"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini: Massacro di un poeta.
Storia dell’incomprensione di un dramma intellettuale
“La morte non è nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi.”
Lo scrisse Pier Paolo Pasolini e in questa frase, in un certo senso, è egli stesso a delineare la complessità del suo grande dramma. L’intellettuale friulano – ci dice Simona Zecchi, giornalista romana che a lungo si è occupata della sua morte – aveva una sola ossessione: la verità. Ma questa “verità” come si deforma dopo la sua morte? Quali forze agiscono e perché nella sua deformazione?
Ciò che avviene dopo il delitto dello scrittore corsaro prende i tratti di una fiction, di una finzione degna di un thriller, che si narra post mortem: il vero copione si recita dopo l’assassinio e non all’atto stesso. È il segno che l’ossessione aveva le sue ragioni, che l’intellettuale – in quel momento più che in altri – doveva, seguendo l’accezione di Said, “dire la verità” ma non “al” bensì “sul” potere. Pasolini, nel corso della sua breve ma tormentata vita, non si rivolse infatti mai “al” potere ma incentrò il discorso sulla sua ontologia, sul suo tratto non tanto materiale – identificabile in qualcuno o qualcosa – quanto piuttosto su quello immateriale, intangibile, sul processo, subìto e non compreso, che produsse la tanto discussa “mutazione antropologica” in coloro che ne erano, in un certo qual modo, vittime e prodotti. In questo senso “Il Palazzo” assumeva i connotati di una “conseguenza” della società basata sulla costrizione dei consumi, sul desiderio, incontrollabile e violentemente impulsivo, dell’accumulazione.
Il potere da un piano più alto – il “palazzo” appunto – via via si confaceva al corpo, i cui segni, sosteneva Pasolini, erano evidenti. I capelloni, si, ma anche il linguaggio – il “vero potere”, con accezione foucaultiana – del “politico” Moro era il segno evidente della trasformazione. Quel registro linguistico, così macchinoso e logorroico, del “meno implicato di tutti” (e ci sarebbe da scrivere un saggio solo su questa espressione) che si dissolve nella consapevolezza della morte e della prigionia. Pasolini, nei 55 giorni in cui l’Italia visse su di un filo ad alta tensione, però non c’era. Era già morto. La parabola dell’intellettuale – che, al contrario dell’amico Calvino, si rendeva palese – era arrivata a compimento all’idroscalo di Ostia tre anni prima. A pensare al linguaggio del Presidente della democrazia cristiana – mutatosi, quasi per un paradosso letterario, da uomo del potere a vittima del potere – ci pensò, come fosse un’eredità acquisita, l’intellettuale con cui Pasolini meglio s’intese in vita: Leonardo Sciascia. Moro, scrisse l’intellettuale siciliano, si era “spogliato” del potere, era diventato un uomo solo e – guarda caso – incompreso nel suo percorso. Dall’uomo dei macchinosi discorsi della politica all’uomo dei commoventi discorsi familiari. Come vedrete nell’intervista, si parlerà di “convergenza di destini” tra l’intellettuale e lo statista. Si vedrà, come ci dice Simona, che Pasolini è stato incompreso persino nell’interpretare Moro. Ma è il caso di fermarci: lasciamo parlare l’autrice. In un’intervista densa di riflessioni come questa si trova il nucleo originale del suo lavoro: Massacro di un poeta, (Roma, Ponte Alle Grazie, 2016).
Il tuo libro è un libro d’inchiesta ma, per quello che mi riguarda, l’ho trovato interessante per un punto nodale, che mi sembra rappresenti l’anima del tuo lavoro: la critica alla cattiva propensione ad analizzare, interpretare e forzare la morte di un uomo di lettere, immensamente complesso e dai poliedrici spunti intellettuali, attraverso quello che mi sento di definire il “paradigma dell’omosessualità”. Non credo di sbagliare accezione o di traviare il tuo pensiero nel definire tale un modello che ha spinto anche bravi critici (mi ha colpito la critica che fai a Belpoliti) a declinare la “tragedia” pasoliniana o a coniugare l’intera sua parabola attraverso la categoria dell’omosessualità estetizzante. Penso che, invece, l’intero percorso intellettuale pasoliniano abbia una costante: l’incomprensione. D’altronde lui stesso scrisse che “la morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi.” E’ sbagliato affermare che non aver capito Pasolini possa aver generato una trappola interpretativa come quella dell’omosessualità? Potresti spiegare al lettore perché si tratta di un paradigma e per quale motivo ritieni che la stragrande maggioranza dei commentatori incappi in questo errore?
