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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 4 gennaio 2015

SOGGETTO, SOGGETTIVAZIONE, VERITÀ - Foucault e Pasolini, di Serena Di Giaimo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 
 
SOGGETTO, SOGGETTIVAZIONE, VERITÀ
Foucault e Pasolini
Serena Di Giaimo
 
  Michel Foucault ha mostrato come il costituirsi dell’individuo moderno sia legato a una forma di soggettività precaria. La sua precarietà consiste precisamente nella rinuncia ad una forma "più felice" di costruzione di sé, radicata nel rapporto specifico che ha scelto di intrattenere con la verità. Riferendosi continuamente ad essa, cercando di trarla fuori da sé, dove suppone che risieda, il soggetto della relazione di potere si imbriglia in forme di assoggettamento e non riesce a liberarsene se non reiterando la trasposizione di se stesso in oggetto. Quest’ultima é attuata attraverso il discorso, il parlare di sé, il vedersi come soggetto e insieme come centro di conoscenza.
 
Assumendo come modello del potere e delle sue relazioni un modello essenzialmente giuridico-repressivo, il soggetto continua a riproporsi come oggetto di quel sapere che suole opporre al potere, mentre realizza su se stesso un’involuzione etica.
 
Foucault pone l’attenzione su quelle pratiche che il soggetto, in quanto prodotto storico, ha utilizzato, anche inconsapevolmente, per costituirsi, e fissa i punti di rottura che hanno spostato le modalità di soggettivazione a concentrarsi in sistemi di assoggettamento. Lo studio delle forme storiche di soggettività che si sono succedute nel tempo è utilizzato in chiave critica del presente, di quell’attualità che serve al soggetto per assumere un atteggiamento di sfida dei sistemi di verità che lo vogliono imprigionato in un unico modo di essere, il non poter essere "altro".
 
Il soggetto deve ritrovare un modo di vivere ascetico, nella misura in cui il termine rimanda a un lavoro di sé su sé che si dà anche in un esercizio "estetico". Aspetto politico ed etico dovrebbero coincidere in un’"estetica dell’esistenza" come rivalutazione del "rapporto" con la "verità" nella misura in cui essa stessa si pone come "rapporto" che é all’origine dell’elemento ascetico produttivo di alterità. È qui che la ricerca di Michel Foucault incontra quella di Pier Paolo Pasolini.
 
 -La responsabilita’ della verita’ sul soggetto
 
 « […] L’oggetto della mia ricerca sono stati i tre problemi tradizionali: ’’primo, quali siano i rapporti che noi instauriamo con la verità tramite quei "giochi di verità" che sono così importanti per la civiltà e nei quali fungiamo sia da soggetto che da oggetto; secondo, quali rapporti abbiamo con gli altri attraverso quelle strane strategie e quegli strani rapporti di potere; e terzo, quali siano le relazioni tra verità, potere e sé. […] cosa c’è di più classico di queste domande e di più sistematico del passaggio dal primo problema al secondo e poi al terzo per ritornare infine al primo? (1) »
 
 Per definire il tipo di condizionamento che interessa l’individuo nella relazione con gli altri e con se stesso, Foucault utilizza il termine "tecnologie", che designa quelle pratiche associate a particolari forme di dominio, e implicanti specifici metodi di educazione e modificazione delle sue capacità e dei suoi atteggiamenti (2) . Foucault indica quattro tipi interdipendenti di tecnologie, tra le quali figurano come ultime
 
 «le tecnologie del potere, che regolano la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi o domini esterni, dando luogo a un’oggettivizzazione del soggetto; le tecnologie del sé, che permettono agli individui di eseguire, con i propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima - dai pensieri, al comportamento, al modo di essere - e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi […] (3)». 
 
La parola conserva dunque il suo significato etimologico nella misura in cui indica l’impiego di regole atte a dirigere un’ attività e a raggiungere un effetto, nel primo caso da parte del potere sugli individui, nel secondo da parte dell’individuo su se stesso e sugli altri.
 
Le tecnologie implicano inoltre l’interrelazione di quelle tecniche, che confluiscono in un esercizio, una strategia di potere, e di una norma prodotta da un regime di verità, da un investimento di sapere. L’individuo è soggetto e insieme oggetto di "giochi di verità", perché soggetto e oggetto di elementi di conoscenza, che esercitano effetti di potere. Il sapere è tale in quanto esercita un potere, perché mentre ogni enunciato considerato vero crea una possibilità, ovvero esercita un certo potere, ogni esercizio di potere implica un saper fare (4).
 
