"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Introduzione
Rileggere Lettere Luterane oggi complica mortalmente ogni rapporto con la parola speranza. E da qui le parole di Pasolini in una sua poesia:
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
(Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, 1961)
Pasolini ha sempre attuato nel suo lavoro intellettuale, soprattutto di analisi critica, un percorso di strategia comunicativa e di espressione che muoveva da una forte motivazione che gli era suscitata dalla realtà. Il nucleo di ogni problematica esaminata veniva subito focalizzato e posto in relazione con una rete di argomenti che ruotavano secondo cerchi concentrici, ma che alla fine riconducevano con stretto rigore logico alla tesi introduttiva.
Tutti i suoi interventi pubblici e gli articoli sul "Corriere della sera" e sul "Mondo" sono in realtà dei teoremi, in cui è praticamente impossibile non ravvisare l'ipotesi alla base dell'impianto razionale, seguita ad un'osservazione diretta della realtà, svolta sul campo, i cui dati sono raccolti con meticolosità senza risparmio di constatazioni personali, che venivano sorrette da puntuale documentazione. Le conclusioni dei suoi articoli risultano lo specchio fedele delle tesi annunciate ed esposte ampiamente nelle parti iniziali. Ma Pasolini è uno scrittore e poeta, oltre che regista cinematografico, pertanto non può circoscrivere le sue analisi nel solo ambito giornalistico: non è un caso infatti che, quando affrontiamo una tematica, i rimandi a tutta l'arte di Pasolini si fanno più fitti e densi di significati, veicolati dalla molteplicità di segni che devono essere decodificati per essere ricondotti ad una visione d'insieme, che non è mai esaustiva, ma apre a nuovi orizzonti di conoscenza e comprensione. Per tali motivi, Pasolini può essere ritenuto uno sperimentatore di metodo, le cui fasi, soprattutto sono disposte ad ogni possibile cambiamento e rimodulazione a seconda delle esigenze e comunicative dell'Autore, sempre in costante rapporto diretto con la materia spesso magmatica della realtà analizzata. Pasolini non si chiude mai un recinto, è disposto a cambiare, ad "abiurare", a riconsiderare, non fossilizzandosi mai in preconcetti stabiliti una volta per tutte. Vede il mondo in un divenire inesorabile verso la fine della sua Storia con la fase neo-capitalistica, che oggi sperimentiamo con il potere neo-liberista e finanziario, con tutte le sue implicazioni concernenti i rapporti di classe, che sicuramente il Poeta avrebbe seguito con il consueto studio analitico e con continui rimandi alla pluralità dei linguaggi dei quali è intessuta l'intera sua opera.
Una dichiarazione di metodo fa da "nota introduttiva" agli "Scritti Corsari" ed è lo stesso Pasolini che fornisce le chiavi di lettura del suo lavoro che è, a mio avviso, un vero e proprio ordito in cui si intrecciano tutti i contributi del suo pensiero creativo e visionario, estremamente attuale.
" La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un'opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze ( ossia ricerche o ipotesi abbandonate ). È lui che deve sostituire le ripetizioni con le eventuali varianti ( o altrimenti accepire le ripetizioni come delle appassionate anafore ).
Ci sono davanti a lui due serie di scritti, le cui date, incolonnate, più o meno corrispondono: una serie di scritti primi, e una più umile serie di scritti integrativi, corroboranti, documentari. L'occhio deve evidentemente correre dall'una all'altra serie.