Sì, mi sento di condividere questa tua sintesi espressiva su ciò che parte della intellighenzia ha perpetrato contro Pasolini e che ricade in pieno nella trappola, da te menzionata, in cui sono caduti alcuni involontariamente, altri per quello stato di conto in sospeso che con Pasolini avevano. Questo è successo e tuttora succede sia a destra che a sinistra. Entrambi “gli schieramenti” non ne sono stati esenti. E’ evidente, come ho dimostrato nel libro, che ciò che ha perpetrato soprattutto l’estrema destra contro di lui e la cultura conservatrice ha avuto quasi un pareggio di conti a sinistra dove l’incomprensione è stata per certi versi peggiore. E anche in questo senso nel mio libro vi è un abbozzo d’inchiesta culturale, verso la fine, nelle pagine dell’epilogo ma che riprenderò insieme ad altro. Perché prima di tutto ho creduto fosse necessario, e mancasse, un lavoro investigativo di sintesi nuovo e unitario sul “cosa” ha portato al massacro Pasolini e sulle modalità specifiche attraverso un lavoro di inchiesta abduttivo non deduttivo né induttivo. Poi è stato inevitabile, a 40 anni da quel massacro, fare qualcosa che un giornalista non dovrebbe fare: avanzare anche le ipotesi sul “chi” e non parlo solo dell’aver delineato i diversi livelli operativi coinvolti. Il “chi” infatti spetterebbe ad avvocati e magistrati, soprattutto a questi ultimi. Un lavoro questo che è mancato anche nelle ultime indagini preliminari aperte dalla Procura di Roma e durate 5 anni. Torno al cuore della tua domanda. Nella raccolta postuma Lettere Luterane del novembre ’76, nella serie dedicata a Gennariello rimasta incompiuta, il ragazzo immaginario a cui Pasolini indirizza un piccolo trattato, è lo stesso scrittore che risponde alla tua domanda parlando di “tinta”: mantello di pregiudizi ai quali nemmeno gli intellettuali si sono sottratti, e con i quali ricoprivano ogni sua analisi e critica, una su tutte quella sull’aborto. Lì Pasolini riferiva come la sua figura fosse paragonabile a quella dei neri, rinchiusa cioè in un ghetto mentale a cui vengono assegnati tutti coloro che appartengono a una minoranza. La polemica sull’aborto che lo travolse, in particolare, era stata appunto ammantata (cito) da una “tinta che proviene da una mia esperienza particolare e diversa della vita, e della vita sessuale”. E’ il paradigma che lo ha inseguito fino a oltre la morte. Per anni, ma anche adesso. A partire dal ’92, il capitolo in Petrolio, sui Pratoni della Casilina, ha impregnato molte pagine culturali come in un istinto voyeristico incontrollabile, rinnegando il ruolo specifico invece dato da Pasolini al sesso in quell’opera letterario-giornalistica che proseguì a rappresentare nel film Salò, rimasta anch’essa incompiuta. Concludo ricordando le parole che usò Pasolini nel maggio del 1969 per definire il “caso Lavorini” che mi sembra emblematico e precursore di tutto ciò che sarebbe avvenuto durante la strategia della tensione. E’ la prima volta che lo cito perché vi ho ragionato solo di recente ma è un fatto questo che andrebbe anche attraversato. Ermanno Lavorini è stato una giovanissima vittima di un omicidio avvenuto a gennaio del ’69 in un primo momento fatto ricadere all’interno di un contesto di pedofilia omosessuale. In Caos, Pasolini scrive: “L’uomo medio rappresentato e officiato dai giornali richiede ancora come nel profondo dei millenni, il “capro espiatorio”: sente cioè il bisogno del linciaggio. Le vittime da linciare continuano a venire regolarmente cercate tra i diversi…”. Poi le indagini sull’omicidio portarono a individuare due neo fascisti e a un monarchico che avevano montato inizialmente il tutto. E’ emblematico se pensiamo alla sua sorte dopo e agli schemi della strategia della tensione.
