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venerdì 7 marzo 2025

Pasolini, III° Le corbeau - Uccellacci e uccellini - Vie nuove numero 19, del 13 maggio 1965

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini,  III° Le corbeau
Uccellacci e uccellini

Vie nuove numero 19

del 13 maggio 1965

pag. 30 e pag. 63


( © Trascrizione integrale da cartaceo, curata da Bruno Esposito )


   La «voce» giusta, aggiornata, onesta, anche profonda, o almeno profondamente comprensiva, dell’ideologia, è la voce del corvo: egli appartiene e non appartiene alla vita, comprende la vita con un distacco che è anche esclusione: ha esperienza di una vita che in fondo egli non ha, e questo lo mette in una posizione imbarazzante, povero animale parlante, di cui ha coscienza e ciò dà ancora più umanità alle sue parole, alla sua partecipazione, al suo impegno.

   Il giorno è uno di quei giorni di sole, né primavera né estate, che si fanno godere dagli uomini quasi inconsapevolmente. Il sereno, la luce, l’arietta di mare ci sono, ma è naturale che ci siano. E il mondo intorno è quello dei poveri, com’è naturale che sia. Acilia, Vitinia, le campagne verso i Castelli o verso il mare, le casette, le baracche, i lotti, i casali rustici, i ponticelli, le siepi, le radure scottate dal sole.

Marcello e suo figlio Ninetto vanno, vanno, in quel bel giorno di sole. Vengono da un luogo povero e vanno in un altro luogo povero, a fette, col cavallo di San Francesco; oppure, di tanto in tanto, con un vecchio autobus scassato. Vanno.

  Il corvo si aggiunge a loro, come un compagno di strada, irrichiesto, un po’ gratuito, imbarazzato: ma subito amico e comprensivo. Indovina subito, per scherzo, su di loro tante cose, i loro guai, le loro mire: non vuol farsi dire le ragioni di quella loro scarpinata, vuole indovinarle da solo: e ne dice tante, appunto, tutte reali; ma non azzecca, divertendosi molto, quella vera: essi vanno da una chiromante a farsi dare una medicina per far passare il verme solitario a Ninetto. Ah, ah, il corvo ride, con la sua timida risata filosofica.

  Presto i tre diventano buoni amici, benché i due uomini, il padre, Marcello, un uomo tosto e fantasioso, e il figlio Ninetto, un paraguletto un po’ stupidello, tutto riso, come un arabetto, e sulla via di ingrassarsi e intostarsi come il padre, abbiano sempre un’ambigua riserva mentale, un dissimulato sospetto «qualunquistico» nei riguardi della bestiola tutta voce. Capiscono non capiscono? ascoltano o non ascoltano? Bene, un po’ questo e un po’ quello, come avviene nella vita.

  Durante la gran scarpinata per le campagne oltre la periferia, succedono tante piccole cose, tanti piccoli incidenti: che non son nulla, e insieme sono delle enormità. È il corvo che ogni volta, da ogni particolare, trae i significati: la loro portata ideologica. E lo fa con estremo pudore, poveretto, e con assoluta lucidità, che non esclude l’umanità: egli tiene sempre presente che parla con dei semplici e si adatta a loro. Sarebbe assolutamente ingiusto definirlo un «rompicojoni», eppure, in fondo, sì, in fondo, lo è. Ma no, in fondo in fondo, non lo è…

  Facciamo due o tre esempi, improvvisati (perché potremmo sceglierne anche degli altri). La mattina è avanzata, il luogo deserto. Ed ecco che padre e figlio avvertono certi stimoli, non piacevoli, per cui devono appartarsi dietro una grande siepe polverosa, perdendosi ognuno nella solitudine della sua privacy in una sorta di contemplativo raccoglimento.

