportunità per volgere lo sguardo alla gioventù friulana che, priva di possibilità, è costretta ad abbandonare la propria terra per andare viers Pordenone il mont.

A questo punto, si apre un nuovo capitolo della vita di Pasolini, il suo impegno politico per l'autonomia del Friuli, che poggia su questa tragedia privata e 

«che si amplifica collegandosi alla tragedia della "meglio gioventù"». (126)

 Lottare per l'autonomia friulana è una delle possibilità attuabili per continuare ad affermare quegli ideali per cui Guido ha combattuto in guerra, ma anche un'opportunità per volgere lo sguardo alla gioventù friulana che, priva di possibilità, è costretta ad abbandonare la propria terra per andare viers Pordenone il mont.
Già nel manifesto dell'Academiuta, Pasolini aveva accennato al suo impegno civile:

“(...) la nostra estetica non si chiude in se stessa, essendo un'estetica del cuore non del cervello, e perciò configurerà a sé l'arte; configurerà a sé la politica”. (127)

Il 30 ottobre 1945 Pasolini aderisce prima personalmente, poi sottoscrivendo tutta l'Academiuta, all'Associazione per l'Autonomia Friulana. L'interesse di Pasolini era restituire un'identità linguistica al Friuli, salvaguardandola dalla contaminazione con lo «strambo veneto». (128) C'è il solito, urgente desiderio di salvare la storia, la densa tradizione friulana, mentre a gravitazione dei parlanti verso Venezia avrebbe significato la genesi di «un Friuli anonimo, vagante, privo di coscienza». (129) In molti friulani invece, la convinzione di 

“(...) essersi spostati verso la più progredita Venezia li riempie di una baldanza incapace di dubbi: e li fa una delle genti più liete d'Italia. Eccoli compensati: se da secoli nessuno di loro è passato alla storia, tuttavia il lavoro e la gioia quotidiani dà loro un ebbro senso di immutabilità”. (130)

Questo accontentarsi non può essere accettato dal militante Pasolini, la «meglio gioventù» deve essere educata ad avere coscienza delle proprie capacità, «mal represse» (131) da voluttuosi e inconsistenti godimenti.
Ma - ed è qui l'epilogo tragico degli anni friulani - il grande amore per la sua terra non sarà ricambiato da quella gente non disposta a trattare la sua diversità che dà scandalo che come un pretesto per non immedesimarsi fino in fondo nel cuore dell'esperienza poetica e della passione pedagogica del giovane educatore. Persino lo sguardo appassionato ai contadini friulani, alla gente umile di Casarsa, che lo indurrà ad abbracciare l'ideale del partito comunista nel 1948, verrà come imprigionato, schiacciato nell'ideologismo per il quale verrà accusato e stimato, ma ancora una volta, forse in una singolare comunanza di destino con Guido, addirittura tradito. (132)


Jo i ài crodùt in te,
sigùr di podèi crodi ta la vita
dal Mond (...)
Ma tu se i àtu fat,
ciera cristiana, par distudà chel fòuc
ch'i ti às impijàt ta la me ciar
quan'ch'i crodevi un zòuc
amati? Nuja (...)
Non ti pos perdonàighi tu, Friùl
cristiàn, a un che la to lenga sclava
ta un còur cialt di peciàt al disperava.

Cansiòn, sviàla lajù
dulà che dut a è fer. Non disi nuja:
no ài àgrimis pì a recuardàmi
di ches vivis ciampagnis, co na passiòn pì viva a mi li suja.
Ti sos l'ultin suspìr in ta un lengàs
Colàt da nòuf ta còurs dismintiàs
”. (133).


NOTE

1. P.P. PASOLINI, I sogni ideologici, in «Nuovi argomenti», n. 22 (n.s.), Roma, aprile-giugno 1971.
2. Valvasone, in «Il Mattino del Popolo», 16 febbraio 1947; ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, Guanda, Parma 1993, p. 224.

