"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Una vita violenta
Avvertenza
I riferimenti a singole persone, fatti e luoghi reali qui descritti sono frutto di invenzione: tuttavia vorrei che fosse ben chiaro al lettore che quanto ha letto in questo romanzo è, nella sostanza, accaduto realmente e continua realmente a accadere. Ringrazio i «ragazzi di vita» che, direttamente o indirettamente, mi hanno aiutato a scrivere questo libro, e in particolare, con vera gratitudine, Sergio Citti.
Il 1959 è per Pasolini un anno di successo e polemiche. Garzanti da alle stampe il secondo romanzo “romano” di Pasolini:
Gli scrive Giorgio Caproni:
Tratto da Lettere 1955-1975, a cura di Nico Naldini |
In giugno partecipa al premio Strega. Guido Piovene gli scrive il 16 giugno:
Tratto da Lettere 1955-1975, a cura di Nico Naldini |
Al premio Strega, Una vita violenta di Pasolini si aggiudica il terzo posto mentre il primo viene assegnato al Gattopardo di Tommaso Di Lampedusa.
Partecipa al premio Viareggio e, nonostante il ritiro di Alberto Moravia con i il suo "Nuovi racconti romani", il premio viene dato a Marino Moretti.
Pasolini dichiara:
Vince il premio Crotone e si innesca una furiosa polemica perchè la destra e La democrazia cristiana calabrese attaccano Pasolini per alcune considerazioni espresse su Cutro in un reportage in tre puntate sulla rivista "Successo" - LA LUNGA STRADA DI SABBIA :
Ecco la frase:
Caro direttore,
con un po’ di ritardo, magari, mi vorrei spiegare e sfogare sulle colonne del suo giornale. Ho qui, solo ora, sotto gli occhi dei fogli calabresi di cui mi era stato dato un vago allarme: e su cui sono oggetto di una profonda indignazione. Ho fatto come lo struzzo: non ho voluto saperne di più. Ma adesso quei giornali mi sono capitati fisicamente davanti: e ho dovuto tirar fuori dalla sabbia la testa. Niente di grave: ne ho passate di ben peggiori, in quest’annata letteraria. Ancora una volta sono dichiarato nemico della patria: stavolta perché ho dato dei «banditi» ai calabresi.
Veramente, le cose stanno così: ho fatto quest’estate un giro per le spiagge italiane, da Ventimiglia a Trieste, per incarico della rivista «Successo», e qui, in tre puntate, ho pubblicato le mie impressioni. Un piccolissimo, stenografato Reisebilder: in cui sono andato non oltre la prima cute. Tra le altre spiagge ho visto quelle calabresi: stupende nel versante tirrenico, specie fino a Maratea (e l’ho scritto: stupende); incantate nella parte occidentale dello Jonio (e anche questo l’ho scritto); tremende nella zona di Cutro. Tremende non in quanto spiagge, ma in quanto luoghi appartenenti a una fra le più depresse delle aree depresse italiane. Non ho potuto affrontare in una sede come quella di «Successo» la cosa in termini sociologici, e nemmeno veramente letterari: e così ho un po’ scherzato, linguisticamente, come in tutto il resto del mio servizio.
Dicendo che la zona di Cutro è quella che mi ha più impressionato di tutto il mio viaggio, ho detto la verità: chiamandola poi zona di «banditi», ho usato la parola: 1) nel suo etimo; 2) nel significato che essa ha nei film western, ossia in un significato puramente coloristico; 3) con profonda simpatia. Fin da bambino, ho sempre tenuto per i banditi contro i poliziotti: figurarsi in questo caso.
Ora, purtroppo, alcune persone hanno finto di essersi offese per queste mie innocenti parole: non so perché l’abbiano finto: per ragioni di tattica elettorale, suppongo. Avranno avuto bisogno di aureolarsi, nei giorni in cui i Russi vanno sulla luna, della luce di difensori della patria e della tradizione. Il primo a alzare il vessillo dell’indignazione sacra, è stato un onorevole democristiano (un La Russa): subito altre persone, forse in buona fede, si sono coindignate.