  Il corvo resta al di qua della siepe, pudicamente aspettando. Ma ecco che si sentono delle urla, che si avvicinano, e poi altre urla, più rauche, e poi le voci del padre Marcello e del figlio Ninetto, che rispondono, imbarazzate, offese… Il corvo vola oltre la siepe, giusto nel momento in cui padre e figlio si aggiustano l’ultimo bottone, e un energumeno capo, seguito da altri energumeni dipendenti, sta sopraggiungendo sul luogo. A farla breve: il padrone del campo, evidentemente esasperato per una lunga consuetudine, dovuta certo all’ubicazione solitaria e accogliente della sua proprietà, ce l’ha contro i due profanatori; li insulta; li minaccia; non solo, ma pretende da loro, che, con le loro mani, portino altrove ciò che vi hanno depositato. Marcello e suo figlio, per amore di pace, avrebbero magari anche abbozzato sugli insulti e le minacce, ma a quest’ultima pretesa, si sentono passare dalla parte della ragione, e cominciano a gridare insulti a loro volta ecc. ecc. Insomma, dopo le parole si viene ai fatti, Marcello e il figlio danno un sacco di botte al contadino, e ai due tre vecchietti che erano con lui, ma al sopravvenire dei figli giovani, uno armato di fucile, se la danno a gambe, e via a tutta callara per la campagna, sotto il sole, col fiatone, e due tre fucilate che echeggiano alle spalle dietro le siepi. Ecco, da questo episodio di violenza, le corbeau, che benché irrichiesto ha partecipato con imbarazzo e timida ironia alla deplorevole situazione, trova modo di fare molte osservazioni: la violenza nel mondo contemporaneo, la sua bestialità, ciò che ne dice Freud, ciò che ne dice Marx; l’esempio di Gandhi; il dialogo tra marxisti e cattolici fondato sulla non violenza ecc. ecc.

  Mentre egli, bonariamente e con grande semplicità di linguaggio, per farsi capire dai due semplici, dice queste cose, ecco che sulla strada bianca, tre sagome nere si danno da fare intorno a un grosso cassone che si può a stento chiamare automobile. Sono tre napoletani, illuminati negli occhi obliqui come profeti o tigri, con venti centimetri di gamba di meno, e un negro.

  Marcello e Ninetto sono chiamati dal dovere civico a dare una mano a spingere il macchinone carico, e lo fanno, malgrado i calli, e la corsa di poco prima. Spingono, spingono per un chilometro, ma la macchina non parte. Tutti accasciati si riposano sul ciglio della strada, e così si va sul discorso dei calli; neanche a farlo apposta i napoletani pare abbiano un rimedio infallibile, anche se un po’ costoso, che fa sparire i calli per sempre ecc. ecc. A Marcello, però, glielo potrebbero dare per mille lire. Il negro lo tira fuori, Marcello, pieno di speranza l’osserva, lo palpa e infine lo compra, coi soliti discorsi del burino che fa un affare ecc. ecc. Appena conclusa l’operazione, i napoletani e il negro montano in macchina, e questa, sia pur scricchiolando e scoppiando, parte. Allora padre e figlio sul ciglio della strada si tolgono pazienti e speranzosi scarpe e pedalini, e cominciano a ungersi i piedoni con l’unguento miracoloso. Ed ecco il corvo che fa la sua timida e un po’ forzata risata filosofica. «Leggete» dice, indicando la scatoletta. Ma i due ci sfangano poco a leggere: il padre incarica il figlio, che dopo molti sforzi riesce a dire a voce alta per intero una frase incomprensibile. È il corvo che ne spiega il significato: la pomata che si 


stanno dando ai piedi è un antifecondativo. Che è questo «antifecondativo»? fanno i due. Che è il «controllo delle nascite»? (Marcello ha otto figli). E di qui gli ilari discorsetti del corvo; sul vero grande problema del futuro, l’eccesso di popolazione; questo problema attualmente in India, in Cina; e ancora, il problema morale che implica il controllo delle nascite; la posizione della Chiesa, il Concilio ecumenico…

  Ma sotto le sue parole, seguite dalle facce di Marcello e di Ninetto che sono un poema di curiosità vera o falsa, di cortesia doverosa e di sguardi al cielo come di chi si sente le scatole proprio rotte, di sguardi ammiccanti, tra loro, e di sguardi carichi di reale e intrattenuto rispetto verso il compagno di viaggio – ecco altri fatti, fatterelli, cose e persone di ogni giorno, nei pomeriggi di sole, nella campagna intorno a una grande città: ragazzini, nozze, soldati, fabbriche nuove di zecca, latitudine; ed ecco infine – cosa che non manca mai – su un ponticello, una prostituta. (Presenza del sottoproletariato, squilibrio fra il vecchio mondo della fame e della miseria col nuovo mondo del neo-capitale ecc. ecc. Ce n’ha da parlare il buon corvo…)