Mai mi è capitato nei miei libri, più che in questo di scritti giornalistici, di pretendere dal lettore un così necessario fervore filologico. Il fervore meno diffuso del momento. Naturalmente, il lettore è rimandato anche altrove che alle serie di scritti contenuti nel libro. Per esempio, ai testi degli interlocutori con cui polemizzo o a cui con tanta ostinazione replico o rispondo. Inoltre, all'opera che il lettore deve ricostruire, mancano del tutto dei materiali, che sono peraltro fondamentali. Mi riferisco soprattutto a un gruppo di poesie italo-friulane. Circa nel periodo che comprende, nella prima serie, l'articolo sul discorso dei blue-jeans Jesus (17-5-1973) e quello sul mutamento antropologico degli italiani ( 10 -6-1974), e, nella serie parallela, la recensione a 'Un po' di febbre ' di Sandro Penna ( 10-6-1973 ), e quella a 'Io faccio il poeta' di Ignazio Buttitta ( 11-1-1974) - è uscito sul Paese Sera ( 5-1-1974 ) - seguendo una nuova mia tradizione appunto italo-friulana, inaugurata sulla Stampa ( 16- 12- 1973) - un certo gruppo di testi poetici che costituiscono un nesso essenziale non solo tra le due serie ma anche all'interno della stessa serie prima, cioè del discorso più attualistico di questo libro. Non potevo raccogliere qui quei versi, che non sono corsari ( o lo sono molto di più ). Dunque il lettore è rimandato ad essi, sia nelle sedi già citate, sia nella nuova sede in cui hanno trovato collocazione definitiva, ossia 'La nuova gioventù' )Einaudi Editore, 1975)".
Spunti di riflessione
[...]perché le passioni sono senza soluzioni e senza alternative...
«Dov'è questa rivoluzione antropologica di cui tanto scrivo per gente tanto consumata nell'arte di ignorare?» E mi rispondo: «Eccola». Infatti la folla intorno a me, anziché essere la folla plebea e dialettale di dieci anni fa, assolutamente popolare, è una folla infimo-borghese, che sa di esserlo, che vuole esserlo. Dieci anni fa amavo questa folla; oggi essa mi disgusta. E mi disgustano soprattutto i giovani (con un dolore e una partecipazione che finiscono poi col vanificare il disgusto): questi giovani imbecilli e presuntuosi, convinti di essere sazi di tutto ciò che la nuova società offre loro: anzi, di essere, di ciò, esempi quasi venerabili. E io sono qui, solo, inerme, gettato in mezzo a questa folla, irreparabilmente mescolato ad essa, alla sua vita che mostra tutta la sua «qualità» come in un laboratorio. Niente mi ripara, niente mi difende. Io stesso ho scelto questa situazione esistenziale tanti anni fa, nell'epoca precedente a questa, ed ora mi ci trovo per inerzia: perché le passioni sono senza soluzioni e senza alternative.
Fuori dal palazzo
Lettere luterane «Corriere della Sera»,
24 luglio 1975.
È un Pasolini polemico e affranto quello che descrive lo sconvolgimento avvenuto nel Paese nell’arco di dieci anni, ...siamo nel 1975.
Un Pasolini che puntando il dito contro il Potere:
[...]dentro il Palazzo» per poterlo fare – si muovono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari. In quanto potenti essi sono già morti, perché ciò che «faceva» la loro potenza – ossia un certo modo di essere del popolo italiano - non c'è più: il loro vivere è dunque un sussultare burattinesco.[...]
... E naturalmente, di quanto accade «dentro il Palazzo», ciò che veramente importa è la vita dei più potenti, di coloro che stanno ai vertici. Essere «seri» significa, pare, occuparsi di loro. Dei loro intrighi, delle loro alleanze, delle loro congiure, delle loro fortune; e, infine, anche, del loro modo di interpretare la realtà che sta «fuori dal Palazzo»: questa seccante realtà da cui infine tutto dipende, anche se è così poco elegante e, appunto, cosi poco «serio» occuparsene.
Fuori dal palazzo
Lettere luterane «Corriere della Sera»,
24 luglio 1975.
avverte la diacronia esistente tra il popolo che appartiene alla "cronaca" e chi abita il Palazzo che ha cinicamente proiettato il Paese verso lo sviluppo, un falso progressismo che sta producendo gli effetti più devastanti sulla massa di giovani.
[...]con un'ironia imbecille negli occhi, un'aria stupidamente sazia, un teppismo offensivo e afasico – quando non un dolore e un'apprensività quasi da educande, con cui vivono la reale intolleranza di questi anni di tolleranza...