È così che si creano i pretesti, le speculazioni politiche, i rancori teologici, e magari si armano le mani, oltre che le bocche. Un’ondata di indignazione contro di me, ha percorso la pubblicistica calabra. In prima pagina, su tre colonne, magari colonnette, le vestali del luogo hanno lanciato insulti neoclassici contro la mia neorealistica persona. Se la prendono contro la mia aggettivazione: per esempio, contro la terna di aggettivi che nel mio penso accompagna lo Jonio: «nemico, straniero e seducente». Ammetto che i tre aggettivi non sono stilisticamente gran cosa, che sono tolti un po’ dal ron ron rondista (era il primo materiale linguistico che mi capitava sottomano per esprimermi nella a me insolita maniera giornalistica): ammetto tutto. Ma che, mutilati di un corno, («seducente») e ridotti al moncone «nemico e straniero», mi vengano gettati addosso con l’accusa di non sentire la grandezza della Magna Grecia, è troppo.
Ma cerchiamo di vedere più dentro. In questa polemichetta, i dirigenti democristiani calabresi confermano tutto il male che si può dire di loro. Per ragioni diverse: 1) con cattiveria degna del peggior giornalista dello Specchio, creano, falsificando, un pretesto; 2) fingono di provare reale calore e indignazione contro questo falso oggetto, che invece non è altro che un atto di fredda tattica politica; 3) adottano come più efficace argomento oratorio l’appello alla tradizione, a una tradizione morta e sepolta, puramente archeologica, esattamente come facevano i fascisti con l’antica Roma (vorrei aggiungere, al proposito, che proprio in questi giorni comincio la traduzione dell’Orestiade, che Gassman reciterà nei teatri greci del Sud: e ho in cantiere da tempo la traduzione dell’Eneide: mi si venga dunque a dire che non amo la classicità...); 4) eludono i problemi veri, deviando l’interesse pubblico verso delle sciocchezze folcloristiche, sfruttando ipocritamente la ingenua passione dei calabresi semplici; 5) non vogliono ammettere che in realtà in Calabria i «banditi» ci sono. E precisiamo questa storia dei «banditi».
Anzitutto, a Cutro, sia ben chiaro, prima di ogni ulteriore considerazione, il quaranta per cento della popolazione è stata privata del diritto di voto perché condannata per furto: questo furto consiste, poi, nell’aver fatto legna nei boschi della tenuta del barone Luigi Barracco. Ora vorrei sapere che cos’altro è questa povera gente se non «bandita» dalla società italiana, che è dalla parte del barone e dei suoi servi politici.
Certo, il punto di vista storico dei cattolici è scoraggiante: guardando le cose sub specie aeternitatis, è chiaro che la Magna Grecia e il governo Segni sono pressappoco degli stessi anni.
Ogni prevaricazione storica è possibile, di fronte alla metastoria. Non so se il La Russa si renda almeno conto di questi problemi minimi di metodo. Comunque è certo che, nonché di pietà cristiana, egli manca totalmente di quel senso storicistico senza cui è impossibile vivere da uomini civili. Se lo possedesse, saprebbe che la storia della sua Calabria implica necessariamente il banditismo: se da due millenni essa è una terra dominata, sottogovernata, depressa.
Paternalismo e tirannia, dai Bizantini agli Spagnoli, dai Borboni ai fascisti, che cos’altro potevano produrre se non una popolazione nei cui caratteri sociali si mescolano una dolorosa arretratezza e un fiero spirito di rivolta? E appunto per questo non si può non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non avversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuol perpetuare questo stato di cose, ignorandole, mettendole a tacere, mistificandole.
Proprio in questi giorni ricorre l’anniversario – il decimo – dei fatti di Melissa: opera del popolo.
Là c’erano i germi per la rinascita della Calabria e del Sud: i La Russa hanno contribuito, servilmente, all’azione, per fortuna vana, che mirava a disseccarli. E adesso s’indignano se qualcuno dice la verità: in Calabria c’è miseria, dolore, rabbia: si vive a un altro livello culturale: l’ho scritto e lo ripeto. E tutto questo è colpa delle classi dominanti che si sono succedute a torturare questa povera terra: e a cui si aggiunge la nuova borghesia democristiana conformista e ipocrita.