Il nuovo libro di Simona Zecchi, Pasolini Massacro di un poeta (Ponte delle Grazie, 2016) |
Quando ho letto nel tuo libro la parte relativa allo “schema perfetto” non ho potuto non pensare ad una sceneggiatura (la preparazione della morte) e alla messa in scena (la morte). Il delitto Pasolini è un po’ un film, è letteratura (nel senso che Pasolini diventa egli stesso un personaggio da costruire), diventa un personaggio letterario in una fiction in cui il dominus non può che essere rappresentato dall’erotismo. Infatti, come tu sottolinei, i primi resoconti sono colmi di dettagli scabrosi. Ma l’eros, in realtà, che ruolo aveva nella parabola pasoliniana? E parlo della parabola reale, non nella fiction.
Lo “schema perfetto” è il “film” che non si potrà mai girare credo sulla morte di Pasolini, l’unico film rispetto ai tanti che si sono già girati – eccetto uno quello di M.T. Giordana, Pasolini, un delitto italiano (1995) solo ovviamente datato – perché di fatto è la dinamica reale e più vicina al vero che lo ha condotto alla morte. Per ricostruirlo ho dovuto attraversare mille cavità buie e affrontare un lavoro complesso, tagliando i rami delle suggestioni o dei depistaggi a volte autoinflitti da chi indaga su questi fatti. Non ci sono abbastanza coraggio e capacità oggi per realizzare un film senza trasformare quei fatti che ve l’hanno condotto appunto, e Pasolini stesso, in una materia da macchia per fiction (non film). D’altra parte come spiego nel libro, Pasolini diventa “personaggio” da character assassination (C.A.), buono per comminargli una strategia del linciaggio in cui tutti cadono (salvo poi per alcuni di essi tornare indietro e fare finta di non esservi mai caduti). Tipo di tecnica, questa del C.A., creata appositamente dai regimi totalitari e dai suoi agenti di copertura per distruggere la credibilità e la reputazione di una persona comune o di una figura che emerge dalla società in contrasto con il sistema, deformandone i tratti e trasformandolo appunto in un personaggio, una macchietta. E’ una questione reale non una definizione letteraria. L’eros è stato uno dei filtri da lui usati per entrare nelle viscere della realtà e indagarla o anche soltanto rappresentarla, oltre che parte spiccante, indubbiamente, della sua intima personalità. Quell’eros speculare al sesso il quale è usato invece da Pasolini come altro filtro, come accennavo prima, per raccontare la perversione del potere nel film Salò. Il punto vero è che in Italia non c’è un Pasolini: permangono invece ancora qualche volta i metodi. Perché non è vero – come si percepisce- che si è smesso di uccidere le persone dannose per il sistema: è meno frequente e si riesce a confondere queste morti con le altre casualità della cronaca ma non impossibile. Ma questa è un’altra questione.
Ritornando all’incomprensione. Mi sembra che l’ ”ossessione per la verità” di Pasolini determinasse anche l’incomprensione. I fascisti, certo, che giocano un ruolo principale, di esecutori, nel tuo libro ma ci sono anche quelli che, per un periodo, furono i “compagni politici” del poeta friulano: i comunisti. Senza entrare all’interno della rottura, che ruolo hanno avuto i personaggi del PCI (ricordi le censure di Togliatti) nella costruzione del “paradigma” omosessuale?