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1. Si prende l’avvio dall’“esilio” romano di Pasolini.
2. “Irrompono negli orecchi, fissi”, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, Mondadori, Milano 2003, p. 725.
3. La sera del 30 settembre 1949, a Ramuscello, un paese poco distante da Casarsa, durante la sagra di Santa Sabina, Pasolini incontra un ragazzo che già conosce assieme a due suoi amici. Durante la festa si nascondono tra i cespugli. II 22 ottobre Pasolini viene denunciato dai carabinieri di Casarsa per corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico Diffusasi la notizia, Pasolini viene espulso dal Partito Comunista e, conseguenza più grave, perde il posto d'insegnante alla scuola di Valvasone.
4. Il treno di Casarsa, in «FMR», n. 28, novembre 1984; ora in P. P. PASOLINI, Romanzi e racconti 1946-1961, tomo I, Mondadori, Milano 1998, p. 1437.
5. Ibid., p. 1441.
6. Cfr. Mattini casarsesi, in P. P. PASOLINI, Vita attraverso le lettere, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1994, p. 35.
7. Cfr. «Chiusa la festa su una Roma sorda», in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, cit. p. 712.
8. «Apro su un bianco lunedì mattina», in ibid, cit. p. 721.
9. «Il tipo valvasonese è bruno, di statura media ma aitante, la carnagione pallida, i capelli scuri, ma tutto pervaso di una mollezza, di un ritegno, e di una serietà molto settentrionale. I giovanotti dai fianchi stretti e dai capelli alti, hanno qualcosa di esotico, o di molto autoctono, e nei loro nessi fisionomici, nel calore dei loro occhi bruciano una sensualità dal mistero avvenente» (cfr. Valvasone, in «Il mattino del popolo», 16 febbraio 1947, ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, Ugo Guanda Editore, Parma 1993, p. 223).
10. Ibid., p. 224.
11. Cfr. Foglie Fuejs, in «Libertà», 6 gennaio 1946; ora in P. P. PASOLINI, in Romanzi e racconti 1944-1961, tomo I, cit., p. 1297.(fuejs = foglie; aghis = acque; radic = radicchio di montagna o Cicerbita alpina; “veci” = vecchi).
12. NICO NALDINI, Vita di Pasolini, Einaudi, Torino 1989, p. 143.
13. A Silvana Mauri, Roma, 10 febbraio 1950, in P. P. PASOLINI, Vita attraverso le lettere, cit., p. 131.
14. Cfr. Il Friuli, testo radiofonico trasmesso dal programma nazionale della Rai l'8 aprile 1953 alle ore 18.45 dal titolo Paesaggi e scrittori. Ciclo dedicato al Friuli, ora in Un paese di temporali e di primule, cit., p. 199.
15. Lettera a Luciano Serra, San Vito di Cadore, 6 giugno 1942, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, Einaudi, Torino 1986, p. 130.
16. Il Friuli, in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 199.
17. Fino al 1936 la famiglia Pasolini aveva seguito il padre ufficiale di carriera in fanteria nei suoi vari trasferimenti (Parma, Belluno, Sacile, Idria, Cremona, Scandiano).
18. A Tonuti Spagnol, Roma, 3 aprile 1946, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 244.
19. A Franco Farolfi, Casarsa, primavera 1943, in ibid., p. 169.
20. In P. P. PASOLINI, Vita attraverso le lettere, cit., p. 67.
21. Cronologia, a cura di Nico Naldini, in PASOLINI, Romanzi e racconti 1944-1961, tomo I, cit., p. CLV.
22. A Luciano Serra, Casarsa, 12 agosto 1942, in PASOLINI, Vita attraverso le lettere, cit., a, 61.
23. Cfr. ibid, p. 10.
24. Nostalgia di un tempo presente, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 52.
25. Uomo come voi, in ibid, p. 58.
26. Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi, Luciano Serra e Francesco Leonetti sono letterati in erba che covano l'idea di fondare una rivista che dovrà intitolarsi «Eredi». Il suo programma ambiziosissimo è filtrare la modernità attraverso la tradizione. Benché la rivista non possa uscire subito per le disposizioni ministeriali sull'uso della carta, i quattro poeti si lanciano nell'impegno di pubblicare entro breve tempo un libretto di poesie dividendo la spesa della stampa.
