"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
« Corriere », 24 agosto 1975.
Il Processo
Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Einaudi, Torino, 1ª ed. 1976 - 1977.
Le Lettere luterane sono una raccolta di articoli che Pier Paolo Pasolini pubblicò sulle colonne del quotidiano Corriere della Sera e del settimanale Il Mondo nell'ultimo anno della sua vita, raccolte in volume l'anno successivo con il sottotitolo di Il progresso come falso progresso. Vi sono raccolti editoriali e interventi scritti tra l'inizio del 1975 e gli ultimi giorni di ottobre di quell'anno. I temi affrontati sono quelli dell'estraneità dei giovani, del conformismo, della televisione, del progresso e della politica in Italia.
Il Processo
Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Einaudi, Torino, 1ª ed. 1976 - 1977.
Le Lettere luterane sono una raccolta di articoli che Pier Paolo Pasolini pubblicò sulle colonne del quotidiano Corriere della Sera e del settimanale Il Mondo nell'ultimo anno della sua vita, raccolte in volume l'anno successivo con il sottotitolo di Il progresso come falso progresso. Vi sono raccolti editoriali e interventi scritti tra l'inizio del 1975 e gli ultimi giorni di ottobre di quell'anno. I temi affrontati sono quelli dell'estraneità dei giovani, del conformismo, della televisione, del progresso e della politica in Italia.
Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell'abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell'esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei massmedia, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. Ecco l'elenco (cfr. «Il Mondo»), l'elenco «morale», dei reati commessi da coloro che hanno governato l'Italia negli ultimi trent'anni, e specie negli ultimi dieci: reati che dovrebbero trascinare almeno una dozzina di potenti democristiani sul banco degli imputati, in un regolare processo penale, simile, per la precisione, a quello celebrato contro Papadopulos e gli altri Colonnelli.
Perché insisto sempre a ripetere «specie negli ultimi dieci anni»?
Perché è appunto negli ultimi dieci anni che un modo di governare non solo tipico ma, direi, naturale, di tutta la storia italiana dall'unità in poi, si è configurato come un reato o come una serie di reati. Non faccio qui, dunque, questione di moralità: la colpevolezza dei potenti democristiani da trascinare sul banco degli imputati non consiste nella loro immoralità (che c'è), ma consiste in un errore di interpretazione politica nel giudicare se stessi e il potere di cui si erano messi al servizio: errore di interpretazione politica che ha avuto appunto conseguenze disastrose nella vita del nostro paese.
Sono solo, in mezzo alla campagna: in una solitudine reale, scelta come un bene. Qui non ho niente da perdere (e perciò posso dire tutto), ma non ho neanche niente da guadagnare (e perciò posso dire tutto a maggior ragione). Si interpreti come si vuole questa mia sete di solitudine, fino magari a ricordare le supposizioni di Elias Canetti (la solitudine è la condizione tipica dei tiranni): ma pregherei di non fare illazioni su un accorgimento retorico a cui reputo necessario ricorrere a questo punto.
L'immagine di Andreotti o Fanfani, di Gava o Restivo, ammanettati tra i carabinieri, sia un'immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora. Al fine di rendere il mio discorso comico oltre che sublime (come ogni monologo! ), e soprattutto didascalicamente molto più chiaro. Cosa verrebbe rivelato alla coscienza dei cittadini italiani da tale Processo (oltre, si intende, alla fondatezza dei reati più sopra enunciati secondo una terminologia etica se non giuridica)?
Verrebbe rivelato ai cittadini italiani qualcosa di essenziale per la loro esistenza, cioè questo: i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma di potere che essi avevano servilmente servito nei vent'anni precedenti (traendone peraltro tutti i possibili profitti) e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che cosa farsene di loro.
Questa «millenaristica» verità è dunque essenziale per capire (al di là del Processo e delle sue condanne penali) che è finita l'epoca, appunto millenaria, di un «certo» potere ed è cominciata l'epoca di un certo «altro» potere. Ma soltanto un Processo potrebbe dare a questa astratta affermazione i caratteri di una verità storica inconfutabile, tale da determinare nel paese una nuova volontà politica.