Fuori dal palazzo
Lettere luterane «Corriere della Sera»,
24 luglio 1975.
Infiniti sono gli spunti di riflessione che emergono da questa lucida visione della realtà, un appello accorato per uscire dallo stagno della sua interpretazione mistificata, in nome della Cultura e dell’agire, come quel padre che, avendo a cuore il bene del figlio, si qualifica non "nel capire" ma nell’"agire" dicendo la verità sul loro conto.
14 novembre 1974
Io so.
-Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
-Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
-Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
-Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
-Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
-Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
-Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
-Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
-Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
-Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
-Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere.
Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti.
Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
[...]
(P.P.Pasolini, sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974)
Pasolini dice di sapere fatti, motivazioni, intrecci, nomi degli esecutori e dei mandanti e non lo dice in forma confidenziale ad un amico o in modo vago e tra le righe, come può essere una semplice supposizione, Pasolini lo dice dalle pagine di uno dei maggiori quotidiani del tempo, in modo chiaro e diretto, e lo fa indirizzando le sue affermazioni non solo ai suoi lettori, ma anche a chi sa come lui e forse sa anche più di lui, ma tace. Un tentativo, questo suo, di smuovere coscienze.
E a quale progetto di romanzo si riferisce Pasolini, se non al volume a cui sta lavorando dal 1972, Petrolio, e del quale da ampiamente notizia in un articolo rilasciato alla giornalista Luisella Re, pubblicata su Stampa Sera del 9 gennaio 1975?
(« Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però: basti sapere che è una specie di "summa" di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie. »)
Quindi, per Pasolini quest'articolo serve ad anticipare i contenuti del suo progetto di romanzo? E non solo, è anche il tentativo di informare chi sa ma non ha il coraggio di dire, che lui ha il necessario coraggio per farlo? Ma chi può sapere e non può parlare liberamente perchè compromesso con il potere e quindi ha qualcosa da perdere? Un invito, dunque, una richiesta di ulteriori e più dettagliate informazioni per realizzare il suo progetto di romanzo, magari fatte pervenire in forma anonima, senza farsi scoprire? Peccato che Petrolio sia stato pubblicato postumo 17 anni dopo la morte del Poeta, incompleto sia nella sua realizzazione che in quella che doveva essere la sua forza e la sua capacità di impatto sull'opinione pubblica del tempo - e non si sa quanto incompleto e di cosa incompleto: si parla solo di un capitolo mancante.
Un vero e proprio "Attacco al Potere" che Pasolini pensa di sferrare con tutti i mezzi che ha a disposizione e che di volta in volta intende utilizzare a tal fine: attraverso la narrativa, le pagine dei giornali, attraverso il cinema ecc.... Pasolini invita chi sa ma non può parlare, perchè compromesso con il potere, a utilizzare lui per farlo e lo fa in modo molto esplicito, dicendo che lui non ha niente da perdere. In Pasolini c'è la speranza che un popolo, quello italiano, se sa, può ancora indignarsi e reagire. Pasolini trova la morte all'idroscalo di Ostia, barbaramente massacrato, la notte tra l'1 e il 2 novembre 1975, 12 mesi dopo quest'articolo. Le indagini e i processi che ne derivano, sono l'esempio della capacità del potere di insabbiare, depistare e negare la verità, tipica di quegli anni (e non solo). Ma chi poteva volere la morte del Poeta? I vertici che hanno manovrato, come lui dice sopra, gli esecutori materiali o altri? Forse si tratta solo di coincidenze casuali?
MOTIVAZIONI
Sviluppo e Progresso
Indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell‘esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. (Pier Paolo Pasolini - Lettere luterane)
Ecco le ragioni dello sfacelo dell’Italia secondo Pasolini, scritte sulle colonne del "Corriere della Sera" nell’estate del ’75, puntualmente e ossessivamente ripetute, sì da ritenersi un vero e proprio atto d’accusa contro la classe politica di allora, nella fattispecie la Democrazia Cristiana, che si stava preparando ad un altro vuoto di potere, consapevole che l’attuale, frutto del binomio Chiesa DC, si era totalmente esaurito, soppiantato da quello Economico, diverso, perverso ma pur sempre vuoto e dalle infinite configurazioni possibili.