27. Cfr. Al nuovo lettore di Pasolini, di Nico Naldini, in Un paese di temporali e di primule, cit., p. 29.
28. Cfr. Ritorno al paese, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p 48; corsivo nostro.
29. A Luciano Serra, Casarsa, 20 agosto, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 80.
30. Cronologia, a cura di Nico Naldini, in PASOLINI, Romanzi e racconti 1944-1961, tomo I, cit., p. LXXI.
31. In PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 91.
32. Tracce scritte di un opera vivente, saggio di Walter Siti, in Romanzi e racconti 1944-1961, tomo I, cit., p. XIII.
33. «Ciò che non esprimo muore», in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, cit., p. 669. 
34. In PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.16.
35. Filologia e morale, in «Architrave», Bologna, n. III, l dicembre1942,ora in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 16.
36. O me donzel, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, cit., p.13. Trad.: "Nasco / nell'odore / che la pioggia / sospira dai prati / di erba viva... Nasco / nello specchio della roggia. / In quello specchio Casarsa / - come i prati di rugiada - / trema di tempo antico".
37. Lettera dal Friuli, in «La Fiera Letteraria», 29 agosto 1946; ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 211.
38. Cfr. ROBERTA CORTELLA, Percorsi romanzi nell'opera di Pier Paolo Pasolini, Edizioni concordia Sette, Pordenone 1998, p. 23.
39. Cfr. P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, cit., p. 3. Trad.: "Aspiro col respiro l'aere / che sento venire di Provenza / mi piace tutto quanto proviene da questo paese". Per la traduzione cfr. CAVALIERE A., Cento liriche provenzali, Zanichelli, Bologna 1938, p. 161.
40. Cfr. FRANCESCA CADEL, Dalla lingua al dialetto. Gli esordi poetici di Pasolini tra Bologna e Casarsa, in AA.VV., Ciasarsa, a cura Franco Ellero, Società Filologica Friulana, Udine 1995, p. 346.
41. Cfr. P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, p. 62.
42. ROBERTA CORTELLA, Percorsi romanzi nell'opera di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 24.
43. Cfr. Passione e ideologia, P. P. PASOLINI, Garzanti, Milano 1960, p. 133.
44. Cfr. ibid, p. 133.
45. ROBERTA CORTELLA, Percorsi romanzi nell'opera di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 25.
46. Penso ai mondi metafisici, «Libertà» 17 marzo 1946; ora in P. P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull'arte, Mondadori, Milano 1999, p. 150.
47. Cfr. P. P. PASOLINI, Petrolio, Einaudi, Torino 1992.
48. Trad. “Io non so più parlare”. Il Friuli, in P. P. PASOLINI, Passione e ideologia, cit., p. 124.
49. Cfr. Canto e discorso nella poesia di Pasolini, di Stefano Agosti, in P. P. PASOLINI, «Una vita futura», "Fondo Pasolini", Garzanti Editore, Milano 1985, p. 83. Nostalgia, infatti, indica appunto il dolore (àlgos) per la lontananza dalla casa e che, nello stesso tempo, vi accompagna il ritorno (nòstos). Tale è il senso dell'etimo tedesco rintracciato da Heidegger nella parola Un-heimlichkeit.
50. Seconda elegia, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.85.
51. PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 78.
52. Cfr. ibid, p.91.
53. In Salmo 136 (1-2) dell'Antico Testamento. I versi dicono: "Lungo i fiumi di Babilonia / sedevamo in pianto, ricordandoci di Syon. / Sospese ai salici di quella terra / tenevamo le nostre cetre".
