"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Guido Alberto Pasolini |
Tutti gli scritti presenti in questo post, sono tratti da Malastoria di Giovanni Giovannetti.
Ringrazio Giovanni Giovannetti per aver concesso il permesso alla pubblicazione in queste pagine.
Pier Paolo Pasolini
in ricordo di Guido
(forse a Casarsa il 21 giugno 1945)
Non parlo perché ho qualche incarico o qualche merito particolare, ma solo perché sono il fratello di uno di questi martiri. Quanto sia il dolore di mia made, mio, e di tutti questi fratelli e madri e parenti non mi sento ora di esprimere. Certo è una realtà troppo grande, questa di saperli morti, per essere contenuta nei nostri cuori di uomini. Essi sono morti portando via con sé tutto il passato delle loro famiglie, tutto il nostro passato, e ci hanno lasciati soli in questa terra che ci sembra estranea. Io, per mio fratello, posso dire che è stata la sorte del suo corpo entusiasta che l’ha ucciso, e che egli non poteva sopravvivere al suo entusiasmo. Ora, gli ideali per cui è morto, il suo dolcissimo tricolore, se lo hanno rapito in un silenzio che non è ormai più il nostro. E con lui tutti i suoi eroici compagni. E solo noi, loro parenti, possiamo piangerli pur non negando che ne siamo orgogliosi, pur restando convinti che senza il loro martirio non si sarebbe trovata la forza sufficiente a reagire contro la bassezza, e la crudeltà, e l’egoismo, in nome di quegli ideali per cui essi sono morti. Solo noi possiamo piangerli, che sappiamo come parlavano, come ridevano, come ci amavano. Solo noi possiamo piangerli, che sappiamo come erano ben vivi, e come accoratamente desideravano tornare tra noi, nelle loro case, alla loro cara esistenza. Gli estranei, no, non possono piangerli se non brevemente; per gli estranei questo non può essere che un tragico episodio, un necessario martirio. È giusto, è umano che sia così. Ma noi alla società non chiediamo lacrime, chiediamo giustizia.
Il martire ai viviGuido Pasolini Ermes, “Stroligût” n. 1, agosto 1945
Coscientemente ho rinunciato all’inenarrabile gioia di essere al mondo con me stesso, e i miei genitori e mio fratello e tutti voi; ma ho pagato questa mia rinuncia con uno strazio tale che solo un vivo può comprenderlo.
Coscientemente fui martire dopo un anno di lotte, di fame, di patimenti, di sofferenze, di guerra; eppure, essere stato un valoroso era ben nulla: nulla, poiché non c’è confronto possibile fra tutto ciò che è di codesta vita e il silenzio terribile della morte.
Ora, io, martire, mi rivolgo a voi vivi. Non per digradarvi con questa mia umana grandezza, che, cercata per se stessa, con la generosità innocente di chi non aveva ancora vent’anni, è finita con me, in questo assoluto silenzio, ed io non chiedo compensi di nessuna specie. È stato il mio cuore entusiasta che mi ha portato a questo incredibile sacrificio: io non potevo sopravvivere al mio entusiasmo; e accetto, così, la mia sorte.
Io mi rivolgo a voi per raccomandarvi di non dimenticare i sentimenti che mi hanno condotto alla morta, e gli ideali che mi fanno martire.
L’Italia non è caduta, ed io non la vedo nemmeno toccata dagli avvenimenti di questi ultimi anni della storia, poiché la sua grandezza è tutta spirituale, e s’innalza al di sopra di tutte le miserie nostre ed altrui. È per questa spirituale grandezza che io sono morto. E a chi si mostri sfiduciato davanti alla miseria della Patria, io dirò che mai in tutta la sua storia, essa ha potuto contare un numero così grande di martiri che la glorificano, come in questi anni che possono sembrare sconfortanti e no lo sono.
In questa spirituale grandezza della Patria, a cui io vi supplico di credere, voi troverete specchiati e riassunti tutti gli affetti che mi hanno fatto morire per lei.