Foucault ha insistito più volte sul fatto che il principale oggetto del suo studio non fosse il potere, ma il soggetto (5) : non soltanto il potere non doveva essere inteso giuridicamente, come frutto di una decisione, della cessione di un diritto (hobbesianamente intesa) nella ricerca del formarsi di una volontà unica, del dominio di un individuo sugli altri, di un gruppo sugli altri, di una classe su un’altra, né come una sovrastruttura costruita intorno a rapporti di produzione storicamente determinati, ma andava studiato laddove la sua intenzione fosse investita all’interno di pratiche reali e di effetti reali; in più bisognava chiedersi non chi e perché volesse dominare, ma quale fosse il processo di assoggettamento di corpi, gesti, comportamenti.
 
Altrove Foucault afferma che « […]il potere non è un’istituzione, e non è una struttura, non è una certa potenza di cui alcuni sarebbero dotati: è il nome che si dà a una situazione strategica in una società data» (6) . La situazione strategica cui fa riferimento è provocata dalla molteplicità dei rapporti di forza che generano situazioni di potere. Il potere dunque non è mai sempre uguale a se stesso, ma è onnipresente, perché non proviene da un’unica entità; non può definirsi in termini di proprietà, ma si esercita a partire da innumerevoli punti localizzati all’interno di relazioni, immanenti ad altri tipi di rapporti quali quelli economici, di conoscenza, relazioni sessuali, etc. e produttivi rispetto ad essi dal punto di vista di effetti che determinano all’interno del corpo sociale delle forme di dominazione: queste forme non sono spiegabili dal punto di vista di un’istanza superiore, ma sono intelligibili perché attraversate da un calcolo. Non v’è, rispetto al potere, un’esteriorità assoluta raggiunta la quale si possa essere in grado di annullarlo, ma innumerevoli punti di resistenza che si configurano come antagonisti all’interno del potere stesso, per cui non si può mai pensare di essere fuori dall’ambito del potere, nemmeno quando lo si combatte (7).
 
Dunque il potere non è una sostanza che possa essere applicata alle relazioni, ma una condizione di queste ultime, e gli individui sono degli elementi attraverso i quali esso transita. Strumenti del potere sono appunto quelle tecnologie la cui definizione ha un’importanza enorme perché ci permette di comprendere come anche il sapere nella sua costituzione faccia parte del gioco del potere, e come a tale gioco partecipi anche quella verità che attraverso di esso si produce. L’interconnessione di sapere e potere dal punto di vista delle tecnologie fa emergere il lato produttivo, e non esclusivamente repressivo, del potere.
 
La costituzione correlativa del soggetto e dell’oggetto avviene attraverso un modo di agire e al tempo stesso di pensare che Foucault riassume sotto il termine di "pratiche": l’analisi delle relazioni di potere assume un ruolo fondamentale dal momento in cui quelle pratiche sono inscritte in contesti istituzionali in cui le diverse tecnologie agiscono per mezzo di esse modificando il comportamento dell’individuo; Foucault inoltre mostra come alcune forme di "governo" degli individui, e in particolare di alcune tipologie di individuo, come i folli, i malati, i criminali, siano state determinanti nei differenti modi di oggettivazione del soggetto (8) .
 Il termine "governo" assume un’ accezione particolare in Foucault: esso va oltre il significato propriamente istituzionale per assumere quello derivato direttamente dall’etimologia della parola (Foucault ne fa un excursus nella lezione dell’8 febbraio 1978 al Collège de France (9), e che si riferisce al dominio che si può esercitare direttamente su se stessi e sugli altri, sul corpo come sull’anima e sul modo di agire. "Governo" dunque significa per Foucault il modo in cui la "condotta" degli individui può essere diretta: "condotta" nel senso di «maniera di condursi e farsi condurre, la maniera in cui ci si comporta sotto l’effetto di una condotta, in quanto atto di condotta o di conduzione (10)».

Il modo di azione o condotta che agisce sulle azioni o condotte degli altri è l’esercizio del potere che definisce una relazione di potere, «un’azione su un’azione, su azioni attuali, oppure su azioni eventuali, future o presenti» (11). In questo senso il potere esiste solo in atto, perché non consiste esclusivamente in una relazione tra individui, ma nel modo in cui si agisce come soggetti in quella relazione sulle azioni dell’altro, il quale d’altra parte è interamente riconosciuto come soggetto che agisce e che è capace di azioni. Il potere non si riduce dunque alla manifestazione di un consenso, per esempio alla rinuncia alla libertà come diritto, né a un rapporto di violenza che agisce su un corpo o sulle cose, anche se non esclude né il consenso né la violenza come strumenti o risultati del suo proprio esercizio; ma la sua natura è proprio quella condotta definita come campo aperto di azioni su possibili azioni al fine di determinare altre azioni possibili. La sua natura consiste nel governare nel senso di «strutturare il campo di azione possibile degli altri (12)».
 