54. Paesi nella memoria, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.55.
55. Cfr. Al nuovo lettore di Pasolini, di Nico Naldini, in Un paese di temporali e di primule, cit. p.36.
56. Cfr. PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.115.
57. Cfr. Tutte le poesie, tomo I, P. P. PASOLINI, cit., p. 3. Riprendiamo il già citato verso poetico di Peire Vidal per ricordare il sentimento che lega Pasolini alla terra friulana.
58. A Luciano Serra, San Vito di Cadore, 31 maggio 1942, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, p. 128.
59. Poeta delle ceneri, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo II, cit., p. 1268.
60. In PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.135.
61. Si tratta di poesie scritte in friulano, ma abbiamo ritenuto opportuno scrivere tra virgolette l’espressione «dialettale» per sottolineare la precarietà del termine per Pasolini. In seguito nel nostro lavoro approfondiremo la «tranquilla polemica» del nostro autore verso Zorutti, poeta vernacolare della tradizione friulana.
62. Cfr. ALBERTO ASOR ROSA, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1965, p. 432.
63. In CESARE PAVESE, Lettere 1926-1950, Einaudi, Torino 1966, p. 425.
64. Cfr. M. HEIDEGGER, Poscritto a «Che cos’è metafisica?», Adelphi, Milano 2001, p. 85.
65. Di questo lontano Friuli, «Libertà», 13 novembre 1946; ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 218.
66. Fevrar, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, cit., p. 26. Trad.: "Sono tornato d'estate. / E in mezzo alla campagna, / che mistero di foglie! / e quanti anni sono passati! /Adesso ecco febbraio, / canali, pianeli, gelsi... / Mi siedo qui sull'erba, / gli anni sono passati per nulla".
67. La scelta di Casarsa, stimata come luogo più tranquillo e sicuro dove attendere la fine guerra, ci lascia un po' titubanti. Per quel che concerne le bombe, Casarsa, essendo un importante nodo ferroviario, vi era più esposta di Bologna. A partire dal 1943, fu sottoposta a bombardamenti quotidiani che quasi la distrussero. Per quel che riguarda Casarsa, obbiettivo militare per eccellenza: cfr. AA. VV., Ciasarsa, cit.
68. Pasolini a Casarsa: quasi un racconto, di Amedeo Giacomini, in TONUTI SPAGNOL, La cresime e timp piardut, Edizione Concordia Sette, Pordenone 1985, p. 7.
69. Il “Setaccio" era lo stanco bollettino della Gioventù del Littorio bolognese che subì un vero e proprio colpo di mano da parte del pittore Italo Cinti, antifascista, il quale, raccolse intorno a sé un gruppo di giovanissimi, tra cui Pasolini, Fabio Mauri e Fabio Luca Cavazza, proiettati alla creazione di una cultura in vista del dopoguerra. Il "Setaccio" divenne un vaglio delle intelligenze. Pasolini vi pubblicò le sue poesie in friulano, cioè in uno di quei linguaggi particolaristici che il fascismo voleva abolire.
70. In PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 156.
71. A Luciano Serra, Casarsa, agosto 1943, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 185.
72. Cfr. La meglio gioventù, GIUSEPPE MARIUZ, Campanotto Editore Udine, Udine 1993, p. 32.
73. Alba, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, cit., p. 209. Trad. "O petto svegliato / dal nuovo sole! / O mio caldo letto / bagnato di lacrime! / Con un'altra luce / mi sveglio a piangere / i giorni che volano / via come ombre".
74. Cfr. il saggio di Cesare Bordotto dal titolo Con Pasolini nel tempo di Casarsa, in AA. VV., Ciasarsa, cit. p. 331.
75. Cfr. PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 173.
76. Nel '43 Pier Paolo non vede il padre, prigioniero in Kenya, da due anni mentre dell'amico Ermes Parini (detto Paria), che combatte in Russia, non sa più nulla e «può solo immaginarlo ferito, disperso, prigioniero».