Guido Pasolini
(Ermes)
Il Friuli, 9 febbraio 2001 |
Lettera di Pasolini a Luciano Serra su Guido (21 agosto 1945)
Versuta, 21 agosto
Carissimo Luciano,
ho ricevuto la tua lettera del 14 luglio, carissima, consolantissima. Cerca di scrivermi spesso, anche se la posta è cosi lenta. Quante cose mi dici di te; ed io di me non ho nulla da raccontare, e l’unica cosa la sai. La disgrazia che ha colpito mia madre e me, è come un’immensa, spaventosa montagna, che abbiamo dovuto valicare, e quanto piú ora ce ne allontaniamo tanto piú ci appare alta e terribile contro l’orizzonte. Non posso scriverne senza piangere, e tutti i pensieri mi vengono su confusamente come le lacrime. Dapprincipio non ho potuto provare che un orrore, una ripugnanza a vivere, e l’unico, inaspettato conforto era credere nell’esistenza di un destino a cui non si può sfuggire, e che quindi è umanamente giusto. Tu ricordi l’entusiasmo di Guido, e la frase che per giorni e giorni mi è martellata dentro, era questa: Non ha potuto sopravvivere al suo entusiasmo. Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere. E quanto è stato migliore di tutti noi; io adesso vedo la sua immagine viva, coi suoi capelli, il suo viso, la sua giacca, e mi sento afferrare da un’angoscia così indicibile, così disumana. Credo che non potrò dirti niente per l’articolo che pensi di scrivere; mia mamma è qui che sfaccenda in cucina, e io devo fare sforzi tormentosi per non farmi veder lacrimare da lei. Ora l’unico pensiero che mi consola non è l’idea che occorra essere saggi, che bisogna superare e rassegnarsi; questa rassegnazione è egoismo; è crudele, disumana. Non è questo che bisogna dare a quel povero ragazzo che se ne sta laggiù chino in quel silenzio terribile. Bisognerebbe esser capaci di piangerlo sempre senza fine, perché solo questo potrebbe essere un poco pari all’immensità dell’ingiustizia che lo ha colpito. Eppure la nostra natura umana è tale che ci permette di vivere ancora, di risollevarci, perfino, in qualche momento. Perciò l’unico pensiero che mi conforta è che io non sono immortale; che Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. E che ora che mi è cosi famigliare; la terribile oscura lontananza o disumanità della morte mi si è cosi schiarita da quando Guido vi è entrato. Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico; c’è Guido, mio fratello, capisci, che è stato per vent’anni sempre vicino a me, a dormire nella stessa stanza, a mangiare nella stessa tavola. Non è dunque cosi innaturale entrare in quella dimensione cosi a noi inconcepibile. E Guido è stato cosi buono cosi generoso da dimostrarmelo, sacrificandosi pel suo fratello maggiore, forse a cui voleva troppo bene a cui credeva troppo.Per questo posso dirti, Luciano, ch’egli si è scelto la morte, l’ha voluta; e fin dal primo giorno della nostra schiavitù. Il 10 settembre del ’43 lui e un suo amico avevano già rischiato la vita più volte per rubare armi ai Tedeschi nel campo di aviazione di Casarsa; e cosi per tutto l’autunno del ’44 il suo amico Renato, durante una di quelle rischiosissime imprese, ha perso una mano e un occhio; non per questo hanno desistito; anzi, per tutta la primavera hanno, di notte durante il coprifuoco sparso biglietti di propaganda e scritto sui muri (nel muro di una casa crollata di Casarsa si legge ancora la sua scritta: L’ora è vicina). E tu Luciano ricorderai il nostro arresto, in cui si accusava me di essere colpevole di quella propaganda; era Guido invece. Da quei giorni la sorveglianza su di noi fu continua ed, esasperante. Andavamo spesso a dormire a Versuta; intanto Guido aveva preso da molto tempo la decisione di andare sulle montagne. E agli ultimi di maggio del ’44, partì, senza che si potesse far nulla per convincerlo a restarsene nascosto a Versuta, come poi ho fatto io per un anno. Io l’ho aiutato a partire, una mattina di buonora. Avevamo preso un biglietto per Bologna, dicendo a tutti che quella era la meta del suo viaggio. Erano i giorni di maggior terrore