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martedì 30 settembre 2025

Pier Paolo Pasolini, “Il PCI ai giovani” - Analisi e commento di Bruno Esposito

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Pier Paolo Pasolini
“Il PCI ai giovani”

Analisi e commento

Il 1968 rappresenta un crocevia fondamentale nella storia sociale, politica e culturale d’Italia e d’Europa. A livello mondiale, il cosiddetto “Sessantotto” ha visto il sorgere di vasti movimenti di contestazione, antimperialisti e anti-autoritari, con protagonisti soprattutto studenti e, in molti casi, anche operai e altre categorie marginalizzate, in una carica di radicale messa in discussione dei sistemi e dei valori dominanti. L’Italia stessa, dopo un ventennio di crescita economica (“miracolo economico italiano”), vide affacciarsi sulla scena pubblica una generazione cresciuta nella relativa sicurezza economica, ma frustrata dal persistere di rigidità autoritarie, diseguaglianze sociali, mancanza di mobilità e di rappresentanza nei luoghi del sapere e del lavoro.

Nel gennaio 1966 si registrò l’occupazione della facoltà di Sociologia a Trento: la prima occupazione universitaria in Italia. Alla fine del 1967 e nel corso del 1968 le occupazioni e i sit-in si moltiplicarono nelle università e nei licei, investendo tutte le principali città (da Milano a Torino, Pisa, Roma). La società, sebbene attraversata da nuovo benessere e aspirazioni modernizzatrici, rimaneva marcatamente gerarchica: la scuola e l’università riproducevano classi di potere, e il sessismo, l’autoritarismo e il conservatorismo sedevano come norme implicite nelle istituzioni. Il dissenso non si manifestò solo rispetto alla scuola: il movimento operaio, specialmente durante il cosiddetto “autunno caldo” del 1969, si saldò talvolta a rivendicazioni di studenti, donne, migranti, dando luogo a un discorso complesso sul lavoro, i diritti civili, la riforma dei costumi e la libertà individuale.

La specificità italiana includeva una frattura generazionale acutissima, acuita dal fatto che il ceto universitario era ancora largamente dominato dalla borghesia urbana. In questo clima, il movimento di protesta contestò non solo le autorità universitarie, ma anche i partiti di sinistra ritenuti ormai integrati e incapaci di proporre una reale alternativa rivoluzionaria. In particolare, il Partito Comunista Italiano (PCI) subì sia contestazioni frontali sia richieste di rinnovamento interno, come dimostra anche il celebre caso de “Il manifesto” nel partito.

Un episodio centrale fu la cosiddetta “battaglia di Valle Giulia” a Roma il 1° marzo 1968, in cui studenti e forze dell’ordine si scontrarono violentemente davanti alla facoltà di Architettura. Mai le forze dell’ordine erano state contrastate con tanta efficacia proprio sul piano della violenza fisica. Questo episodio avrebbe inciso profondamente non solo sulla cronaca politica, ma anche sull’immaginario collettivo, divenendo pietra di paragone per la radicalità e i limiti della rivolta giovanile.

In piazza quel giorno, insieme agli studenti di sinistra, c'erano militanti di Alleanza Nazionale, guidati da Stefano delle Chiaie.

La poesia “Il PCI ai giovani!!” nacque come reazione a caldo agli scontri di Valle Giulia del 1° marzo 1968. Pasolini, colpito dallo spettacolo della violenza tra studenti e poliziotti, concepì un testo polemico e provocatorio che voleva essere una riflessione “di parte”, ma anche un atto di pedagogia politica e antropologica.

Inizialmente destinato alla rivista “Nuovi Argomenti”, il testo fu pubblicato a sorpresa su “L’Espresso” il 16 giugno 1968, con il titolo “Il PCI ai giovani! ovvero Vi odio, cari studenti”, non scelto dall’autore e considerato da lui stesso come uno slogan imposto e fuorviante. La scelta del mezzo – da una rivista letteraria “per pochi” a un grande rotocalco nazionale – e del titolo contribuirono ad amplificare in modo clamoroso le reazioni, spesso semplificando e distorcendo il senso delle parole di Pasolini, proiettando la polemica ben oltre il confine della letteratura.



“Il PCI ai giovani” si presenta come un poemetto polemico, anomalo nella sua forma e nel suo tono. Sin dall’incipit, Pasolini si pone in rottura: 

“È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...”.

Il cuore del testo è il famoso ribaltamento di prospettiva nei confronti degli scontri di Valle Giulia:

 “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri... A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione), eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”.

Pasolini denuncia la natura “piccoloborghese” degli studenti: 

“Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo), ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici”. 

Per l’autore, la rivolta di questi studenti altro non è che l’ultima espressione della borghesia che si “schiera contro se stessa”, una guerra civile tra figli e padri, lontana dalla vera Rivoluzione e dal popolo.

Il testo rivela lo scetticismo sulla reale portata rivoluzionaria delle proteste degli studenti: 

“I vostri orribili slogan vertono sempre sulla presa di potere.” 