Il suo Processo, non soltanto metaforico, ispirato a quello kafkiano, coinvolgeva i maggiori notabili della DC da Andreotti a Fanfani, Zaccagnini Gava...morti viventi, colpevoli di quel vuoto che avvalendosi del boom economico scoppiato dentro e fuori i confini, sull’onda di spinte transnazionali, andavano imponendo un nuovo regime, quello del Potere consumistico, aprendo il varco a quel processo di corruzione delle coscienze con l’imposizione di modelli e stili estranei alla nostra cultura. Non sapeva allora Pasolini che il Processo da lui ideato e vagheggiato si sarebbe realizzato veramente da lì a poco, tra terrorismo e stragi ma non sapeva neppure che forse gli italiani non erano così preoccupati e né consapevoli di quello che realmente era avvenuto prima e avveniva ora, presi dal godimento a "piene mani" di quello che ritenevano il "vero miracolo", quella cultura massmediologica che attraverso le televisioni commerciali si sarebbe consolidata proprio grazie al Processo, imponendo un altro tipo di dittatura consumistica ancora più strisciante, subdola, imbonitrice targata Berlusconi, che avrebbe sedotto l’Italia per oltre vent’anni.
A quella dichiarazione d’intenti fece seguire il 14 settembre una lettera alla "Stampa" rispondendo a quel e poi? provocatorio con una chiarificazione particolareggiata dei capi d’accusa che la roboante anafora I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere li contiene tutti, a partire dall’uso e lo sperpero fatto con i soldi dei cittadini ai disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, dalla divisione sempre più netta tra nord e sud all’opera di diseducazione perpetrata attraverso la televisione e la scuola...
Insiste sulla responsabilità di chi si è assunto l’onere di traghettare l’Italia verso il benessere conducendola alla distruttività per alimentare la propria cupidigia e sete di potere e questa responsabilità l’individua principalmente nella classe dirigente al comando, la DC che non ha saputo e voluto individuare la nuova cultura della produzione emergente ma conclude che se tutto è fermo e immobile come in un "cimitero" c’è una ragione ancora più inquietante, la paura dell’altro Potere, quello indiscusso della Magistratura e del suo colore politico.
I vari intellettuali dell’epoca, soprattutto quelli di sinistra stentarono a capire la sua posizione in merito a fascismo e antifascismo tanto da essere sfiorati più volte dal dubbio che lo scrittore in realtà fosse vicino alla destra. Emblematico l’episodio di "Villa Giulia" da cui scaturì una poesia che non piacque alla sinistra disorientata dalla difesa di Pasolini in favore dei poliziotti invece che degli studenti, in netta contraddizione con quello che fu il suo credo di sempre.
Gli scritti diretti a Calvino, Petruccioli, Zanetti, Branca che aveva invitato ad intervenire su quanto andava dicendo rimasero inascoltati ma in una lettera a Calvino non nascose il rammarico per il suo "silenzio" o il dire senza spiegare, cosa che per lui era inammissibile dato il bisogno di "gettare il suo corpo nella lotta"
Perciò io vorrei soltanto vivere
pur essendo poeta
perché la vita si esprime anche solo con se' stessa.
Vorrei esprimermi con gli esempi.
Gettare il mio corpo nella lotta.
Ma se le azioni della vita sono espressive,
anche l'espressione è azione.