e di piú stretta sorveglianza. E la sua fuga fu abbastanza drammatica. Ci siamo salutati e baciati in un campo dietro la stazione; ed era l’ultima volta che lo vedevo. Partì per Spilimbergo; ed arrivò finalmente a Pielungo, incorporandosi nella divisione Osoppo. Cominciano allora le sue imprese leggendarie, che io non conosco bene. Le sue lettere erano rare e oscure. In quel tempo, sui monti della Carnia, i patrioti erano ancora un numero esiguo; il reparto di Guido era di sei o sette uomini, che dovevano fingere di essere una compagnia, con furiose, incredibili marce sui monti. In settembre mia mamma è andata a trovarlo; stavolta era a Savorgnano del Torre, sopra Tricesimo. Lì stava bene, i partigiani erano ben organizzati, e il morale altissimo. Poi venne l’offensiva di ottobre e novembre da parte delle brigate nere e dei tedeschi; offensiva memorabile, che i Friulani non potranno piú dimenticare. In quell’orribile confusione Guido ha dovuto passare dei momenti tremendi; e restano testimoniati in una lunga interessantissima lettera indirizzata a me. Finalmente i partigiani si riorganizzano; Guido si trova a Musi con il suo amico Roberto d’Orlandi, “Gino”, ed “Enea”. È di questo periodo la sua impresa piú eroica (siamo nel gennaio 1945); il suo comandante “Gino” mi ha raccomandato che se dovessi scrivere di Guido non risparmiassi gli aggettivi piú straordinari. Egli lo ha visto all’opera, e io ti ripeto quello che lui ne ha detto, senza poterti rendere la sua ammirazione e la sua commozione. Insomma, Guido e Roberto hanno tenuto testa da soli ad un centinaio di Cosacchi, che erano andati a rastrellare Musi; ritirandosi su pel monte, sparavano, con una calma e una freddezza da veterani, loro, che erano ragazzi diciannovenni; e benché fossero quasi al corpo a corpo non perdettero un momento la testa, e resistettero fino a che i Cosacchi si ritirarono. Un mese dopo, cioè il 7 febbraio, Guido era morto; e avrebbe potuto, invece, essere qui, felice, glorioso, con la sua bandiera, vicino a sua mamma. Ma gli avvenimenti gli si sono presentati in modo tale che avesse modo di scegliere fra la sua vita e la libertà. E ha scelto la libertà, che vuol dire lealtà, generosità, sacrificio. Da alcuni mesi un gruppo di traditori si dava d’attorno per tradire la causa di quella libertà, e vendersi a Tito; gli osovani di quella zona, a capo dei quali era De Gregoris (Bolla) col suo stato maggiore a cui apparteneva Guido, non volevano piegarsi alle richieste slavo-comuniste di passare nelle file del nostro nemico Tito. Questo fin dal novembre ’44; ora le cose si erano tese, quando senza scopo, senza una ragione plausibile, se non l’odio e un loro ripugnante egoismo, un gruppo di disoccupati e facinorosi che militavano tra i garibaldini della zona, fingendosi scampati da un rastrellamento, si fanno ospitare da Bolla e i suoi; poi, improvvisamente gettano la maschera, fucilano Bolla, gli levano gli occhi; massacrano Enea; prendono prigionieri tutti quegli altri poveri ragazzi, circa 16 o 17, e ad uno ad uno li ammazzeranno tutti; questo avvenne in alcune Malghe presso Musi. Quel giorno mio fratello si trovava a Musi con Roberto ed altri, e stava recandosi da Bolla per portargli alcuni ordini; ed ecco che sentono le prime fucilate, e vedono uno fuggente, che dice loro di scappare, tornare indietro, che non c’è nulla da fare. Tutti si lasciano convincere a ritirarsi. Ma mio fratello e Roberto, no; vogliono andare a vedere, a portare il loro aiuto, poveri ragazzi. Ma di fronte ai cento e piú traditori; hanno dovuto cedere. Dopo alcuni giorni, essendo stato richiesto a questi giovani, veramente eroici, di militare nelle file garibaldino-slave, essi si sono rifiutati dicendo di voler combattere per l’Italia e la libertà; non per Tito e il comunismo. Così sono stati ammazzati tutti, barbaramente. I funerali, delle spoglie riesumate, sono stati fatti dopo alcuni mesi, a liberazione avvenuta, in grande solennità a Udine; ora Guido è nel cimitero di Casarsa.