A differenza degli operai, che – sostiene Pasolini – rischiano tutto e per fame devono tornare al lavoro, gli studenti non mettono realmente in discussione i propri privilegi sociali.

Pasolini suggerisce in modo provocatorio di 

“andare ad assalire Federazioni! Andate a invadere Cellule! Andate ad occupare gli usci del Comitato Centrale: Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!” 

E subito dopo: 

“Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia! Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto consigliando? A cosa vi sto sospingendo? Mi pento, mi pento! Ho perso la strada che porta al minor male, che Dio mi maledica. Non ascoltatemi”.

La poesia è costruita su un doppio binario retorico: 

"Ahi, ahi, ahi, ricattato ricattatore, davo fiato alle trombe del buon senso. Ma, mi son fermato in tempo..."

L’intero testo si avvale di una retorica fortemente “performativa”, ironica, a tratti sarcastica e paradossale: il capovolgimento dei ruoli (poliziotti = figli del popolo, studenti = figli di papà) funziona come “captatio malevolentiae”, come dichiarò lo stesso Pasolini. Anche la sequenza delle immagini si basa su dettagli crudi della vita popolare (“la casupola tra gli orti con la salvia rossa... i bassi sulle cloache... vestiti come pagliacci... stoffa ruvida che puzza di rancio fureria e popolo...”), mentre la polemica verso la borghesia degli studenti è costruita su un crescendo di rimproveri morali, antropologici e – proprio secondo la volontà dell’autore – anche autoironici.

Il testo si chiude con una sorta di ritrattazione: 

“Oh Dio! che debba prendere in considerazione l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?”

La poesia di Pasolini scatenò polemiche fortissime sia tra gli studenti sia tra gli intellettuali e i quadri politici di sinistra. Moltissimi lettori e protagonisti del movimento contestarono aspramente l’apparente “presa di posizione a favore” della polizia contro gli studenti. Le accuse principali furono di non comprendere il cambiamento sociale in atto, di esibire una “visione immobilistica della lotta di classe”, di ignorare l’alleanza tra studenti e operai, e di alimentare la narrativa della borghesia dominante.

Particolarmente famoso fu il dibattito pubblico su “L’Espresso” del giugno 1968, a cui presero parte tra gli altri Alberto Moravia, Goffredo Parise, Eugenio Montale, Guido Piovene, Franco Fortini, intellettuali stranieri come François Revel, Johannes Agnoli e Michel Butor. Ognuno diede un’interpretazione diversa e spesso contrastante del testo, sottolineando il suo carattere ambiguo, provocatorio e complesso.

Moravia, pur premiando la poesia civile di Pasolini, dichiarò: “Pasolini ha detto pure alcune verità particolari inoppugnabili. È verissimo che gli studenti sono figli della borghesia e spesso ne parlano il linguaggio. [...] Forse si è lasciato trascinare a considerare soltanto gli studenti italiani, ma la rivolta studentesca va guardata nella sua totalità, nel mondo intero. Allora bisogna subito dire che è l’avvenimento più importante, più consolante e più positivo che si sia verificato in questi ultimi vent’anni”.

Montale definì il testo “uno sfogo personale più che una poesia”, sottolineando la parzialità delle accuse agli studenti. Goffredo Parise vi vide un confuso e affascinante “sfogo di un ex-povero”, mentre Guido Piovene rilevò che il testo era diretto contro “l’opportunismo intellettuale e la malafede delle troppe mosche cocchiere del movimento studentesco”, più che contro i giovani stessi.

Critici come François Revel e Johannes Agnoli evidenziarono invece i fraintendimenti del marxismo da parte di Pasolini e rimproverarono all’autore di cedere a un sentimentalismo reazionario: “Dal punto di vista politico mi pare che Pasolini, col suo poema, s’inquadri in modo abbastanza chiaro in quelle tendenze controrivoluzionarie e reazionarie che s’impegnano a soffocare ogni movimento di solidarietà tra rivolta studentesca e emancipazione delle masse”.

All’interno della sinistra italiana, la reazione fu molto aspra. Durante una tavola rotonda su “L’Espresso”, dirigenti come Lucio Magri, Foa e Petruccioli contestarono a Pasolini di avere ignorato le trasformazioni della classe operaia, di non capire le radici sociali dei giovani e di offrire – consapevolmente o meno – munizioni alla reazione. Dal canto suo, Pasolini replicò che “il vero bersaglio della mia collera non sono tanto i giovani, che ho voluto provocare per suscitare con essi un dibattito franco e fraterno; l’oggetto del mio disprezzo sono quegli adulti, quei miei coetanei, che si ricreano una specie di verginità adulando i ragazzi”.

La ricezione di “Il PCI ai giovani” ha attraversato diverse fasi. Nel 1968, l’interpretazione prevalente fu quella della ‘provocazione’, spesso fraintesa, indirizzata contro il movimento stesso e tacciata di “oggettivo” sostegno alla repressione poliziesca. In seguito, la critica si è orientata a leggere il testo come sintesi di molte tensioni tipiche della stagione pasoliniana, tra nostalgia per il sottoproletariato, denuncia del conformismo borghese e sfiducia nella reale portata rivoluzionaria dei nuovi movimenti giovanili.

