"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
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Pasolini - Bisognerebbe processare i gerarchi DC
[lettera inviata al direttore de Il Mondo, 1975]
Caro Ghirelli, credo che mi resterà a lungo impressa nella memoria la prima pagina del
«Giorno» del 21 luglio 1975. Era una pagina anche tipograficamente particolare:
simmetrica e squadrata come il blocco di scrittura di un manifesto, e, al
centro, un’unica immagine anch’essa perfettamente regolare, formata dai riquadri
uniti di quattro fotografie di quattro potenti democristiani.
Quattro: il numero
di De Sade.
Parevano infatti le fotografie di quattro giustiziati, scelte dai
familiari tra le loro migliori, per essere messe sulla lapide. Ma, al contrario,
non si trattava di un avvenimento funebre, bensì di un rilancio, di una
resurrezione. Quelle fotografie al centro della monolitica pagina del «Giorno»
parevano infatti voler dire allo sbalordito lettore, che quella lì era la vera
realtà fisica e umana dei quattro potenti democristiani. Che gli scherzi erano
finiti. Che le raggianti risate di chi detiene il potere non sfiguravano più le
loro facce. Né le sfigurava più l’ammiccante furbizia. Il brutto sogno si era
dissolto nella chiara luce del mattino. Ed eccoli lì, veri. Seri, dignitosi,
senza smorfie, senza ghigno, senza demagogia, senza la bruttura della
colpevolezza, senza la vergogna della servilità, senza l’ignoranza provinciale.
Si erano rinfilati il doppiopetto e li baciava in fronte il futuro delle persone
serie.
Sarei però ingiusto se non aggiungessi che il «Giorno» non è stato
il solo ad assumersi il ruolo di rassicurare, in quel momento, la nazione, e di
dare il crisma della pacificazione generale alla soluzione del quadrumvirato (e
poi a quella del «rispettabile» Zaccagnini).
Anche il “Corriere della Sera” ha
manifestato, per esempio, lo stesso sentimento di sollievo.
E del resto tutta la
stampa italiana: anche quella borghese più sprezzantemente all’opposizione. Ciò che se ne desume è questo: tutto il mondo politico italiano era, ed è,
pronto ad accettare sostanzialmente la continuità del potere democristiano, o
con fiducia «miracolistica», mascherata da serietà professionale, o con
gratificante disprezzo.
Ora, quando si saprà, o, meglio, si dirà, tutta
intera la verità del potere di questi anni, sarà chiara anche la follia dei
commentatori politici italiani e delle élites colte italiane. E quindi
la loro omertà.
Del resto tale «verità del potere» è già nota, ma è nota
come è nota la «realtà del Paese»: è nota cioè attraverso un’interpretazione che
«divide i fenomeni», e attraverso la decisione irrevocabile, nelle coscienze di
tutti, di non concatenarli.
Non praticare più la «divisione dei
fenomeni», rendendoli, così, logici in un tutto unico, significherebbe rompere -
e certo pericolosamente - una continuità. Ma non anticipiamo...
Tu, caro
Ghirelli, ti sei accinto da qualche settimana all’impresa di dirigere una
rivista politico-culturale. Mai una simile impresa è stata più difficile che in
questi anni, perché mai la distanza tra il potere (quello che in un articolo di
varietà ho chiamato il «Palazzo») e il Paese è stata più grande. Si tratta
(dicevo) di una vera e propria diacronia storica: per cui nel Palazzo si
reagisce a stimoli ai quali non corrispondono più cause reali nel Paese. La
meccanica delle decisioni politiche del Palazzo è come impazzita: essa obbedisce
a regole la cui «anima» (Moro) è morta.
Ma c’è di più, come accennavo. I
fenomeni (impazziti e marcescenti) del Palazzo avvengono in comparti stagni,
ognuno, si direbbe, dentro l’invalicabile area di potere di uno degli
appartenenti alla mafia oligarchica, che, provenuta dal fondo della provincia
più ignorante, governa da qualche decennio l’Italia.
Ognuno di tali potenti
si assume le sue responsabilità (mai però, finora, pagate): e grazie a questa
separazione delle responsabilità, salva l’insieme del potere. Ciò di cui è
colpevole Andreotti non è colpevole Fanfani, ciò di cui è stato colpevole
Gronchi non è stato colpevole Segni, e così via e viceversa. Nessuno ha mai
avuto il coraggio di abbracciare con un solo sguardo l’Insieme.
Nel tempo
stesso, fuori dal Palazzo, un Paese di cinquanta milioni di abitanti sta subendo
la più profonda mutazione culturale della sua storia (coincidendo con la sua
prima vera unificazione): mutazione che, per ora, lo degrada e lo deturpa. Ma
anche qui le nostre coscienze di osservatori si sono macchiate
dell’imperdonabile colpa di avere, come dicevo, «separato i fenomeni» di tale
degradazione e deterioramento: di non averne mai osato abbracciare con un solo
sguardo l’Insieme.
Ti faccio due esempi minimi ma tipici.
I) A proposito della «separazione dei fenomeni» di Palazzo, ecco un divertente aneddoto. Dopo la famosa notte in cui è stato, peraltro ingiustamente, ridotto a capro espiatorio, Fanfani si è sfogato contro un suo protetto ingrato, uno (non ricordo come si chiami) di quella che, del resto volgarmente, si definisce «greppia» del potere. Costui (è Fanfani a parlare) si era a lungo prosternato davanti al potente segretario della DC per ottenere non so che carica ministeriale: l’aveva adulato nel modo più osceno («gettando la sua giacca sotto i miei piedi» dice esattamente Fanfani). In conclusione, Fanfani ha concesso quella carica, tanto ardentemente desiderata, al suo adulatore. Sappiamo, così, come in Italia viene concessa una carica pubblica a livello di governo. Ora, se tutto ciò accade, vuol dire o che un regime parlamentare non funziona (e allora hanno ragione gli extraparlamentari), oppure che bisogna farlo funzionare... Ma, ancora, non anticipiamo. Anche gli osservatori più informati, non scomponendosi (sia pure per eccesso di aristocratico disprezzo) di fronte a questa impudente confessione di Fanfani, si sono resi, intanto, suoi complici: ma, quel che è peggio, hanno appunto continuato a non voler considerare questa elargizione di cariche pubbliche come una delle tante tessere che formano un mosaico: non hanno voluto vedere il mosaico.