Guido era iscritto al partito d’azione. E da quella lettera, di cui ti accennavo, eccoti Luciano, un pezzo che ti riguarda: «Ti mando una copia del programma del partito d’azione al quale ho aderito con entusiasmo. Quanti ho conosciuto del P.A. sono persone onestissime miti e leali: veri italiani. Enea rassomiglia moltissimo a Serra!» Egli ti voleva molto bene, Luciano; e te lo scrivo piangendo. Si è fatto chiamare “Ermes” come nome di battaglia, per ricordare Panini, di cui ancora non mi dite nulla. Ora tutto questo amore che quel ragazzo aveva per me e i miei amici, tutta quella sua stima per noi e per i nostri sentimenti (per i quali è morto) mi tormentano sempre; vorrei poter contraccambiarlo in qualche maniera. Il suo martirio non deve restare ignoto, Luciano. Cerca di scrivere tu intanto qualcosa; questo farebbe un grandissimo piacere anche alla nostra povera mamma, che vuole a tutti i costi avere una ragione per cui quel suo figlio è morto.
Non posso continuare su questo tono, perché mi sento angosciare. Enea (Gastone Valenti) quello che ti somigliava, era un udinese; ed è morto gridando Viva l’Italia e viva la libertà, e poi, massacrato, aveva ancora la forza di mormorare «Dite ai miei ch’io muoio per il Partito d’Azione». Spinto da queste circostanze anch’io mi sono iscritto a questo Partito.
Scrivimi presto, Luciano; e intanto mostra questa lettera a tutti i nostri amici, che non mi sento in grado di scrivere ad ognuno di loro. Di’ che essa è per essi come per te, e che mi scusino. Mandatene, se potete, un riassunto a Farolfi e a Mauri.
Ti bacio e con te tutti Pier Paolo
Pasolini in ricordo dei Martiri di Porzûs (febbraio 1947)
Domenica a Subit (avendo impedito il tempo di giungere fino alle Malghe di Porzûs) si è celebrata una cerimonia in nome di Bolla, Enea e i loro compagni, assassinati da una banda di garibaldini degeneri. Come fratello di Ermes, uno dei martiri, devo innanzi tutto ringraziare gli organizzatori di questo commovente pellegrinaggio e tutti i convenuti, la cui fedeltà è stata davvero consolante. Sono passati due anni dal giorno dell’eccidio, ma ancora io non so affrontare quella «difficoltà d’infinito» che protegge la vita di mio fratello e il suo sacrificio dalla nostra precaria interpretazione. Troppa generosità è morta con lui, ragazzo ventenne, e c’è troppa purezza nella sua morte affrontata deliberatamente. Tuttavia di una cosa posso avere certezza, cioè che mi sia lecito parlare in suo nome. E in suo nome devo dire purtroppo che la cerimonia di Subit è mancata di sincerità; di sincerità, dico, non di buona fede. La morte di Enea, di Bolla e di mio fratello, di D’Orlandi e di tutti gli altri è stata interpretata in un piano di patriottismo (fino a che punto generico qui non è il caso di notare), invece che in un piano di moralità. Per questo i poveri morti di Porzûs non rivissero tra noi domenica, e non furono che un astratto pretesto. Io credo che il loro rapporto con i garibaldini che li hanno assassinati non sia altro che un rapporto tra Bene e Male; che essi sono morti