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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 29 dicembre 2021

Pier Paolo Pasolini - GIORNALISTI, OPINIONI E TV, DROGA E CULTURA - Tempo n. 53, 28 dicembre 1968

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro 




Pier Paolo Pasolini
GIORNALISTI, OPINIONI E TV
DROGA E CULTURA 

Tempo n. 53
28 dicembre 1968



GIORNALISTI, OPINIONI E TV


Mi è stato chiesto da un giornalista perché gli intellettuali collaborano così poco, così malvolentieri, con così poca partecipazione alla televisione.
Gli ho risposto facendo un’ipotesi, più o meno nel modo seguente: «Ammettiamo che la televisione non rappresenti più, diciamo, genericamente, il Potere, ma, direttamente e concretamente, il Parlamento. Ammettiamo, dunque, che sia diretta dai rappresentanti dei partiti, che verrebbero così ad avere su di essa una fetta di responsabilità proporzionale alla loro rappresentanza in Parlamento. Ecco che in tal modo le fonti di informazione si moltiplicherebbero e nel tempo stesso perderebbero ogni crisma di ufficialità. Lo spettatore finirebbe di essere un bambino che sente parlare dal video il padre (anche se quasi sempre qualunquista e benevolo) e diventerebbe un adulto “costretto” dalla natura stessa del rapporto a giudicare ciò che gli viene comunicato. Cadrebbe ogni autoritarismo e ogni forma, degradante, della comunicazione di massa: infatti l’ascolto, diverrebbe per forza un ascolto critico. Com’è per esempio, l’ascolto di Tribuna politica. Nell’ipotesi qui prospettata, è chiaro che gli intellettuali si deciderebbero a partecipare con entusiasmo alle trasmissioni televisive, ognuno nel suo campo ideologico e politico: e sarebbe stupendo».
Perché, mi ha chiesto allora, incuriosito e scettico, il giornalista, che cosa c’è che non va nella televisione così com’è attualmente?
Gli ho risposto più o meno: il rapporto della televisione con i suoi spettatori è esattamente quello che non dovrebbe essere. Esso è:
a) Tipicamente autoritario: infatti tra video e spettatore non c’è la possibilità di dialogo. Il video è una cattedra, e parlando dal video si parla, necessariamente, ex cathedra. Non c’è niente da fare, il video consacra, dà autorità, ufficialità. Anche i personaggi comici, umili, stanno lì con l’aria di aver ricevuto una benevola manata sulla spalla da chi è più potente di loro: anzi, da chi è Potente per eccellenza. Insomma il video rappresenta l’opinione e la volontà di un’unica fonte d’informazione, che è quella appunto, genericamente, del Potere. E tiene così in soggezione l’ascoltatore.
b) È un medium di massa: essa infatti, quale fonte di informazione centralistica, è manipolata per ragioni extra-culturali, e la sua diffusione deve tener anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli.
La ricerca di richiesta di mercato che la televisione opera è tipica della cultura di massa: ove la «massa» naturalmente, è interclassista: è una media atrocemente indifferente e indifferenziata delle richieste degli operai, dei borghesi, dei piccoli borghesi, dei contadini, dei sottoproletari: così che in realtà non si tiene conto di nessuna delle esigenze reali di questi vari gruppi sociali di cittadini, ma si tiene conto di una media irreale. Così che la cultura televisiva è una cultura tipicamente alienante.
Per queste ragioni è chiaro che un intellettuale, teoricamente, non può che dire «no» alla televisione, scendendo tutt’al più a qualche patteggiamento (nel mio caso la collaborazione a Tv 7, che si pone come contestatrice alla televisione all’interno della televisione).
Ma l’idea di collaborare alla televisione tout court, come a un mezzo di comunicazione nuovo, caratterizzato dal fatto che gli spettatori sono in numero immenso e la loro audiovisione è simultanea?
Non esiste, è chiaro, una televisione in astratto, come puro problema tecnico. Il problema di collaborare alla televisione è sempre politico, o, se vogliamo, di coscienza. Non è possibile poi neanche collaborare alla televisione come a un «secondo mestiere»: cosa che spesso son costretti a fare i letterati. Infatti esistono, ben definiti tecnicamente, i «secondi mestieri» del giornalismo, dell’insegnamento, del cinema ecc. Mentre la televisione non si è ancora definita come tecnica autonoma, cioè concreta. Essa è un insieme di tecniche, che hanno in comune il fatto di essere audiovisive (teatro, cinema, giornalismo parlato), e di poter essere fissate attraverso la «riproduzione». L’unico momento autonomo del mezzo di comunicazione televisivo è la «presa diretta»: ma questo modo di comunicazione non è ancora diventato un «linguaggio», né, direi, per sua natura, potrà mai diventarlo. In che cosa consiste allora il mestiere televisivo, per un «autore», se un «linguaggio» televisivo non esiste? Fare del cinema per la televisione? Fare del teatro «riprodotto» per la televisione? Va bene, si potrebbe far questo (e talvolta lo si fa): ma per prendere questa decisione bisogna prima prendere in esame tutti i problemi politici e morali che abbiamo accennato più sopra...
Qui il giornalista si è mostrato un po’ sconcertato, di fronte a tanto rigore: e tutti quegli intellettuali che collaborano di fatto alla televisione?
Oh, io non giudico nessuno. Sono problemi loro. Li comprendo. E anch’io se non avessi altro lavoro, per vivere, forse accetterei il compromesso. D’altra parte molta della migliore «intelligenza» italiana è occupata alla televisione.
Piuttosto l’obiezione che muoverei a me stesso è un’altra.
Proprio oggi che la democrazia parlamentare, la «delegazione» fintamente democratica, e i partiti, tutti i partiti, in quanto centralistici, burocratici e ufficiali, sono oggetto delle critiche più violente da parte dei giovani, io parlo di televisione parlamentare e partitica, di una specie di grande Tribuna politica?
Eh già. I giovani non muovono nessuna critica alla televisione così come è adesso. Non se ne accorgono, non la prendono in considerazione. Forse ne sono utenti: operando così una dissociazione (un po’ schizoide) tra se stessi utenti della televisione e se stessi rivoluzionari.
Forse per gli studenti la televisione appartiene a quell’ordine di fatti così bassi e spregevoli, da non essere degni di contestazione. Gli studenti vanno a contestare Avignone, non Sanremo. Ma nel caso che la televisione fosse partitica e parlamentare, e il suo livello salisse di colpo vertiginosamente, dalla piattezza attuale, all’altezza di una comunicazione veramente culturale e reale, allora è certo che i giovani non potrebbero fingere di non accorgersene. Sarebbero costretti ad accorgersene: e a rivolgere alla televisione la loro critica anti-parlamentaristica e anti-partitica. E a volere quindi una televisione ancora più avanzata e libera. Forse si deciderebbero a occuparla. Magari!