Una volta condannati i nostri potenti democristiani (alla fucilazione, all'ergastolo, all'ammenda di una lira, cosa di cui qualsiasi cittadino infine si accontenterebbe) ogni confusione dovuta a una falsa e artificiale continuità del potere democristiano verrebbe vanificata. L'interruzione drammatica di tale continuità renderebbe al contrario chiaro a tutti non solo che un gruppo di corrotti, di inetti, di incapaci è stato democraticamente tolto di mezzo, ma soprattutto (ripeto) che un'epoca è finita e ne deve cominciare un'altra. Se invece questi potenti resteranno ai loro posti di potere – magari scambiandoseli un'ennesima volta –, se cioè la De, e con essa, quindi, il paese, opteranno per la continuità, più o meno drammatizzata, non sarà mai chiaro, per esempio, il fatto che gli italiani oggi sono laici almeno nella misura in cui fino a ieri erano cattolici, oppure che i valori dello sviluppo economico hanno dissolto tutti i possibili valori delle economie precedenti (insieme a quelli specificatamente ideologici e religiosi), oppure ancora che il nuovo potere ha bisogno di un nuovo tipo di uomo.
Ora (o almeno così sembra a un intellettuale solo in mezzo a un bosco) gli osservatori politici italiani insistono colpevolmente a optare, in fondo, per la continuità democristiana: per adesso anche i comunisti.
Gli osservatori borghesi indicano settorialmente, nel campo economico (e non dell'economia politica!!), le possibili soluzioni di quella che essi chiamano crisi ; gli osservatori comunisti - insieme a tale indicazione, naturalmente più radicale e pur accettando come buone le intenzioni dei democristiani demandati alla continuità – lamentano il persistente anticomunismo.
Ma che senso ha pretendere o sperare qualcosa da parte dei democristiani?
O addirittura chiedere loro qualcosa?
Non si può non solo governare, ma nemmeno amministrare senza dei principi. E il partito democristiano non ha mai avuto dei principi. Li ha identificati, e brutalmente, con quelli morali e religiosi della Chiesa in grazia della quale deteneva il potere. Una massa ignorante (e lo dico col più grande amore per questa massa) e una oligarchia di volgari demagoghi dalla fame insaziabile, non possono costituire un partito con un'anima. Ciò l'abbiamo sempre saputo, e l'abbiamo anche sempre detto: ma non l'abbiamo saputo e detto fino in fondo: per una ragione molto semplice:
perché la Chiesa cattolica era una realtà, e la maggioranza degli italiani erano cattolici.
E, per quanto inarticolato, questo era un argomento, che poteva celare anche verità migliori di quelle, repellenti, fatte proprie dai potenti democristiani: per esempio la cultura religiosa (in senso antropologico) delle masse popolari, o una possibile Chiesa rivangelizzata, ecc.
Ma ora questo argomento storico è caduto, perché è caduta la sua realtà. Quel «nulla ideologico mafioso» che è la Dc col suo interclassismo classico, non si fonda più su nulla (se non sulle rovine di un mondo che va rapidamente disfacendosi).
Se dunque tutto ciò è vero, quelle di Zaccagnini e degli altri «galantuomini della continuità», non sono che parole, e cioè parole ipocrite.
Torniamo dunque al nostro Processo (metaforico): ma stavolta in relazione e in funzione della politica del Pci ( o di un Psi ipoteticamente rinnovato da una sua «rivoluzione culturale»), che è l'unica che importa. Se, invece di fingere di accontentarsi delle parole dei «galantuomini della continuità», i comunisti e i socialisti decidessero di spezzare tale continuità intentando un Processo penale a Andreotti e a Fanfani, a Gava e a Restivo, ecc. ecc, che cosa metterebbero in chiaro una volta per sempre di fronte alla propria coscienza? Una serie di fatti banali che portano a un fatto essenziale, e cioè:
Primo fatto banale:
si presenterebbe, in tutta la sua estensione e profondità, ma anche in tutto il suo definitivo anacronismo, il quadro clerico-fascista in cui il malgoverno democristiano ha potuto essere attuato attraverso una serie di reati classici. Reati dunque non reati, in quanto consustanziali alla realtà del paese, e quindi (come quelli mussoliniani) perpetrati in fondo nel suo ambito e col suo consenso. Durante i primi venti anni del regime democristiano, si è governato un popolo storicamente incapace di dissentire: esattamente come durante il ventennio fascista, come durante l'Ottocento pontificio o borbonico, e addirittura come durante i secoli feudali.