Simona Zecchi, giornalista, collabora con numerose testate nazionali, quali il Sole 24 Ore, il Fatto Quotidiano, il Messaggero Veneto e il Manifesto. |
Quando uscì Ragazzi di Vita (1955), il romanzo che lo consacrò al successo letterario e per il quale fu anche accusato di oscenità e pornografia, gli attacchi più profondi arrivarono dal PCI. Il fratello di Berlinguer, Giovanni, deputato del partito per tre legislature, scrisse un lungo articolo sull’inopportunità di vedere rappresentata la borgata come una classe abietta e infima mostrando di non aver voluto capire la profonda svolta che nel mondo della letteratura con quel romanzo avveniva. La periferia e le borgate si presentavano infatti per quelle che erano senza falsi moralismi fra pure cattiveria e bontà e situazioni sociali ed economiche fuori da ogni decenza. Quindi anche una denuncia. Al suo funerale gli unici due politici che inviarono un telegramma di condoglianze alla famiglia di Pasolini furono il Berlinguer segretario, Enrico, e Aldo Moro il cui fratello fu giudice di primo grado del processo contro Pino Pelosi, l’unico che riconobbe il “concorso con ignoti”. Come riporto nel mio libro, in un messaggio pubblicato su L’Unità all’indomani della morte c’è tutta la cecità di quella parte politica a cui comunque Pasolini pur avverso e contrario apparteneva:
“La «vita violenta» su cui egli ha indagato con una vivacità intellettuale forse senza eguali nel nostro paese, è divenuta ora causa terribile della sua scomparsa. Quasi che egli avesse teso a cercare questo epilogo.”
Quest’ultimo periodo può fare il paio con ciò che fino al ’93 Giulio Andreotti aveva sempre dichiarato “Se l’è cercata”. Nel 1979 Giovanni Berlinguer forse a scusarsi per alcuni attacchi da parte del PCI presentò interrogazione parlamentare affinché si istituisse una Commissione d’inchiesta sulla morte, andata come le recenti richieste in merito: nel vuoto. Seppure queste siano state seguite da vere e proprie richieste parlamentari con un iter preciso a cui però il mondo politico non ha saputo o voluto dare corso. Poi c’è l’esempio che hai fatto tu di Togliatti riportato sempre nel libro, ma si potrebbe ben andare a ritroso fino allo “scandalo” che lo vide protagonista nel ’49 e che gli causò la cacciata dal partito. Tessera che non fece più. Uno scandalo architettato a bella posta dalla DC e in cui il PCI ben volentieri cadde. Anche qui…
“Qualche volta è forse meglio tacere che dire la verità. E’ più sano, forse, qualche volta, tenersela dentro, la verità.”
Questo pensiero subentra subito dopo una critica a Calvino, reo di aver “taciuto” o “forse un po’ mentito”, a proposito del modo con il quale affrontare l’attualità. Nel tuo libro hai affermato che “Pasolini aveva un’ossessione: la verità”. Come interpreti, allora, questa frase?
La lettera aperta di Calvino a Pasolini dopo la morte dell’intellettuale friulano. La profonda amicizia fra i due si era rotta all’inizio degli anni Settanta. |
E’ un periodo estratto dal suo saggio sull’opera di Italo Calvino, Le Città Invisibili (’72), contenuto in una raccolta più ampia di scritti fra il 72 e il 75, pubblicati di volta in volta sul settimanale Il Tempo. Scritti “poetici”, letterari rispetto a quelli composti nello stesso periodo che invece vedranno la luce unica negli Scritti Corsari (75). Nel momento in cui scrive, Calvino e Pasolini sono lontani tra di loro, lacerati da una polemica che ha messo a dura prova la loro bella amicizia. Questa affermazione in realtà deve essere letta all’interno di quelle pagine come un qualcosa di polemico contro il suo ex amico, pur recensendo le Città Invisibili in modo favorevole. Secondo questa affermazione, infatti, resta netta la contrapposizione che Pasolini fa tra lui stesso, che gridava “a tutti i venti il ristabilirsi della verità come una gallina spennacchiata“, e Calvino su cui Pasolini non sapeva, scriveva, “cosa è passato realmente dentro la testa in questi ultimi anni, perché Calvino forse diplomaticamente ha taciuto o ha un pò mentito”. E’ un allontanamento che inizia ben prima con la polemica fra i membri del Gruppo 63 e l’Avanguardia Letteraria (a cui Calvino si avvicinò) e lo scrittore corsaro e che proseguirà fino alla morte stessa con l’altra polemica: quella che vedeva contrapporsi l’accusa di “nostalgia per l’Italietta” fatta da Calvino a Pasolini, e la risposta dello scrittore che si riteneva incompreso, in quanto, come più volte dichiarò, la sua non fu affatto nostalgia per l’italia fascista ma per quei valori che hanno cessato di esistere dal momento in cui senza graduale progresso si stava giungendo a uno sfrenato sviluppo. All’indomani della morte del poeta, Calvino anche si scusò, in un certo senso, con una lettera aperta. Pasolini denunciava la mancanza di urgenza presente tra giornalisti e scrittori del suo tempo e del suo cerchio magico, (lo fece anche con Furio Colombo, durante l’ultima intervista a lui rilasciata, che fu tra i fondatori del Gruppo 63). Si sentiva solo anche in questo per questo polemizzava per incitarli. Su Calvino a un certo punto scrive:
“ha mantenuto tutto il suo credito, mentre io screditato due volte…continuo a godermi il discredito, ma anche la antipatia di chi non sa perdonare di aver detto a suo tempo ciò che era giusto dire”.