La sua visione sulla matrice delinquenziale di stampo borghese o popolare, senza distinzioni e uguale a Milano, come a Roma e in qualsiasi altra città del suolo italico lo allontanavano dalle deduzioni opposte di Calvino, interessato alla criminalità di stampo borghese, spunto fornitogli dal delitto del Circeo, come fosse un fenomeno raro da analizzare slegato dalla radice del male che Pasolini individuava nel genocidio del passato, nella nuova cultura della produzione che in mano alle categorie privilegiate borghesi diventava un modello da spalmare e imporre con la forza della superiorità economica, una colonizzazione a tutti gli effetti.
Si sentiva solo Pasolini, disperatamente solo quando doveva replicare non soltanto ai suoi nemici e detrattori ma a quelli che riteneva suoi simili, che spesso cercarono di metterlo in difficoltà per le sue apparenti contraddizioni ma le sue erano le contraddizioni dell’uomo libero, persino disarmante nel suo essere fuori da ogni recinto. La morte del fratello partigiano per mano dei suoi stessi compagni avrebbe dovuto allontanarlo dal PC invece lo rinsaldò nella fede comunista ma aveva una vera e propria idiosincrasia per tutto ciò che riguardava l’ordine precostituito, il potere fintamente democratico e tollerante di una DC ipocrita e servile. A differenza dei suoi amici intellettuali, Bocca, Moravia, Calvino per i quali il fascismo si era trasformato nei tanti volti del terrorismo nero, Pasolini seguiva una sua personalissima pista ed era sempre ed unicamente quella della DC perché secondo lui il vero fascismo risiedeva nel Palazzo e vestiva i panni di una deflagrante strisciante "modernizzazione" una vera e propria dittatura di pensiero che spazzò via l’anima del popolo per trasformarlo in una massa omologata, dando il via a quella che lui definì mutazione antropologica.
Pasolini era consapevole del fatto che lo sgomento e l’orrore che provava nei confronti del presente era estremo, eccessivo, si sentiva condannato all’incomprensione, ed era anche consapevole che la realtà che lui vedeva e interpretava era diversa da quella di qualsiasi sociologo avveduto. Nessuno si era accorto che le "lucciole erano scomparse" una potente metafora per affermare l’immane tragedia che aveva trasformato gli esseri umani in macchine che sbattevano impazzite l’una contro l’altra. Non era quindi nostalgia del "passato" come gli veniva imputato da più parti ma visione di una cultura possibile, non da recuperare. Lo sfrenato edonismo che stava caratterizzando e livellando la società, l’aveva in realtà imbarbarita e impoverita instaurando la morte del desiderio.
" [...] Altre mode, altri idoli,
la massa, non il popolo, la massa
decisa a farsi corrompere
al mondo ora si affaccia,
e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video
si abbevera, orda pura che irrompe
con pura avidità, informe
desiderio di partecipare alla festa.
E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole.
Muta il il senso delle parole:
chi finora ha parlato, con speranza, resta
indietro, invecchiato.
Non serve, per ringiovanire, questo
offeso angosciarsi, questo disperato
arrendersi! Chi non parla è dimenticato" [...]
Da "Il Glicine" - La religione del mio tempo - 1961
Ma Perchè il Processo?
Qual era secondo Pasolini la principale colpa della DC?
[...]che senso ha pretendere o sperare qualcosa da parte dei democristiani? O addirittura chiedere loro qualcosa?
Non si può non solo governare, ma nemmeno amministrare senza dei principi. E il partito democristiano non ha mai avuto dei principi. Li ha identificati, e brutalmente, con quelli morali e religiosi della Chiesa in grazia della quale deteneva il potere. Una massa ignorante (e lo dico col più grande amore per questa massa) e una oligarchia di volgari demagoghi dalla fame insaziabile, non possono costituire un partito con un’anima. Ciò l’abbiamo sempre saputo, e l’abbiamo anche sempre detto: ma non l’abbiamo saputo e detto fino in fondo: per una ragione molto semplice: perché la Chiesa cattolica era una realtà, e la maggioranza degli italiani erano cattolici. […]
Dalle sue parole si evince che le responsabilità sono più morali che penali perché il Processo renderebbe chiaro – folgorante, definitivo – che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere, bensì in relazione al nuovo potere.