in nome di quella spiritualità che è insita anche nel comunismo o anche nel peggiore degli uomini. Se vogliamo che essi, in nome di quella Spiritualità, continuino a vivere tra noi, è a LORO che dobbiamo pensare, non ai simboli umani per cui hanno dato la vita. Si guardi a mio fratello e al suo amico D’Orlandi; essi in quel giorno tragico stavano tornando a Porzûs da Musi, e essendo stati avvertiti del tradimento da alcuni compagni che cercavano scampo, non hanno voluto tornare indietro, e l’eroica deliberazione, di portar aiuto al loro comandante li condusse al martirio. Come possiamo ora noi, loro famigliari, considerare inutile quel martirio, perché l’Italia deve firmare una pace ingiusta e perdere parte del territorio? È in quel martirio che si è attuata una incorruttibile utilità.Deposizioni di Carlo Pasolini nella fase istruttoria per Porzûs (Udine e Padova, 1946-1947)
Sono il padre di Pasolini Guido (Ermes) e desidererei che venisse fatta luce sul fosco dramma di Porzûs non per spirito di vendetta ma perché è giusto che la mano assassina che ha colpito mio figlio sia condannata e non per nuocere.Io non ero a casa, ero prigioniero nel Kenia ed è stato per me un grande dolore, non il sapere della sua morte , ma il sapere che è stato ucciso dai suoi stessi compagni e con tanta brutalità.
Non ho altro da aggiungere.
Successivamente:
Sono il padre di Pasolini Guido (Ermes).
Desidero deporre direttamente davanti al G.I. di Udine riguardo l’uccisione di mio figlio.
Comparirò davanti a lui con i miei familiari il 7/7/ p.v. Al mattino, e, porterò l’originale della lettera di mio figlio, che devo ritirare nel luogo ove l’ho collocata per sicurezza.
Successivamente:
Mi riporto a quanto dichiarato il 15/X/1946 al G.I. Del Tribunale di Padova ed esibisco a V.S. l’originale della lettera che mio povero figlio Guido indirizzò al fratello Pier Paolo.
L’ufficio dà atto che la copia di detta lettera esistente a f. 26 allegato 6 al Vol. IV° del fascicolo processuale è del tutto conforme all’originale che oggi viene esibita e che dopo l’accertamento di conformità viene restituita all’esibitore.
Al Tribunale militare di Padova.
Trasmetto la copia di una lettera di mio figlio Guido Pasolini (Ermes) caduto a Porzûs, onde codesto Tribunale possa avere (se non è risultato, nell’inchiesta) un’idea della situazione creatosi prima (fino al 27/11/1944) dell’eccidio di Porzûs.
Con osservanza. F/to Magg. Pasolini Carlo
(Archivio IFSML, Fondo Processo Porzûs.
Documenti in copia dell’Archivio Osoppo di Udine.
Parti offese, volume III. Busta 1, fascicolo 1)
Deposizione di Pier Paolo nella fase Istruttoria per Porzûs (Udine, 7 luglio 1947)
Ho ricevuto la lettera di mio fratello Guido, di cui l’originale è stata oggi esibita a V.S. da mio padre nel febbraio 1945, tramite Chiarcossi Umberto impiegato al Catasto di Udine il quale a sua volta ebbe da Paravano Alba da Savorgnano al Torre, alla quale il mio povero fratello la consegnò per il recapito.(Archivio IFSML, Fondo Processo Porzûs.
Documenti in copia dell’Archivio Osoppo di Udine.