Come ha scritto Alfonso Berardinelli nella prefazione agli “Scritti corsari”, “L’invisibile rivoluzione conformistica di cui Pasolini parlava con tanto accanimento e sofferenza dal 1973 al 1975 non era affatto un fenomeno visibile. Chi ricorda anche vagamente le polemiche giornalistiche di allora, a rileggere questi ‘Scritti corsari’ può restare sbalordito”. Roberto Carnero aggiunge: “Pasolini identificava nell’omosessualità il più alto grado di diversità possibile, radicale e indicibile, il riassunto di tutte le diversità”.

Altri critici contemporanei (Domenico Scarpa, Franco Fortini, Rossana Rossanda) hanno sottolineato la capacità del testo di svelare gli inganni dell’omologazione borghese nei linguaggi rivoluzionari e l’impossibilità di una autentica rottura senza un radicamento genuino nella classe operaia e nelle esperienze storiche della Resistenza e dei movimenti popolari.

Una ricezione più moderna, come quella di Piero Sansonetti su “l’Unità” (2003), nota che le ragioni di Pasolini appaiono, a distanza di decenni, più attuali rispetto alle “ruggini ideologiche” dei suoi detrattori dell’epoca, e che il monito a non confondere rivoluzione e ribellione conservi un valore di fondo per la critica della società postmoderna e delle sue nuove forme di conformismo.

“Il PCI ai giovani” segna un punto di svolta nella parabola politico-intellettuale di Pasolini. Questa posizione divenne centrale negli anni successivi, fino ai “Scritti corsari” dove Pasolini denunciò la “rivoluzione conformistica” degli anni Settanta e il nuovo totalitarismo della società dei consumi, e alle “Lettere luterane”, in cui propose analisi sempre più amare e lucide sulle dinamiche della modernizzazione italiana e dei suoi effetti antropologici.

Commento

L’opera di Pasolini trascende la pura cronaca per trasformarsi in “atto performativo”, pedagogico e profetico. Egli si pone come “intellettuale eretico”, convinto che la funzione del letterato sia di “dire la verità”, anche se sgradevole, antisistemica, capace di disturbare tanto più che di consolare. La sua denuncia del “fascismo di sinistra” e della “nuova borghesia” si colloca in una stagione che rielabora la lotta per la liberazione dentro e oltre le categorie della tradizione novecentesca.

Nel corso degli anni, il testo è stato variamente riletto. Nell’immediato, fu interpretato soprattutto come un attacco al movimento e ai suoi alleati, ma a partire dall’epoca degli “anni di piombo” e della disillusione rispetto alle promesse della rivoluzione, “Il PCI ai giovani” è stato visto come un testo profetico, capace di leggere la metamorfosi antropologica della società italiana molto prima che questa si manifestasse in modo macroscopico.

Le letture successive hanno fatto emergere l’attualità delle intuizioni pasoliniane: il rischio dell’omologazione dei movimenti, la perdita di differenza tra classi, l’egemonia di una borghesia che si fa “società intera”, la crisi di legittimazione delle opposizioni, la necessità di riflessioni critiche radicali dentro e contro ogni nuova “religione civile”.

Va sottolineata la modernità della polemica di Pasolini contro gli “adulatori di mezza età” e la funzione pedagogica della scrittura, sempre volta alla provocazione e alla formazione di una coscienza critica inquieta e non pacificata.

Analizzare “Il PCI ai giovani” significa confrontarsi con uno dei momenti fondamentali della cultura italiana contemporanea. Il testo, strappato al contesto da slogan e semplificazioni, è un mosaico di ambivalenze, ironie amarissime, paradossi pedagogici e veri lampi di profezia. In esso Pasolini si fa araldo di un’antropologia delle marginalità, difensore di una cultura della carità e della differenza, fustigatore di ogni conformismo rivoluzionario o restauratore.

Lontano da ogni rassicurazione, la forza scandalosa della sua posizione sta proprio nella capacità di mostrare i limiti delle “rivoluzioni della borghesia”, l’inevitabilità dell’autocritica e la necessità di riconoscere che il desiderio di autenticità rivoluzionaria può essere, esso stesso, ambiguo e fragile. Lo stile “aperto”, bruciante e autocritico, ha fatto scuola non solo in campo letterario, ma anche come esempio di postura intellettuale di dissenso dall’interno della propria comunità di appartenenza.

Il tempo ha confermato molte delle ansie pasoliniane sulla società dei consumi e le derive della cultura di massa, ma ne ha anche dilatato i nodi e le aporie, rendendo “Il PCI ai giovani” un testo irriducibilmente vivo, capace di far pensare, dividere e inquietare anche oggi.

Bruno Esposito

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Il PCI ai giovani - La polemica



Curatore, Bruno Esposito

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