II) A proposito della «separazione dei fenomeni» del Paese, mi viene in mente, fra le tante, la notizia apparsa qualche tempo fa sui giornali a proposito di un convegno sulla criminalità minorile in Italia. I dati che in quella notizia giornalistica si riassumevano, in merito alla criminalità minorile, erano terrificanti: tali da rivoluzionare del tutto l’idea che si ha del «minore» in Italia. Ma anche qui: la «criminalità minorile» non è nella nostra coscienza che una delle tessere (anzi, la formula di una delle tessere) che compongono il mosaico della realtà italiana. Che non si può guardare nel suo insieme se non a costo di restare impietriti.
Dunque, per quanto
riguarda un osservatore, o un luogo di osservazione com’è una rivista (per
esempio quella che tu dirigi):
a) ciò che succede nel Palazzo e ciò che succede nel Paese sono due realtà separate, le cui coincidenze sono solo meccaniche o formali: ognuna in effetti va per conto suo;
b) in queste due diverse realtà, la stessa diacronia che le separa si ripete nei fenomeni che avvengono nel loro interno.
La causa prima di tale separazione tra il
Palazzo e il Paese, e della conseguente separazione dei fenomeni all’interno del
Palazzo e del Paese, consiste nella radicale mutazione del «modo di produzione»
(enorme quantità, transnazionalità, funzione edonistica): il nuovo potere reale
che ne è nato ha scavalcato gli uomini che fino a quel momento avevano servito
il vecchio potere clerico-fascista, lasciandoli soli a fare i buffoni nel
Palazzo, e si è gettato nel Paese a compiere «anticipatamente» i suoi genocidi.
Tu mi dirai:
«Questa tua lettera mi sembra un pochino goffa e ripetitiva. Quandoquidem et Cato dormitat?».
Si, è vero, ma qui è finita la prima
parte, diligente, della presente mia lettera. E vengo alla conclusione che,
essendo perfettamente logica, è anche sconvolgente.
Nel meccanismo
(Palazzo, Paese, Nuovo Potere) che ti ho descritto, intervengono anche altre
forze: il PSI, il PCI, che da tale meccanica sarebbero libere. E sarebbero
libere precisamente perché la loro interpretazione della realtà dovrebbe essere
culturale e non pragmatica: politicizzando il tutto, se ne dovrebbe vedere
l’insieme: e quindi il principio: per cui si potrebbe, appunto, ricomincare.
Perché allora sia il PSI che il PCI sospendono ogni forma, sia pur timida,
di interpretazione dell’Insieme, adeguandosi anch’essi alla regola prima cui si
attengono tutti gli osservatori politici italiani, di ogni classe e partito, la
regola cioè di intervenire solo fenomeno per fenomeno?
Le ipotesi
sono due:
I) Il PSI e il PCI non possiedono più una interpretazione culturale della realtà, essendosi ormai identificati, nel pragma e nel buon senso, con la DC: accettazione dello Sviluppo, con quanto di democratico, tollerante, progressista esso (falsamente, io sostengo) comporta. In tale ipotesi valgono certamente le pazzesche sollecitazioni, che si levano ormai da ogni parte, alla DC di «imparare» qualcosa dal PCI, specie nel suo rapporto reale con le masse. Ed effettivamente in tal caso il PCI avrebbe qualcosa da insegnare alla DC, qualcosa di indubbiamente fondamentale: l’onestà.
II) Il PSI e il PCI possiedono invece, ancora, la loro visione ormai classica di interpretazione «altra» della realtà, ma non ne fanno uso. E non ne fanno uso perché, se ne facessero uso, essi dovrebbero ricorrere, logicamente, a soluzioni estreme.
E quali sarebbero queste soluzioni estreme?
Forse quelle
degli estremisti?
Non proprio:
ciò non rientrerebbe nel metodo, ormai ben stabilizzato, del PSI e specialmente del PCI: tali soluzioni estreme si manterrebbero nell’ambito della Costituzione e del parlamentarismo: anzi, sarebbero - secondo uno stile semmai di carattere radicale - l’esaltazione della Costituzione e del parlamentarismo.
In conclusione, il PSI e il PCI
dovrebbero per prima cosa (se vale questa ipotesi) giungere ad un processo degli
esponenti democristiani che hanno governato in questi trent’anni (specialmente
gli ultimi dieci) l‘Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un
tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti
democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della
Repubblica) dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati.
Anzi, no, non come Nixon, restiamo alle giuste proporzioni: come Papadopulos.
Visto fra l’altro che Nixon è stato salvato da Ford dal processo vero e proprio.
Nel banco degli imputati come Papadopulos.
E quivi accusati di una quantità
sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente (sperando nell’eventualità
che, almeno, venga prima o poi celebrato un «processo Russell» finalmente
impegnato e non conformistico e trionfalistico com’è di solito):
indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell‘esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori.
Senza un simile processo penale, è inutile
sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la
rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei
comunisti non servono a nulla.
Saggi sulla politica e sulla
società, Meridiani Mondadori, Milano 1999
(Il Mondo,
28 agosto 1975; poi in Lettere luterane)
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