Parti offese, volume III. Busta 1, fascicolo 1)
Pasolini, Ermes tra Musi e Porzûs (“Mattino del Popolo”, 8 febbraio 1948)
Egregio Signor Direttore,sono passati tre anni dal giorno dell’eccidio di Porzûs, ma ancora io non so affrontare quella «difficoltà infinita» che protegge la vita di mio fratello Guido e il suo volontario sacrificio, dalle nostre disordinate interpretazioni. Certo «interpretare» Porzûs è ancora, dopo tre anni, un’operazione delicata, quasi intempestiva: due partiti, sullo sfondo di uno sconvolto cielo di confine, si contendono la competenza richiesta per estrarre dalle tremende cronache del ’44-45 quei fatti e assumerli su un accomodante piano di storia o di leggenda. Possiamo ammettere che Bolla fosse forse un caso in fieri di nazionalismo e il suo rifiuto di fondere le forze osovane con quelle garibaldino-slave presenti qualche incrinatura, qualche vizio d’origine; ciò che però non possiamo ammettere, per appoggiare l’interpretazione democristiana, è che si debba trasferire tutto l’episodio senza limitazioni su un piano di patriottismo in funzione anti-slava e anti-comunista.
Come fratello di uno di quei morti io mi rifiuto di prestare il mio dolore in qualità di argomento atto a sostenere la tesi di un partito che si è costituito protettore e difensore dei martiri di Porzûs contro un partito nelle cui file militavano gli assassini. So infatti, senza timore di ingannarmi – per l’amore pudico e confidente che mi legava a Guido – che mio fratello e i suoi compagni osovani si trovano con i loro assassini in un rapporto che è semplicemente l’antinomia Bene-Male; così essi – per chi ricerchi senza bende sugli occhi la verità – non sono morti in nome della «Patria» ma in nome di quello che il simbolo «Patria» rappresentava nel 1945 per chi combatteva contro i Tedeschi: sono morti, cioè, in nome di quella Spiritualità che essendo una categoria dell’uomo esisteva potenzialmente anche nei loro carnefici. Se dunque vogliamo che essi, in nome di quella Spiritualità, continuino a vivere, è a Loro che dobbiamo pensare e non ai caduchi simboli umani per cui hanno dato la vita.
Così l’anno scorso, durante la cerimonia commemorativa a Porzûs, io dovetti ascoltare parole che, nonché confortarmi, mi incollerivano, se da esse risultava tra invocazioni a Dio e alla Patria, che mio fratello, i suoi comandanti e i suoi compagni erano morti «inutilmente» in quanto i comunisti slavi ci avevano strappato parte del territorio nazionale! Ecco a cosa può condurre una interpretazione interessata, ossia necessitata dal gioco dei partiti a postulare una «utilità»: quando una utilità incorruttibile si è attuata proprio nel martirio, nella scelta della morte, nell’esemplarità del sacrificio – e fuori dunque dalle circostanze determinanti. Contro la tesi retorico-patriottica dei democristiani si trova una tesi dialettica dei comunisti (che preferiscono però passare sotto silenzio la questione) ugualmente inaccettabile. Essi, così almeno suppongo, sono convinti che il nazionalista osovano Bolla fosse da eliminarsi e con lui i suoi «innocenti» compagni, e credono con maggiore o minore sincerità, che il fatto rientri nella necessità implacabile della storia del partito. Ma esiste un’altra necessità implacabile, un’altra storia, la quale pretende che gli «errori siano pagati», e non c’è dialettica che si opponga al corso naturale della giustizia.
I miei compagni comunisti farebbero bene, io credo, ad accettare la responsabilità, a prepararsi a scontare, dato che questo è l’unico modo per cancellare quella macchia rossa di sangue che è ben visibile sul rosso della loro bandiera.