Secondo fatto banale:
la qualificazione di «antifascista» (di cui insistono a gratificarsi uomini anche autorevoli di sinistra, che in questo non si distinguono affatto dai democristiani) diventa una sinonimia assurda, anzi, ridicola, di anti-borbonico o antifeudale...
Terzo fatto banale:
un paese non più clerico-fascista, e cioè un popolo non più religioso, non può non ripercuotere la propria realtà nel «Palazzo», vanificandone i codici e rendendo le manovre dei potenti degli automatismi pazzi (di cui son complici anche gli oppositori).
Fatto essenziale:
ciò che al contrario il Processo renderebbe chiaro – folgorante, definitivo - è che il contesto in cui governare non è più quello clerico- fascista, e che proprio nel non aver capito questo consiste il vero reato, politico, dei democristiani.
Il Processo renderebbe chiaro – folgorante, definitivo – che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere, bensì in relazione al nuovo potere.
Per esempio:
i beni superflui in quantità enorme, ecco qualcosa di assolutamente nuovo rispetto a tutta la storia italiana, fatta di puro pane e miseria. Aver governato male, significa dunque non aver saputo far sì che i beni superflui fossero un fatto (come oggettivamente dovrebbe essere) positivo: ma che, al contrario, fossero un fatto corruttore, di selvaggia distruzione di valori, di deterioramento antropologico, ecologico, civile.
Altro esempio:
la democratizzazione derivante dal consumo estremamente esteso dei beni (compresi, perché no?, i beni superflui), ecco un'altra grande novità. Ebbene, l'aver governato male significa non aver fatto si che tale democratizzazione fosse reale, viva: ma che, al contrario, fosse un orribile appiattimento o un decentramento puramente enfatico (gestito in genere da illusi progressisti).
Altro esempio ancora:
la tolleranza, che il nuovo potere ha elargito, per delle sue buone ragioni, è anch'essa una grande novità. L'aver governato male – ancora una volta - consiste nel non aver fatto di tale tolleranza una conquista, ma di averla trasformata nella peggiore intolleranza reale che si sia mai vista (ossia la tolleranza di una maggioranza, resa sconfinata dalla sua nuova «qualità» di «massa», che tollera, in realtà, solo le infrazioni che fanno comodo a lei stessa).
Quindi, nella mia ansia didascalica, insisto:
governare bene o amministrare bene non significa più affatto governare bene o amministrare bene rispetto al governare male o all'amministrare male clerico-fascista (e quindi democristiano). La moralità politica non consiste più nel confrontarsi con l'immoralità clerico- fascista e magari col debellarla: cosa che i democristiani, in quanto cristiani, hanno sempre detto, a parole, di voler fare. Di conseguenza, se i comunisti - nelle giunte amministrative regionali, provinciali e comunali – si limitassero ad attenersi a una simile moralità politica, essi altro non sarebbero che i veri democristiani.
Ma - e questo è il punto - anche facendo dei beni superflui, della democratizzazione consumistica e della falsa tolleranza, qualcosa di avanzato, di vivo, di reale - anche in tal caso - i comunisti altro non sarebbero che i veri democristiani. Perché? Perché beni superflui, democratizzazione consumistica, 'tolleranza sono fenomeni che caratterizzano il nuovo potere (il nuovo modo di produzione) e tale nuovo potere (tale nuovo modo di produzione) è capitalistico. Bologna è in realtà un esempio di come avrebbe dovuto essere amministrata dai democristiani una città. Ma è a questo punto che si ha il «risvolto» del mio presente scritto (reso evidentemente romanzesco dalla presenza di un Processo...)
Il «risvolto» consiste in questo:
la continuità democristiana, voluta in realtà da tutti indistintamente - in barba alla terribile «crisi», da' tutti, altrettanto indistintamente, recepita e drammatizzata - in realtà non è possibile.
Infatti i democristiani per poter governare, anche nel flusso ipocrita di tale continuità, non possono più a questo punto non tentare anche sul piano puramente pratico (di altro non sono capaci) un'individuazione e una analisi della «novità del potere»: «novità del potere» che, se da loro individuata e analizzata, finirebbe fatalmente con l'annullarli.