Condizione fondamentale del potere è dunque la libertà intesa come libertà di agire insita nella capacità di azione che si riconosce a un soggetto, come apertura di un campo di possibilità di azione. È necessario che vi sia libertà affinché il potere venga esercitato, e libertà c’è anche nel rifiuto a sottomettervisi che apre a una possibilità di resistenza. «Nel cuore della relazione di potere, e a provocarla costantemente, c’è la resistenza della volontà e l’intransigenza della libertà» (13). Potere e libertà non si oppongono, ma si implicano reciprocamente.
 
Quando Foucault dice che «nel pensiero e nell’analisi politica non si è ancora tagliata la testa al re» (14), sottolinea l’esigenza di domandarsi, «piuttosto che chiedersi come il sovrano appare in alto, […] come si sono a poco a poco, progressivamente, realmente, materialmente costituiti i soggetti, […]» (15). E il soggetto si costituisce come tale perché sottomesso a una produzione di verità che è il motore del funzionamento del potere e il motore di quella verità è a sua volta la volontà alla quale esso sfugge, pur essendone determinato attraverso il "discorso vero".
 
Le forme di conoscenza di sé che mirano al raggiungimento di una verità liberatoria dagli effetti coercitivi del potere legalmente e istituzionalmente inteso come esclusivamente repressivo, non possono dunque essere concepite come opposte al potere, perché prodotto di quello stesso assoggettamento che le sottomette.
 
La soggettività , spiega Foucault, è «il modo in cui il soggetto fa esperienza di se stesso in un gioco di verità in cui è in rapporto con sé» (16) , e avviene attraverso il suo modo di soggettivazione, ovvero il suo determinarsi, costituirsi come soggetto di conoscenza, e il suo modo di oggettivazione, ovvero il determinare le condizioni attraverso le quali stabilire l’oggetto di conoscenza, nella misura in cui si pone esso stesso ad esserne oggetto, conferendo ai discorsi generati dai saperi legati a quella conoscenza valore di verità. Il soggetto viene dunque a coincidere con la soggettività che in quel momento gli è connessa, che è sempre soltanto una delle possibilità di organizzare una coscienza di sé in quel momento. È questo che Foucault intende dire quando asserisce che il soggetto non è una sostanza ma una forma, più precisamente una forma di soggettività che non è mai identica a se stessa in quanto varia a seconda delle forme di rapporto che intrattiene con se stesso (17). Il termine "sé", di conseguenza, non è sostanzializzato, reificato, ad indicare una struttura o un oggetto, ma indica l’esperienza, ogni volta diversa, di una soggettività. Non è il "Sé" come istanza psichica, ma il "sé" come rappresentazione di sé.
 
Il problema dell’Occidente è che la volontà di sapere, di conoscere il nostro profondo sé, ci assoggetta a rapporti di potere difficili da riconoscere. Il desiderio culturale di conoscere la verità su di sé spinge infatti l’individuo a "dire la verità", la quale viene sottoposta a esame da altri individui e si connette ad un sapere. Questo sapere crea effetti di potere che si intersecano nei sistemi di controllo già presenti che consistono nelle dottrine morali e religiose e nelle scienze, a loro volta generate attraverso altre tecnologie. Gli individui divengono oggetti di sapere che, volendo conoscersi, si raccontano e apprendono ad operare delle trasformazioni su se stessi, mediante le tecnologie di sé, così come venivano trasformati in "corpi docili" (18) dalle tecnologie disciplinari: queste ultime sono il prodotto di un "potere disciplinare", che prende corpo nelle istituzioni chiuse del XIX sec. (prigioni, ospedali, fabbriche, scuole), investendo gli individui in un meccanismo di oggettivazione, il quale, rendendoli utili e "disciplinati", ne fa condizioni rinnovabili del funzionamento del potere, attraverso un principio di sorveglianza gerarchizzata introdotto dalla diffusione dei "castighi incorporei"sostitutivi della punizione generalizzata in uso fino al Settecento. Le discipline dunque, addestrando e curando il corpo e convertendo in valore economico la forza della persona, assoggettano l’individuo aumentandone l’efficienza, controllandolo e consacrandolo a un sapere. Non può darsi dunque verità che si opponga dialetticamente al potere, ma necessariamente si dà un potere che ha valore di verità, in quanto il sapere che la produce è condizione del suo funzionamento; inoltre non può darsi potere che sia indipendente da una volontà di verità che l’uomo moderno sente come parte integrante della propria cultura e natura e che auspica nell’esperienza della conoscenza di sé. Dire la verità su se stessi equivale a prendere parte a tecnologie che si intrecciano a quelle disciplinari, anche se non sono dello stesso tipo, in una strategia di potere e di dominio.
 