Per esempio: i beni superflui in quantità enorme, ecco qualcosa di assolutamente nuovo rispetto a tutta la storia italiana, fatta di puro pane e miseria. Aver governato male significa dunque non aver saputo far sì che i beni superflui fossero un fatto (come oggettivamente dovrebbe essere) positivo: ma che, al contrario, fossero un fatto corruttore, di selvaggia distruzione di valori, di deterioramento antropologico, ecologico, civile.
Altro esempio: la democratizzazione derivante dal consumo estremamente esteso dei beni (compresi, perché no?, i beni superflui), ecco un’altra grande novità. Ebbene, l’aver governato male significa non aver fatto sì che tale democratizzazione fosse reale, viva: ma che, al contrario, fosse un orribile appiattimento o un decentramento puramente enfatico (gestito in genere da illusi progressisti.
Nasce tutto da un grande equivoco, l’aver confuso, o meglio voluto confondere deliberatamente il termine progresso con sviluppo, cercando di fonderli insieme per dare ad entrambi la stessa legittimità e valore pur essendo due fenomeni diversi che solo apparentemente coincidono e pur essendo usati indifferentemente, quali fossero sinonimi, appartengono a scelte politiche diametralmente opposte, da lui contestualizzate con acume e ragionamenti ineccepibili in "Scritti corsari" in cui sviscera tutte le contraddizioni, le differenze, gli effetti e le conseguenze di uno sviluppo selvaggio a scapito del progresso che il neocapitalismo ha ridotto a mera nozione ideale svuotandolo di significato.
Un fenomeno allarmante mai come oggi evidente osservando l’enorme massa globalizzata che servendosi di strumenti e mezzi altamente tecnologizzati va ad incrementare lo sviluppo senza che vi sia alcuna progressione culturale, sociale ed economica.
Autore:
Loretta Fusco
Una freccia proiettata con la forza della ragione verso il futuro
"Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato".
Con "Cos'è questo golpe" Pasolini denunciava analizzando il suo ruolo di intellettuale: sapeva i nomi dei responsabili del disastro politico in Italia, compresi i tentativi dei colpi di Stato e dei golpe falliti. Si trattava di fornire le prove.
Tutto doveva cominciare da un processo ai gerarchi Dc , fidando nell'unica isola che poteva non essere compromessa con il potere, il Pci , per innestare l'implosione di un sistema corrotto. Gli interventi risultano serrati, animati da una cifra di urgenza e di inevitabilità.
Occorreva evitare ogni surrettizio passaggio da un sistema ad un altro camuffato di nuovo al di là dei tentativi onesti di alcuni politici come Moro e Berlinguer, che preparavano il compromesso storico che in realtà non piaceva alle sfere più oscure del potere che lo rivisiteranno per generare definitivamente il mostro neo-liberista e un regime repressivo, falsamente tollerante dell'edonismo consumistico. Dopo la morte di Moro, solo Berlinguer sollevò la questione morale, ma una morte prematura fermò la sua azione politica. La famiglia di Moro non volle aver più a che fare con i vertici Dc.
Pasolini già abbondantemente in anticipo metteva in evidenza le piste stragiste, una in chiave anticomunista e l'altra in chiave antifascista.
Il Poeta stava lavorando ad un romanzo, anti/romanzo in cui forniva le prove dell'apparato del nuovo potere economico il cui impero risaliva all'indomani della Resistenza, con oscure trame sovranazionali di assetto post - bellico.
Il ciclo eschileo di Pasolini ( soprattutto Pilade e Appunti per un'Orestiade africana ) racconta molto della sua utopia politica che non rimaneva solo sostanza letteraria, ma azione di lotta democratica e radicalmente nuova per il nostro Paese. Pasolini è stata una freccia proiettata con la forza della ragione verso il futuro: piaccia o no ai suoi assassini.
Pasolini 5 ottobre 1975
Lettera a Gianni Scalia.
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Curatore, Bruno Esposito
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