DROGA E CULTURA

Perché ci si droga? Non lo capisco, ma in qualche modo lo spiego. Ci si droga per mancanza di cultura.
Parlo, s’intende, della grande maggioranza o della media dei drogati. È chiaro che chi si droga lo fa per riempire un vuoto, un’assenza di qualcosa,
che dà smarrimento e angoscia. È un sostituto della magia. I primitivi sono sempre di fronte a questo vuoto terribile, nel loro interno. Ernesto De Martino lo chiama «paura della perdita della propria presenza»; e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie.
Nel mondo moderno, l’alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall’alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l’alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli, quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall’idea della perdita della propria presenza.
In realtà, tutti ci droghiamo. Io (che io sappia) facendo il cinema, altri stordendosi in qualche altra attività. L’azione ha sempre una funzione di droga. «Che» Guevara si drogava attraverso l’azione rivoluzionaria (quella teorizzata dal castrismo romantico: agire prima di pensare); anche il lavoro che serve a «produrre» è una specie di droga. Ciò che salva dalla droga vera e propria (cioè dal suicidio) è sempre una forma di sicurezza culturale. Tutti coloro che si drogano sono culturalmente insicuri. Il passaggio da una cultura umanistica a una cultura tecnica pone in crisi la nozione stessa di cultura. Vittime di questa crisi sono soprattutto i giovani. Ecco perché ci sono tanti giovani che si drogano.
Mancare di certezze culturali, e quindi della possibilità di riempire il proprio vuoto di alienati, se non altro per mezzo dell’autoanalisi e della coscienza (individuale e di classe), vuol dire, in termini banali, anche essere ignoranti. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. Insomma, che non leggano più, o che non leggano con amore.
C’è da aggiungere: i giovani ignoranti che non si drogano, e che magari si drogano attraverso l’azione politica specializzata (che è una forma particolare di ignoranza), sono molto spesso cattivi, disumani, impietosi, sgradevoli: proprio così come la crudele cultura tecnica neocapitalistica (contro cui lottano) li vuole.
Invece i giovani «ignoranti» che si drogano sono, in genere, buoni, dolci, pietosi, pieni di carità, apostolici, disarmati, non aggressivi, fiduciosi (come, appunto, i primitivi): la loro contestazione in re, ossia nel proprio corpo, è molto più terribile e commovente. Essi sì, se ne fossero capaci, sarebbero nel pieno diritto di lanciare la prima pietra. Al contrario degli estremisti primi della classe, che parlano come (cattivi) libri stampati, essi hanno bruciato i ponti: si sono resi impossibile ogni possibilità di integrazione.
Tuttavia, la loro rivolta, benché terribile e commovente, è inutile: appunto perché priva di cultura, o fuori dalla cultura. Dopotutto è facile essere buoni e dolci come i primitivi, è facile essere pietosi a causa del terrore che proviene dal vuoto in cui si vive.
D’altra parte (e questa è la conclusione disperante) liberarsi da questa «mancanza di cultura» o di «interesse culturale», sembra impossibile; infatti essa proviene, probabilmente, da un più generale senso di «paura del futuro». Mai come in questi anni (in cui la «previsione» è divenuta scienza) il futuro è stato fonte di tanta incertezza, così simile a un incubo indecifrabile.
 Tempo n. 53
28 dicembre 1968

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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