Nei secoli XVII e XVIII, dietro grandi garanzie di libertà, meccanismi non rivelati di potere hanno inglobato l’individuo e la sua esistenza, la sua vita biologica, concentrandosi in quello che Foucault chiama il bio-potere: esso associa alle tecniche disciplinari un principio di regolazione dei fenomeni di massa, come nascita, morte, procreazione, malattia. Lo Stato diventa garante non della società riunita attraverso un contratto, non dei corpi individuali, ma della popolazione, nuovo concetto biologico–politico che viene posto al centro dell’interesse scientifico.
 
L’individuo diventa per questo oggetto di un sapere politico e scientifico: se ne occupano le scienze umane e sociali. L’unificazione di "interesse per la specie" e "politica del corpo" si realizza, come precedentemente accennato, nel XIX sec., mediante il discorso sul sesso, erede del meccanismo di controllo e di sapere sugli individui già presente all’interno della pratica cristiana della confessione, legittimante un rapporto di sé con sé in termini di verità (19).
 
 -La soggettivita’ come differenza nella storia
 
 La cosa importante che Foucault ha voluto mettere in evidenza con una storia della sessualità è che la repressione della sessualità costituisce un modello di sapere che è giuridico, e che quindi va messo in discussione. La sessualità viene considerata repressa ad opera di un potere appunto repressivo, che impedirebbe la finalità di una liberazione sessuale insieme al diffondersi di un sapere sulla sessualità; che impedirebbe il raggiungimento di una verità. Quindi fa sorgere la possibilità di un sapere che si opponga al potere e che elimini la repressione della sessualità insieme ad esso. È il discorso ad unificare legge, potere, sessualità, sapere. Quel discorso è, per Foucault, un modo di assoggettamento, perché provenendo dal soggetto ne fa un oggetto, proprio sfruttando il suo spirito di libertà, la sua volontà di sapere di sé. Ne deriva un’avversione a quelle forme di discorso che mettono al centro il soggetto come oggetto privilegiato di studio e di sapere, soggetto che in questo modo si "soggettivizza" secondo un’identità precisa.
 
Foucault rifiuta l’idea di un soggetto trascendente, che trova la verità in se stesso e che è fondamento di ogni conoscenza e perciò nucleo privilegiato di conoscenza. Il soggetto è per lui costruito dalla storia, ovvero dalle pratiche politiche e sociali, che hanno come condizioni le relazioni di potere. Per questo bisogna studiare il potere a partire dalla relazione di potere, e abbandonare il modello giuridico di un soggetto di diritto e di potere: quest’ultimo viene amministrato rapportandosi a categorie universali, valori universali che sono sempre pericolosi, e che sono giustificati dalla propria trascendenza, dal fatto che egli si collochi sempre al centro del proprio sapere e ne discuta continuamente.
 L’età moderna, come Foucault ha spiegato in Le parole e le cose (20), ha assegnato all’uomo la funzione di oggetto del sapere e di soggetto che conosce, quando esso resta sempre un prodotto storico, e la storia è produzione continua di differenze, che hanno un ruolo estremamente condizionante nella costituzione di nuove forme di esperienza: per questo la ricostruzione storica è vitale per la comprensione dell’esperienza in cui ci troviamo, dei vincoli che la condizionano, dei margini di libertà che in essa sono praticabili.