77. La pioggia, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 164.
78. In PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 179.
79. A Franco Farolfi, Casarsa, primavera 1943, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, p. 170.
80. A Luciano Serra, Casarsa, 4 giugno 1943, in ibid., p. 174.
81. Cfr. ibid., p. 167.
82. Cfr. il saggio di Lorenzo Capitani dal titolo Poesia in forma di scuola, in AA. vv., Pier Paolo Pasolini. Educazione e democrazia. Atti del Convegno omonimo, 3 marzo 1995, p. 41.
83. BRUNO BRUNI, Il ragazzo e la civetta, Campanotto Editore, Udine 1993, p. 15.
84. “(…) mi parlava dell’Ascoli, della Percoto e di Zorutti (...). Quelle discussioni sulla scoperta della Ladinia, dai provenzali ai catalani fino al nostro Friuli continuarono nei mesi successivi.”
Cfr., il saggio di Cesare Bordotto, Con Pasolini nel tempo di Casarsa, in AA. VV. Ciasarsa, cit., p. 332. La passione di Pasolini per il friulano, non poteva scaturire solo da una semplice suggestione fonetica, ma richiedeva studi scientifici su testi eruditi, che avrebbero permesso di scavare nelle zone remote e sconosciute della tradizione letteraria. Dopo una lettura scrupolosa dei Saggi Ladini dell’Ascoli, l’Antologia della letteratura friulana del Chiurlo e il Vocabolario del Pirona, Pasolini sente la responsabilità di elevare, con la sua poetica, il friulano a dignità di gruppo linguistico autonomo all’interno della cerchia delle lingue romanze.
85. Cfr. ROBERTA CORTELLA, Percorsi romanzi nell’opera di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 55.
86. Cfr. la testimonianza di Don Dante Spagnol, in AA. VV., J’sielc’ peravali’ - Scelgo parole, Edizione Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1995, p. 184.
87. Cfr. Dialet, lenga e stil, in «Stroligut di cà da I’aga», Casarsa, aprile 1944, pp. 3-5; ora in P. P. PASOLINI, L’Academiuta friulana e le sue riviste, Neri Pozza Editore, Vicenza 1994. Trad. “Parlare friulano è parlare latino“.
88. OVIDIO COLUSSI, Pieri Pauli Pasolini maestri di puisia, in AA. VV., Ciasarsa, cit. p. 387. Traduzione di Roberta Cortella: Alla fine di ottobre - solo dopo qualche settimana di lezione - Pier Paolo Pasolini cominciò a spiegarci che il friulano era una lingua (...), il friulano derivava, direttamente, dal latino. Che non bisognava vergognarsi di parlare friulano. “Parlare friulano è parlare latino”. Noi studenti, una settimana dopo, cominciammo a chiedere una infinità di cose: come si scrive, per esempio, scjiavassà, scjiala e via discorrendo. “Scrivete come vi capita. L’importante è che scriviate”.
89. Cfr. PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 190.
90. Cfr. P. P. PASOLINI, Pasolini su Pasolini, Guanda, Parma 1992, p. 59.
91. Cfr. PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 190.
92. Cronologia, a cura di Nico Naldini, in P. P. PASOLINI, Romanzi e racconti 1944-1961, tomo I, cit., p. CLXII.
93. Cfr. Appendice. Lettere inedite, in P. P. PASOLINI, Vita attraverso le lettere, cit., p. 323.
94. L'almanacco «Strolic furlan», pubblicato ogni anno a Udine dalla Società Filologica Friulana; «Stroligùt», l'affettuoso diminutivo della rivista casarsese, non intende sottolineare una condizione di inferiorità, ma una dichiarata differenziazione nei confronti della cultura ufficiale udinese. Per un ulteriore approfondimento sul significato del titolo attribuito alla rivista casarsese, cfr. NICO NALDINI, Introduzione a P. P. PASOLINIL'academiuta di lenga furlana e le sue riviste, cit., p. 10.
95. Di questo lontano Friuli, cit., p. 218.