Quanto a me, di tutto mi si può accusare fuori che di non essere dalla parte del popolo: il mio primo romanzo, inedito, del 1949, è sui braccianti friulani e il Lodo De Gasperi: da allora non ho scritto altro che di problemi che riguardano le classi povere, proletarie e sottoproletarie. Se dovessi dire qual è la poesia che mi è più cara del mio volume Le ceneri di Gramsci, oltre a quella che dà il titolo al libro, direi senz’altro La Terra di Lavoro, che riguarda proprio il Sud e le sue misere e abbandonate popolazioni.
Del resto, fin dal 1949, in un gruppo di poesie incomplete e inedite, che si dovevano intitolare I cantari di Germani Bruno (un giovane diffusore dell’Unità friulano), scrivevo, appunto a proposito di Melissa, questi versi (che non considero buoni, ma certo significativi per quanto riguarda le mie opinioni e la mia posizione politica). A costo di parere presuntuoso, caro direttore, vorrei qui di seguito riportarli:
C’è una poesia, su questa Unità,
tante parole in riga come erbe in una zolla,
ragazzi, quel poeta doveva essere così felice
quando piangeva
per i braccianti calabresi.
Come noi nell’uccellanda,
tranquilli che aspettiamo gli uccellini
e poi ridendo gli schiacciamo il capo,
quel poeta doveva essere tanto tranquillo,
un giovane tranquillo come un vecchio,
e parlava come parlando a buoni spiriti
a ragazzi e vecchi mezzi addormentati,
parlava come se avesse una bocca nel cielo
e una bocca su questa terra,
le sue parole dicevano...
che il contadino «aveva deposto
la rabbia in fondo al mare!» che il
«suo sorriso era come un paesaggio
che scivolava sulle labbra fangose»...
Poveri morti della Calabria, ah maledetto
chi vi ha massacrati
perché anche noi, ragazzi del Veneto,
non abbiamo, forse, «membra di diamante»
e «malinconia selvaggia»? Non siamo
«solcati da lampi e intrisi d’azzurro»?
Gli dici «Riposa», «Dormi», perché
ah che dolore, compagni!, perché
quei morti vanno per i campi pieni di sole,
dentro l’avvenire,
nell’alba che non sa più suonare l’Ave...
Gli dici, poeta, che tu non vuoi
nasconderti dietro gli occhi chiusi,
guarda, guarda bene,
noi siamo quei morti ancora vivi
quando avevano quindici anni
e la miseria spinge anche noi, il nostro
canto, come quello di quei poveri muti, laggiù...
Pier Paolo Pasolini
Appendice a "La Lunga strada di sabbia"
Guanda
1 gennaio 1960 «Rinascita» - Biblioteca Gino Bianchi |
2 febbraio 1960, Rinascita - Biblioteca Gino Bianchi |
[...]
Con Ragazzi di vita e Una vita violenta - che molti idioti credono frutto di un superficiale documentarismo - io mi sono messo sulla linea di Verga, di Joyce e di Gadda: e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico: altro che immediatezza documentaria!
Rifare, mimare il «linguaggio interiore» di una persona è di una difficoltà atroce, aumentata dal fatto che ' nel mio caso - come spesso nel caso di Gadda - la mia persona parlava e pensava in dialetto. Bisognava scendere al suo livello linguistico, usando direttamente il dialetto nei discorsi diretti, e usando una difficile contaminazione linguistica nel discorso indiretto: cioè in tutta la parte narrativa, poiché il mondo è sempre «come visto dal personaggio». Le stonature in questa operazione sono sempre a un pelo dalla scrittura: basta eccedere solo un minimo sia verso la lingua che verso il dialetto che il difficile amalgama si rompe, e addio stile...
Vie Nuove n. 48, 3 dicembre 1960
Curatore, Bruno Esposito
Grazie per aver visitato il mio blog
Nessun commento:
Posta un commento