Foucault fa propria l’idea della discontinuità storica, che è caratterizzata da rotture epistemologiche nell’ordine del sapere e che è libera da ogni prospettiva di progresso, spostando l’attenzione dalla domanda sulla verità a quella sul senso di ogni esperienza, senso che si dà soltanto sullo sfondo dell’assenza di quel senso stesso in una precedente esperienza storica. In Microfisica del potere (21) Foucault sottolineava la necessità di giungere a un’analisi storica che rendesse conto della costituzione del soggetto nella sua trama storica: sottolineava l’esigenza di una "genealogia", ovvero una storia che rendesse conto della costituzione dei saperi, dei discorsi, dei campi di oggetti, senza aver bisogno di riferirsi a un soggetto trascendente rispetto agli avvenimenti che ricopre lungo la storia, nella sua identità vuota (22). Pertanto la storia risulta intelligibile dal punto di vista delle strategie, delle tattiche e delle lotte interne a relazioni di potere che producono, attraverso rapporti di forza, un disporsi di avvenimenti che a loro volta producono effetti diversi a seconda della loro portata, e che devono essere analizzati sin nel più piccolo dettaglio (23). Parafrasando Nietzsche, Foucault afferma che compito della genealogia è reperire la singolarità degli avvenimenti al di fuori di ogni finalità monotona e spiarli in ciò che sembra non aver storia: sentimenti, coscienza, istinti (24). La genealogia si oppone in questo modo alla ricerca dell’origine, in quanto scopre che dietro le cose non c’è alcuna essenza autentica, ma il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza è stata costruita da figure che le erano estranee. Dietro ciò che si presume essere la verità dell’origine, si cela l’azione del disparato, si cela che il luogo della verità altro non è che il risultato della proliferazione di errori, di cedimenti, di agitazioni febbrili, che è il corpo stesso del divenire storico (25). Ricercando la provenienza, non l’origine, di quel divenire storico, scopriamo che alla radice di ciò che conosciamo e che siamo non v’è la verità dell’essere, ma l’esteriorità dell’accidente (26). La genealogia, dunque, deve essere la storia del divenire dell’umanità, i cui avvenimenti sono emergenze di interpretazioni diverse delle morali, degli ideali, dei concetti metafisici (27). La genealogia deve opporre una storia effettiva al senso storico tradizionale: la storia non serve, sottolinea Foucault, per riconoscerci nel passato, per supporre in noi una coscienza sempre identica a se stessa, perché se il senso storico si lascia conquistare dal punto di vista sovrastorico, è facile per la metafisica riassumerlo sotto le specie di una scienza oggettiva. La storia effettiva non deve fondarsi su nessuna costante, ma deve fare a pezzi il gioco dei riconoscimenti, introducendo il discontinuo nel nostro essere, poiché il sapere non è fatto per comprendere, ma per prendere posizione. Il vero senso storico, dunque, riconosce che viviamo senza punti di riferimento né coordinate originarie, in miriadi d’avvenimenti perduti (28). La genealogia ci serve per capire che la storia non ha come fine quello di permetterci di ritrovare le radici della nostra identità, ma di dissiparla, facendo emergere tutte le discontinuità che ci attraversano: bisogna, secondo la lezione di Nietzsche, sacrificare la nostra preoccupazione di verità al movimento della vita, facendo sì che il nostro volere-sapere disfi continuamente l’unità del soggetto di conoscenza, di nuovo continuamente ricreandolo, a dispetto dell’accostarsi a una verità universale (29). L’uso del passato è per Foucault sempre volto a mostrare l’oggi come differenza nella storia, piuttosto che come continuità di una soggettività universale.
 
 -Tra il dentro e il fuori
 
 Il famoso dipinto di Velasquez, "Las Meninas", raffigura un pittore che osserva il suo modello, discostandosi dal proprio lavoro, in un momento di pausa: della tela che sta dipingendo possiamo vedere solo il retro. Accanto al pittore si trovano la principessa Margherita con le sue damigelle d’onore e il resto del suo seguito, mentre la luce di una finestra sfonda lateralmente la stanza illuminandone i personaggi. Ciò che non vediamo è il modello della raffigurazione, al quale però è rivolto lo sguardo di quasi tutti i componenti del quadro. I modelli sono il Sovrano Filippo IV e sua moglie, la cui immagine, però, si riflette in uno specchio che è posto al centro del quadro, affisso alla parete della stanza della scena, ed è l’unica, tra le cornici esposte, a brillare di una luce che sembra sua propria. Velasquez ha forzato la prospettiva che costringe lo specchio a duplicare l’immagine che gli si pone davanti, che in questo caso avrebbe dovuto essere incarnata dall’infanta Margherita con il suo seguito; invece proietta le figure dei sovrani, che sono un frammento dello spazio esterno e che, confinate in quella posizione incerta, non in piena luce, come gli altri personaggi, non permettono allo spettatore di assumere il loro punto di vista, cioè al centro della scena. Infatti, sullo sfondo del dipinto, a testimonianza di ciò, si trova uno spettatore di passaggio, che, incerto sulla soglia di una porta, al limite tra la stanza e un altro spazio esterno, indugia tra il dentro e il fuori della scena, non dominandola, ma osservandola da un punto di vista simmetrico a quello dei sovrani.