Paradossale che Pasolini, abile creatore del “personaggio” Moro, abbia avuto, in un certo senso, il suo stesso destino. In un certo senso, sono due narrazioni differenti ma complementari: entrambi incompresi e narrati, nel discorso pubblico, come personaggi letterari. Come spiegheresti questa “convergenza di destini”?
Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro insieme a Venezia. Moro fu, assieme a Berlinguer, l’unico politico italiano di grande rilievo a presenziare ai funerali di Pasolini. |
So che questa convinzione, che Pasolini abbia creato il personaggio Moro, è sempre più comune soprattutto tra gli storici, ma con la quale non concordo. Questo succede perché delle opinioni su Moro avute dallo scrittore si conosce soltanto la più nota comunque vera, la definizione del “meno implicato”. Come se questa definizione avesse in qualche modo sollevato Moro dalle colpe che invece la DC il suo partito aveva tutte. Da quel “meno implicato” alla morte di Moro passano 4 anni compreso il massacro a Pasolini. Nei saggi contenuti in Empirismo Eretico del 1972, e pubblicati però fra gli anni ’64-’71, in uno di linguistica (1965) Pasolini stigmatizza il linguaggio di Moro come quello che inaugura la tecnocrazia nella lingua italiana, un artificio quello usato dai politici per parlare delle cose e non farsi comprendere dai cittadini e che Aldo Moro dunque utilizza, nella fattispecie parlando della inaugurazione di un’autostrada e trasferendo così a un pubblico normale, non a dei tecnici, il concetto dell’importanza di superare le congiunture del momento e cooperare allo sviluppo (quello sviluppo che Pasolini chiamava senza progresso). A creare il “personaggio” Moro fu Moro stesso, invece, più avanti quando cominciò a capire che le forti fratture sociali che investivano soprattutto i giovani e le istanze dei più illuminati giovani a sinistra dovessero essere sempre più prese in considerazione da parte della politica e in particolare dalla DC. Istanza a cui ovviamente la DC di Moro non intese rispondere. Un cambiamento profondo di Moro che si innesta tra i motivi che lo portarono alla morte, per mano non solo delle BR, ma che non alterava l’indole di mediazione tra i poteri che gli apparteneva e la forte appartenenza al Partito nonostante tutto. Mediazione e appartenenza che con molta probabilità lo hanno portato, per non aggravare secondo lui lo stato delle cose, a nascondere in un primo momento la pista nera che poteva emergere nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Un uomo diverso, che da un certo punto in poi resta dunque “il meno implicato”. La convergenza di destini che giustamente tu vedi è tutta sintetizzata nei loro ruoli opposti e rivoluzionari ognuno a modo loro e che potevano a maggior ragione avere entrambi su due percorsi diversi per lo sviluppo e il progresso del nostro Paese un’influenza enorme.
A cura di
Enrico Ruffino
Fonte:
http://aggiornamentistorici.altervista.org/pasolini-simona-zecchi/
Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:
Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi
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