Ma mi perdoni, signor direttore, se mi sono lasciato così trascinare dai miei argomenti, ma soltanto ciò che è chiarito e risolto si presta a un discorso sereno; al contrario, nel fatto di Porzûs nulla è ancora «chiarito e risolto» e io non posso parlargliene che con passione… Quante volte ho pensato all’inaccettabilità dell’ingiustizia che pesa sulla morte del partigiano Ermes, mio fratello, quanto sia inconciliabile la sua persona con la sua morte! Basti pensare che l’8 settembre egli era già nel campo d’aviazione di Casarsa a rischiare la vita per portar via via armi ai nazifascisti, e da allora non passò giorno che egli non dedicasse, con la purezza e la bontà del diciottenne, tutto se stesso alla causa della Resistenza. Portava giornali e manifestini da Pordenone, dove studiava, a Casarsa e li spargeva per il paese durante il coprifuoco; continuava ad andare a rubare armi nelle caserme; faceva propaganda con un entusiasmo che era quasi imprudenza. E tutto questo in seno al Pci. La sua maturazione politica aveva bruciato le tappe: dalla turpe ignoranza in cui il fascismo immergeva i suoi giovani-fantocci egli era passato, senza crisi, quasi con la purezza di un fatto naturale, alla luce dell’idea politica a cui la sua generosità senza riserve lo richiamava necessariamente.
Partì poi per Pielungo, per Savorgnano al Torre, per Musi: un anno epico. So di lui imprese di un ardire commovente. Nel gennaio del ’45 era con Bolla e Enea a Porzûs, dove gli osovani si stavano riorganizzando dopo il disastroso rastrellamento del novembre. Frattanto Guido si era iscritto al Partito d’Azione. Il giorno in cui Bolla e Enea furono ammazzati egli si trovava a Musi con l’amico D’Orlandi per non so che missione; e stavano insieme tornando verso Porzûs. Ed ecco che alcuni loro compagni (i quali, dislocati in una malga sottostante, si erano accorti del tradimento e si stavano ritirando), avvisarono i due ragazzi del pericolo. Ma essi non vollero saperne di tornare sui loro passi, e anzi si slanciarono di corsa verso Porzûs per portare aiuto agli amici!… Spesso penso al tratto di strada tra Musi e Porzûs percorso da mio fratello in quel giorno tremendo; e la mia immaginazione è fatta radiosa da non so che candore ardente di nevi, da che purezza del cielo. E la persona di Guido è così viva… Vedo in lui tutta la storia della nostra esistenza familiare, la nostra educazione, gli ideali alla cui luce si viveva quasi disumanamente, senza cioè quegli egoismi e quelle distrazioni, magari invidiabili, che rendevano i nostri compagni diversi da noi. Noi avevamo sempre rivolto il pensiero a non so che imprese eroiche e generose, i nostri giochi erano sempre crudelmente interessati al realizzarsi di una fantasia ossessionata dal Buono e dal Cattivo. Ma ora mi accorgo quanto la natura di Guido fosse sincera e intatta, e quanto assolutamente egli egli credesse alla verità della nostra storia familiare e alla certezza dei nostri ideali. Vedendolo camminare da Musi a Porzûs, verso una morte che egli avrebbe scelta per essere fedele a una vita così breve ma così creduta, qualche volta mi sembra di non resistere all’angoscia, e mi sembra che per lui sua madre, i suoi libri, i suoi divertimenti debbano avere più valore di qualsiasi cosa al mondo; e allora lo chiamo perché torni indietro verso Musi: «Guido!» lo chiamo. Ma Ermes continua a camminare dritto, sicuro, senza pentimenti.
Guido Alberto Pasolini |
Deposizione di Pier Paolo Pasolini al processo per Porzûs (Brescia, 14 gennaio 1950)
Corte d’Assise di Brescia. Procedimento penale contro Toffanin Mario + 45, imputati di omicidio continuato ed aggravato e saccheggio. Verbale di dibattimento 3841/50 (10 gennaio 1950)Introdotto il testimone Pasolini Carlo [in realtà Pier Paolo] e, previa ammonizione in conformità dell’art. 142 del cod. proc. Pen., gli viene deferito il giuramento leggendogli la formula «Consapevole della responsabilità che col giuramento assumete davanti a Dio e agli uomini, giurate di dire tutta la verità e null’altro che la verità».
Il testimone, stando in piedi, a capo scoperto, ripete le parole «Lo giuro». Interrogato sulle generalità, risponde: Sono Pasolini Pier Paolo di Carlo anni 27, Bologna, res. Casarsa, parte lesa.