96. Dialet, lenga e stil, in Stroligut di cà da l'aga (1944), Il Stroligut (1945-46), Quaderno Romanzo(1947), riviste friulane / dirette da Pier Paolo Pasolini, Circolo Filologico - Linguistico Padovano, Padova 1983. Trad. "Per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore (...). Nessuno, è vero, lo ha mai usato per scrivere, esprimersi, cantare; ma non è neanche giusto pensare che, per questo motivo, debba sempre rimanere sotterrato nei vostri focolari, nei vostri campi, nei vostri stomaci (...)".
97. Cfr. PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p. 203.
98. Memoria di un spetaculut, in Stroligut di cà da l'aga(1944), II Stroligut (1945-46), Quaderno Romanzo (1947), riviste friulane / dirette da Pier Paolo Pasolini, Circolo Filologico Linguistico Padovano, Padova 1983, p. 29. Trad: “fiore nato quasi per caso nel deserto di lacrime e di passioni del 1944”.
99. Appendice ad «Atti impuri», in PASOLINI, Romanzi e racconti 1946-1961, tomo I, cit.,p.146
100. Atti impuri, in ibid. p. 62. Ribadiamo che la nostra attenzione sull'autore verte soprattutto ad una analisi del periodo dell'esordio poetico e intellettuale in Friuli, dunque, gli anni che vanno dal trasferimento definitivo a Casarsa all'episodio di Ramuscello.
101. P.P. PASOLINI, Romàns, Guanda, Parma 1994.
102. Atti impuri, in P. P. PASOLINI, Romanzi e racconti 1946-1961, tomo I, cit., p. 25.
103. Cfr. Un coetaneo ideale e perfetto, ne « Il Mattino del Popolo», 22 settembre 1948; ora in P.P, PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 150.
104. Cfr. ibid, p. 150.
105. Il Friuli, in Un paese di temporali e di primule, cit., p. 200.
106. Dopocena nostalgico, «Il Mattino del Popolo», 13 ottobre 1948, in Un paese di temporali e di primule, cit., p. 153.
107. Volontà poetica ed evoluzione della lingua, «Il Stroligùt», aprile 1946; ora in L'Academiuta e le sue riviste, cit.
108. Tra i membri dell'Academiuta, non tutti sono poeti; alcuni sono pittori e partecipano ad alcune tra le molteplici attività del piccolo circolo letterario, i restanti componenti, sono gli alunni della scuoletta pasoliniana, lanciati in questa nuova avventura poetica.
109. Pina Kalz, violinista slava sfollata con Pier Paolo Pasolini nella casa di Versuta. Grazie a lei il nostro giovane poeta scopre la passione per la musica e in particolare per Bach. Pina accompagnerà anche la sua esperienza didattica a Versuta, componendo le musiche di alcuni testi poetici (villotte) scritti dallo stesso Pier Paolo per i suoi ragazzi.
110. Appendice ad «Atti impuri», in P. P. PASOLINI, Romanzi e racconti 1946-1961, tomo I, cit., p. 151.
111. Ci sembra molto interessante l'analisi etimologica dell'espressione "félibre" che ci offre Fernando Bandini: «L'etimo è nel tardo latino felebris (-ibris), dal verbo fellare, "succhiare", poppare", suo significato originario, prima di assumere quello osceno che è il più noto. Il parlar materno quindi come latte, come nutrimento. Il sottoscritto ha iniziato un suo remoto intervento su Pasolini con la frase: "In principio era la parola e la parola era presso la madre"». Cfr. saggio di Fernando Bandini dal titolo Il "sogno di una cosa" chiamata poesia in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, cit., p. XVIII.
112. Cfr. «Il Stroligùt» n. 1, agosto 1945, ora in P. P. PASOLINI, Saggi per la letteratura e per l'arte, cit., p. 28.
113. Cfr. Il Friuli, in Un paese di temporali e di primule, cit., p. 191.
114. Cfr. Presentazione dell'ultimo «Stroligùt», in «Libertà», 26 maggio 1946, ora in Saggi sulla letteratura e sull'arte, cit., p. 163.
115. Cronacuta di Paisdòmini, in «Stroligùt di cà da l'aga», agosto 1944, ora in Saggi sulla letteratura e sull'arte, cit., p. 68.