In Le parole e le cose (30) Foucault, attraverso la descrizione di questo dipinto, aveva cercato di mostrare come il soggetto trascendente fosse un’invenzione recente della modernità. Il dipinto compendiava tre funzioni del rappresentare e del guardare: il pittore che entra nella rappresentazione, raffigurando se stesso mentre si astiene per un momento dal dipingere; i modelli della sua opera, che raccolgono lo sguardo di tutti i personaggi rappresentati, ma che compaiono di riflesso in uno specchio, che diventa il centro dell’attenzione; e lo spettatore, che mentre osserva di spalle la scena, viene trascinato all’interno del quadro. Si tratta, dunque, di un gioco di rappresentazione, nel quale però, sottolinea Foucault, manca il punto di vista di un soggetto che riassuma in sé tutte le funzioni del vedere e del rappresentare: prima dell’età moderna, nell’episteme classica, incarnata dal dipinto di Velasquez, non esisteva un soggetto che si collocasse al centro, che fosse insieme oggetto di un sapere e soggetto di conoscenza, ma un soggetto che sfugge alla rappresentazione e si raffigura come un fuori-quadro; l’uomo, dunque, non aveva una funzione predominante, ma si limitava ad essere una rappresentazione delle cose, il cui ordine si rifletteva nell’uomo.

Anche Pier Paolo Pasolini ha insistito sul dipinto di Velasquez in più occasioni, tra le quali il suo scritto per il Teatro "Calderòn" (31), in cui la doppia natura della rappresentazione, in cui ogni cosa rimanda a qualcos’altro, si realizza nella storia dei sogni e dei risvegli di Rosaura, personaggio che rincorre la consistenza di un’identità che le sfugge continuamente assumendo, di volta in volta, tutte le forme di soggettività della storia borghese. La moltiplicazione degli sguardi e delle rappresentazioni, la riflessività della realtà in un gioco di visibilità-invisibilità, costituiscono l’interesse di cui è intrisa l’intera sua opera. La sovrapposizione fra modello, spettatore e pittore, l’elisione del soggetto, per cui la rappresentazione si offre come pura rappresentazione, assumono una connotazione politica, funzionale alla comunicazione con il lettore-spettatore, con il pubblico: tematizzano il guardare e l’essere guardati, l’essere dentro e l’essere fuori, vivendo sulla propria pelle gli effetti della propria opera, entrandoci "in carne ed ossa", con il proprio corpo: si tratta degli elementi caratterizzanti una particolare forma di porsi come soggetto di "rapporto" come modo nuovo di utilizzare corpo ed esperienza, pensiero e passato, come apertura a una forma di soggettività "altra". Esigenza comune a Foucault e Pasolini é un atteggiamento al limite tra passato e presente che implica una "desacralizzazione" delle forme di soggettività pensate come universali. Esse sogliono infatti utilizzare la storia come conferma di sé anziché come opposizione, nella stratificazione dell’esperienza, di esperienze possibili non univoche e autoreferenziali, all’idea di una conoscenza vera che si debba avere di sé. Spostando cosi’ sull’azione diretta sull’attualità, la concentrazione di forze che il soggetto investe nella produzione di un sapere che lo assoggetta. 

-Necessita’ di una costituzione etica del soggetto
 
 Il fatto che si possa opporre continuamente resistenza all’interno di una relazione di potere non significa che non possano esservi situazioni di dominio: Foucault spiega nel saggio "L’etica della cura di sé come pratica di libertà" (32) che uno stato di dominio è possibile e individuabile laddove un individuo o un gruppo sociale giungano a rendere immodificabili delle relazioni di potere, nelle quali, dunque, non siano più possibili delle pratiche di libertà. Per pratica di libertà si deve intendere quell’esercizio di sé su sé attraverso il quale il soggetto, all’interno delle relazioni che intrattiene con se stesso e con gli altri, definisce continuamente le condizioni di ammissibilità, di accettabilità della propria esistenza. Le pratiche di libertà sono destinate ad arricchire continuamente gli effetti di un processo di liberazione che ha interessato, per esempio, un popolo o una società. Non esiste un fondo, una natura umana che vada liberata una volta per tutte. La pratica di libertà si definisce come un ethos, ovvero un modo di condursi, una pratica di sé, che consenta di giocare con il minimo possibile di dominio, sempre però all’interno di una relazione di potere, ed è basata sul riconoscimento della libertà del soggetto che sceglie di utilizzarla nel modo in cui può disporne meglio.
 