Interrogato in merito alla causa, risponde: Sulla fine di mio fratello non posso dire niente. Mio fratello in quel periodo era a Pielungo e vagò per la Carnia combattendo con i tedeschi.
Verso natale ’44 abbiamo avuto una lunga lettera.
Due o tre giorni dopo la Liberazione seppi la cosa molto vagamente.
Il fatto di Porzûs lo seppi vagamente dopo i primi giorni della liberazione.
Il Presidente dà lettura della lettera della quale è copia agli atti.
La lettera da lei letta è conforme a quella che ho in possesso.
Non ho particolari domande da fare.
Riconosco mio fratello nella fotografia n. 9.
(Archivio IFSML, Fondo Processo Porzûs.
Documenti in copia da archivi e Tribunali.
Busta 1, fascicolo 1)
Porzûs, partigiani Ossopo |
Deposizioni di Carlo e Pier Paolo Pasolini, “parti offese” al processo per Porzûs (Lucca, 26 settembre 1951)
Fattosi entrare in udienza il testimone Pasolini Carlo il Presidente previa ammonizione ai sensi dell’art. 142 C.P.P. dell’importanza morale del giuramento, del vincolo religioso che esso contrae dinanzi a Dio e delle pene stabilite contro i colpevoli di falsità in giudizio, gli legge la formula “Consapevole della responsabilità che col giuramento assumete dinanzi a Dio ed agli uomini giurate di dire tutta la verità null’altro che la verità”.Il testimone stando in piedi ed a capo scoperto, pronuncia le parole “lo giuro”. Richiesto delle sue generalità risponde: Sono e mi chiamo Pasolini Carlo fu Argobasto, come in atti qualificato. Sono il padre di Pasolini Guido “Ermes”.
Domanda: Avete l’originale della lettera scritta da vostro figlio?
Risp.: Sissignore. La esibisco a V.S.
Il teste esibisce alla Corte l’originale della lettera richiesta, della quale viene data lettura.
La Corte, ritenuta la necessità di avere in atti copia autentica del documento esibito dal teste, che ne chiede la restituzione, ordina alla Cancelleria di provvedere a che ne venga rilasciata copia autentica che – nessuna obiezione essendo mossa né dal P.M. Né dalle parti private – a mente dell’art. 457 C.P.P., dovrà essere alligata agli atti processuali.
Domanda: Sapete niente del fatto?
Risp.: Nossignore, non so niente. Mio figlio Guido era studente liceale, e poiché doveva presentarsi sotto le armi quale ufficiale della Repubblica di Salò preferì andare in montagna.
Dom.: Quanti figli avete?
Risp: Mi è rimasto un figlio. L’altro dovrà rispondere dinanzi a questa Corte. Debbo dire che ho avuto occasione di vedere Giovanni Padoan con una decorazione sul petto sulla quale era un nastro rosso, e non era una decorazione italiana. Confermo quanto ho dichiarato al Giudice Istruttore e chiedo che sia fatta giustizia.
Guido Alberto Pasolini |
Esame di Pasolini Pier Paolo
[…]Sono e mi chiamo: Pasolini Pier Paolo di Carlo, già qualificato in atti.
Domanda: Sapete niente del fatto?
Risposta: No, sul fatto non so nulla, perché all’epoca del fatto mi trovavo a Casarsa. Posso dire solo che mio fratello scelse volontariamente la strada della montagna per non arruolarsi nella repubblica di Salò
Domanda: Nella lettera scrittavi da vostro fratello, questi vi pregava di scrivere qualcosa su ciò che egli vi faceva presente. Voi scriveste quegli articoli?
Risposta: Nossignore. Non ho mai scritto articoli del genere.
Domanda: Confermate la vostra precedente deposizione?
Risposta: Sissignore, la confermo, e chiedo che i colpevoli siano puniti.
(Archivio IFSML, Fondo Porzûs,
Atti in copia da Tribunali,
Busta 3, fascicolo 12)
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