Ugualmente i comunisti – nel caso che accettassero senza Processo tale continuità - altro non potrebbero fare, come ho detto, che della morale e non della politica. Perché anch'essi, individuando attraverso un sincero e profondo esame politico quella «novità del potere» che i democristiani non vogliono né possono individuare, sarebbero, da tale «novità» annullati in quanto comunisti (sarebbero appunto ridotti a sostituti dei democristiani).
Posso ora tentare qualche-previsione, naturalmente priva di ogni buon gusto?
Primo:
è inevitabile che il vuoto di potere democristiano venga riempito dal potere comunista, e ciò al di là del «compromesso storico». Tale «compromesso» era accettabile e concepibile solo ed esclusivamente con la massa dei lavoratori cattolici. Ma tali lavoratori cattolici non ci sono più (se non come «nomina», o nelle ultime sacche dell'Italia umile). Ë inoltre inevitabile che se il potere comunista riempirà il vuoto del potere democristiano, potrà farlo solo inizialmente come «ersatz», in effetti finirà col farlo proprio come «potere comunista».
Secondo:
la scomparsa delle masse dei lavoratori cattolici, specie naturalmente dei contadini, trasforma completamente il senso della Chiesa, che solo fino a una decina d'anni fa poteva fornire ai democristiani quei principi morali o spirituali atti a «ben governare» (viene da ridere a dirlo). Ora la Chiesa altro non è che una potenza finanziaria: e quindi una potenza straniera.
Terzo:
in Italia non c'è il rame, né c'è la Itt. Però in Italia ci sono basi missilistiche fondamentali. Le multinazionali se ne sono andate: ma per sempre? E la Cia?
Quarto:
lo spezzarsi naturale della continuità democristiana – travolta dal ripercuotersi di una nuova realtà del paese nel Palazzo – si risolverà probabilmente con la formazione di un piccolo partito cattolico socialista (di carattere non più contadino, ma urbano), e di un grande partito teologico: un Tecno- fascismo, finanziato, dunque, da due potenze straniere, e in grado di trovare, nelle enormi masse «imponderabili» di giovani che vivono un mondo senza valori, una potente truppa psicologicamente neonazista.
Ed è a questo punto che possiamo, credo con giustificata ansia, «uscir di metafora» e dare al nostro favolistico Processo una connotazione concreta e reale.
L'immagine dei potenti democristiani ammanettati tra i carabinieri è un'immagine su cui riflettere seriamente. Ma devo farlo solo io, in mezzo a un bosco di querce?
Questa volta non mi va di essere ignorato, snobbato, lasciato solo al mio monologo, come dice Carlo Bo. Farò dunque un appello nominale, sia pur limitato e un po' fazioso. A dire se ci sono gli estremi per un vero e proprio Processo ai potenti democristiani, e come giuridicamente formalizzarlo, vorrei che intervenisse Vittore Branca. A discuterne, vorrei che contribuisse Leo Valiani (magari per riabilitarsi da una discussione piuttosto vacua sul vecchio fascismo); Claudio Petruccioli (un cui articolo di fondo sull'«Unità» ho preso come «specimen» dell'atteggiamento attuale dei comunisti); Italo Zanetti (dalla cui rivista ho desunto quasi tutte le informazioni su cui ho basato questo mio scritto); Giorgio Bocca (che potrebbe così spendersi in una battaglia difficile e smetterla di cadere ottusamente nella trappola delle provocazioni da lui stesso estrapolate); Alberto Moravia (che ha sempre qualcosa di intelligente da dire, specie quando si libera dalle suggestioni dell'Ecclesiaste).
Caro Direttore,
Alla fine del mio articolo Il processo, pubblicato sul «Corriere» ieri, 24 agosto, ho commesso due gravi lapsus: ho scritto Vittore Branca, anziché Giuseppe Branca, e Italo Zanetti anziché Livio Zanetti. Evidentemente, poiché alla fine dell'articolo ho voluto un po' scherzare, mentre in realtà le mani mi tremavano, sono stato giustamente punito dal mio Censore. Non gravemente però: perché, quanto ai Branca, penso che sia riuscito chiaro a tutti che mi riferivo al Branca giurista, al grande e angelico giurista, e quanto a Zanetti, l'unico atroce dubbio possibile è che io abbia compiuto una illogicissima consustanziazione inconscia con Italo Pietra!
Suo Pier Paolo Pasolini
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