Foucault inquadra quella pratica di sé nell’ottica di un’ "etica" intesa come "pratica riflessa della libertà" (33). Altrove precisa che l’etica è «il genere di relazione che si dovrebbe avere con se stessi, il rapporto con sé, […] che determina il modo in cui l’individuo si costituisce come soggetto morale delle sue azioni» (34), una relazione che si inserisce in una posizione in qualche modo intermedia tra il codice morale e gli atti morali, che costituiscono il comportamento effettivo degli individui rispettivamente ad esso. Foucault pone continuamente alla nostra attenzione l’etica greca e romana, e per un motivo preciso: essa si fondava su una scelta personale dettata da un obiettivo estetico, quello della «volontà di vivere una vita bella e lasciare agli altri il ricordo di una bella esistenza» (35), obiettivo che era estraneo sia a un tentativo di normalizzazione della popolazione, sia a una relazione con un sistema autoritario, giuridico, disciplinare. Il vero oggetto di interesse consisteva nelle relazioni con se stessi e con gli altri e non nei problemi religiosi. Foucault vuole lasciare intendere che il nostro problema è simile: noi non crediamo più in una fondazione religiosa o giuridica dell’etica, e non riusciamo a trovarne una che non si fondi sulla conoscenza scientifica di ciò che è il sé (36). Dobbiamo smettere di pensare che l’etica debba necessariamente relazionarsi alle altre strutture sociali, politiche, economiche (37).
 
La scelta personale, come quella estetica o politica che caratterizzavano il modo di assoggettamento dei greci e che comportavano l’accettazione consapevole degli obblighi, è il punto di svolta del passaggio da una soggettività politica legata al rapporto del soggetto col suo sé attraverso il conformarsi alla verità, a una soggettività etica pratica fondata sul rapporto con gli altri, che non esclude il raggiungimento di una "verità politica" altra.
 Questa scelta è strettamente legata a quella del rapporto che si intrattiene con se stessi e che i greci focalizzavano sulla epimeleia heautou, la "cura di sé", l’occuparsi di se stessi, a sua volta connessa all’idea di «trasformare la propria vita in un oggetto che fosse disponibile per una forma di sapere, un’arte» (38). Questa idea di un sé che doveva essere creato è stata rovesciata dal cristianesimo a favore dell’idea di un sé al quale si doveva rinunciare per avvicinarsi alla volontà divina dalla quale dipendeva la salvezza. Lo gnothi seauton, il "conosci te stesso" prende il posto del "prenditi cura di te stesso": l’esperienza di sé smette di essere un tentativo di scegliere cosa fare della propria libertà per diventare la scoperta di una verità nascosta dentro se stessi (39), sul cui discorso si svilupperanno il sapere occidentale intorno alla soggettività e contemporaneamente il divieto intorno alla sessualità. La pratica dello svelamento di sé attraverso il discorso comincia con una rinuncia a se stessi; ma a partire dal XVIII sec. le scienze umane recuperano le tecniche di formazione del discorso per inserirle non più nel contesto negativo dell’autorinuncia, ma in quello positivo della costituzione di un nuovo sé. Certi tipi di divieto hanno pertanto determinato certe forme di conoscenza di sé, favorendo la disposizione del soggetto alla rinuncia a "qualcosa" (40), a un altro tipo di soggettività.

Tornando all’ ethos, in quanto il rapporto con se stessi viene ontologicamente prima del rapporto con gli altri, ancora maggiore attenzione bisogna rivolgere a quel lavoro di sé su sé che lo costituisce.

«É il potere su se stessi che regola il potere sugli altri» (41), in quanto la possibilità di instaurare relazioni di dominio che tendono a stati di dominio dipende, prima che dalla cristallizzazione di rapporti di potere, di forza, dal non voler riconoscere la condizione di libertà del soggetto, dal non voler instaurare una padronanza di sé, dal rinunciare a sé. Il non dominio degli altri dipende dal dominio (in senso greco) di se stessi, dato dal livello di rapporto con sé, di esercizio su di sé, di padronanza di sé. Per definire la condotta altrui bisogna saper dirigere la propria, che presuppone il sapere in che modo essa viene determinata.
 