116. Lettera dal Friuli, in «La fiera letteraria», 29 agosto 1946, ora in Un paese di temporali e di primule, cit., p. 211.
117. Motivi vecchi e nuovi per una poesia friulana non dialettale, in «Il Tesaur», n.2, 1949, ora in Un paese di temporali e di primule, p. 239.
118. «Ta la sera ruda di Sàbida / mi contenti di jodi la int / fór di ciasa ch'a rit ta l'aria. / Encia me cór al è di aria / e tai me vuj a rit la int / e tai me ris a è lus di Sàbida. / Zòvin, i mi contenti dal Sàbida, / puòr, i mi contenti da la int, / vif, i mi contenti da l'aria. / I soj usàt al mal dal Sàbida», in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, cit., p. 112. Trad.: "Nella nuda sera del sabato / mi accontento di guardare la gente / che ride fuori di casa nell'aria. / Anche il mio cuore è di aria / e nei miei occhi ride la gente / e nei miei ricci è la luce del sabato. / Giovane, mi accontento del sabato, / povero, mi accontento della gente, / vivo, mi accontento dell'aria. / Sono abituato al male del sabato".
119. BRUNO BRUNI, Il ragazzo e la civetta, cit., p. 16.
120. Cfr. Lettera dal Friuli, cit., p. 212. Pasolini si riferisce alle mire espansionistiche di Tito su parte dei territori friulani.
121. A Luciano Serra, Casarsa, 21 agosto 1945, in PASOLINI, Lettere 1940-1954, cit., p.197
122. Cfr. Atti impuri, in P. P. PASOLINI, Romanzi e racconti 1946-1961, tomo I, cit., p. 150.
123. A Franco Farolfi, Versuta, 22 agosto 1945, Lettere 1940-1954, cit., p. 204.
124. Cfr. ibid., p. 203.
125. A Luciano Serra, Versuta 21 agosto 1945, Lettere 1940-1954, cit., p. 201.
126. Cfr saggio di Domenico Canciani dal titolo Lingua, autonomia, `patria": brevi note su alcuni interventi del Pasolini friulano, in AA. VV., Pier Paolo Pasolini. L'opera e il suo tempo, Cleup Editore, Padova 1983
127. Academiuta di lenga furlana, in «Stroligùt», agosto 1945; ora in P. P. PASOLINI, Saggi per la letteratura e l'arte, cit., p. 74.
128. Cfr. Di questo lontano Friuli, cit., p. 220.
129. Che cos'è dunque il Friuli?, «Libertà», 6 novembre 1946; ora in Un paese di temporali e di primule, cit., p. 251.
130. Di questo lontano Friuli, cit., p. 220.
131. Cfr. I colori della domenica, «Il Messaggero Veneto», 13 luglio 1947; ora in Un paese di temporali e di primule, cit., p. 135.
132. Quasi contemporaneamente all'iscrizione al partito comunista, Pasolini sottoscrive le dimissioni dall'Associazione per l'Autonomia Friulana, intuendo le strumentalizzazioni a cui il partito democristiano friulano sottoponeva il problema dell'autonomia. Questo allontanamento verrà giudicato dai membri di quel partito, e in particolare da don Marchetti, come un'abdicazione dell'ideale stesso dell'autonomia del Friuli per asservire un indottrinamento teorico. Ci sembra, tuttavia, di poter compendiare la "risposta" di Pasolini in queste sue parole: «Si è detto che ho tre idoli: Cristo, Marx , Freud. Sono solo formule. In realtà il mio idolo è LA REALTÀ» (in Pier Paolo Pasolini par lui même, in «Avant-scène», Parigi, novembre 1969).
133. Cansiòn, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, tomo I, cit., p. 98. Trad.: "Io ho creduto in te, / sicuro di poter credere nella vita / del Mondo (...). / Ma tu che cosa hai fatto, / terra cristiana per spegnere il fuoco / che hai appiccato alla mia carne / quando credevo un gioco / l'amarti? Nulla (...) / non puoi perdonare tu, Friuli, / cristiano a uno che la tua lingua schiava / liberava in un cuore caldo di peccato. / Canzone, vola laggiù / dove tutto è fermo… Sei l'ultimo sospiro in una lingua / caduta di nuovo in cuori dimenticati".


Autore: Chieco, Mariella
Curatore: Leonardi, Enrico


Curatore, Bruno Esposito

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