Una masnada di facce da galera in una macchina sta passando davanti alla donnaccia, ancora mal osservabile, sul suo muretto. La investono con una bordata dei soliti insulti indistinti, a cui lei indistintamente risponde; poi, più vicino, la macchina dei gangsters, si ferma accanto a dei giovanottelli bravi, per aizzarli contro la donna. Dai mezzi discorsi, dalle battute si ricostruisce una cosa enorme, e cioè: la battona è là, fa la vita, per mantenere dei gatti: l’esercito di gatti affamati che vive intorno al Pantheon o a Largo Argentina. I gatti insomma sono i suoi sostenitori, o i suoi figli, come meglio si preferisca pensare.

  I ragazzetti seguono l’incitazione dei grandi, e vanno a tormentare la battona: che è un curioso spettacolo, enorme come la Soreghina (?), ma zoppa, con un viso bellissimo, ma da matta. È dolce certo coi gatti suoi papponi, di cui i papponi umani sono invidiosi, ma è terribile coi rompiscatole: e infatti mette subito in fuga i ragazzini.

  Tutto questo visto fugacemente dai tre che passano. Ma ecco che Marcello, poco più in là, accusa un terribile mal di pancia (i fagioli della merenda? l’aria freschetta del mattino?): il figlio lo guarda loffio. Ma lui incurante si getta tra le boschine, riguadagna il posto della donna, la guarda, si mette d’accordo, vanno insieme sul posto.

  Il corvo intanto fa col figlio considerazioni umoristiche e leggere sul problema della prostituzione, su quella famosa frase di Fidel Castro: «No, noi non vogliamo sopprimere con la forza le prostitute dell’Avana: esse scompariranno da sole man mano che le condizioni di vita cambieranno»; e di qui delle considerazioni più vaste sulla trasformazione «naturale» di una società dopo un’eventuale rivoluzione, a seconda delle reali condizioni storiche…

  Il padre torna, ma che è che non è, adesso è il Ninetto a essere preso da violenti attacchi di mal di pancia: devono essere stati proprio i fagioli, o la camminata mattutina sulla guazza. Scappa reggendosi la pancia tra le mani in mezzo alle boschine. Raggiunge la donna, si mette d’accordo, va con lei sul posto.

  Poi i tre riprendono il cammino, col corvo che prende argutamente in giro padre e figlio; egli è escluso da quelle e dalle altre cose del mondo, però comprende tutto, umanamente, e quindi con humor e quasi religiosa comprensione, ecc. ecc. Egli viene così a parlare, sempre con facilità e leggerezza, del problema del sesso nell’epoca moderna: sesso e morale arcaica o religiosa, sesso o morale reale, ovvero sesso e società contemporanea; il libero amore del primo comunismo, la rinuncia del comunismo a questa sua prima ipotesi; il moralismo marxista; lo stalinismo; la crisi del marxismo negli anni Sessanta…

  Cammina e cammina, a un certo punto, mentre il corvo continua a parlare, padre e figlio cominciano a rivolgersi delle occhiate. Il padre, guardando con la coda dell’occhio il corvo, apre e chiude la bocca, facendo il gesto di masticare; il figlio non capisce e strizzando gli occhi esprime in silenzio la domanda: «Che?»; il padre ricomincia ad aprire e chiudere la bocca; e così il dialogo continua a lungo con cenni e ammicchi; ma i due non si capiscono perché il corvo, pur continuando a parlare, potrebbe accorgersi della loro disattenzione. Finché il padre si decide, chiede al corvo: «Permette?», si avvicina al figlio, e a bassa voce, come tra malandrini, gli comunica che ha fame, che si è rotto le scatole col corvo, e che gli è venuta l’idea di tirargli il collo e mangiarlo. Il figlio, prima è tutto una profonda colorazione di stupore, poi è subito preso e affascinato dall’idea, ed è tutto una colorazione di felicità e di dritteria. Detto fatto, si riavvicinano al corvo, poveretto, che questa volta non ha capito e continua, continua a parlare, gli tirano il collo, lo spennano e se lo mangiano.



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Pier Paolo Pasolini




©Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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