«Più le persone sono libere le une nei confronti delle altre, più la voglia di determinare il comportamento degli altri è grande. Più il gioco è aperto, più risulta attraente e affascinante» (42). Agendo si determina necessariamente la condotta degli altri, la si dirige, la si modifica, la si condiziona. Ecco perchè il costituirsi del soggetto è un problema politico ed etico: perché "ne vanno di mezzo" anche gli altri. E la libertà è un problema non più soltanto politico ma anche etico nel momento in cui si situa tra se stessi e gli altri, prima che o piuttosto che tra se stessi e la verità.
 «Forse ai nostri giorni l’obiettivo non è quello di scoprire cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. […] la conclusione allora sarebbe che il problema politico, etico, sociale, filosofico dei nostri giorni non è quello di liberare l’individuo dallo Stato e dalle istituzioni statali, ma di tentare di liberarci sia dallo Stato sia dal tipo di individualizzazione che è legata allo Stato. Dobbiamo promuovere nuove forme di soggettività rifiutando il tipo di individualità che ci è stato imposto per tanti secoli» (43).
 Un riconoscimento in questa chiave del contesto nel quale il soggetto agisce e attraverso il quale si costituisce è la via più auspicabile per sfuggire a una "naturalizzazione" dei rapporti di potere. Per costituirsi eticamente bisogna costituirsi per scelta e questa scelta non può prescindere da una presa di posizione che implichi il riconoscimento che le forme di soggettività, attraverso le quali ci costituiamo, ci rendono oggetti di tecnologie disciplinanti e oggettivanti prima, individualizzanti e soggettivanti poi, e allo stesso tempo soggetti inconsapevoli di azioni che sono l’effetto di quelle. Questo riconoscimento non è un punto di arrivo, ma il momento di un passaggio critico che si colloca fra una dimensione di consapevolezza e un’altra di azione. Si tratta di una pratica che si pone fra se stessi, in quanto predispone a un certo tipo di rapporto con sé, e gli altri, in quanto questo rapporto con sé è un rapporto etico, e il costituirsi del sé dovrà incontrare quello dell’altro, se non coinvolgerlo in una regola comune.
 
 -Soggetto di diritto e soggetto etico
 
 Il soggetto etico è un soggetto che forgia se stesso attraverso le pratiche di sé: è attraverso lo studio di queste ultime in epoca classica, ellenistica e romana, che Foucault ha voluto mostrare come contrapporre una forma d’austerità legata a un’estetica dell’esistenza, in cui la verità viene interiorizzata attraverso una trasformazione di sé che mira a costituire un soggetto dentro il soggetto, che lo faccia agire correttamente e razionalmente, a una forma di austerità legata alla rinuncia a sé, in cui la verità si deve decifrare a partire da un’analisi di sé, poiché la si suppone dentro di sé.
 
La nostra morale ascetica e austera impone infatti come condizione della conoscenza di sé la rinuncia a sé e ci dice che il sé è ciò di cui ci si può liberare per rispettare una morale che impone il rispetto della legge esteriore e l’autorinuncia come condizione di salvezza.
 Nella prima lezione di Ermeneutica del Soggetto (44), Foucault spiega come nell’antichità non vi siano regole senza una trasformazione del soggetto, non vi sia filosofia senza spiritualità: la filosofia si interessa solo alle condizioni delle regole per avere accesso alla verità e la spiritualità è intesa come l’insieme di pratiche necessarie all’accedervi. Questa trasformazione di sé necessita di un movimento di ascensione che strappi il soggetto al suo statuto, l’eros, e di un lavoro continuo di sé su sé, l’askesis. Gli effetti di ritorno della verità raggiunta grazie a un lavoro ascetico sul soggetto erano quelli di una beatitudine dell’anima che "salvava" il soggetto. Con quello che Foucault definisce il "momento cartesiano" (45), ovvero un cambiamento concettuale legato a Cartesio, ma non un momento storico preciso, la verità cessa di essere un principio razionale ascetico, e diventa un principio cognitivo dato dall’evidenza. Non lo spirito, ma la conoscenza del soggetto garantisce la verità e le sue condizioni interne ed estrinseche sono sufficienti ad avervi accesso. Un soggetto con capacità cognitiva e razionale può raggiungere la verità e il soggetto ideale è quello onnisciente, cui è estraneo il dubbio. L’evidenza dunque è sostituita all’ascesi.
 
Foucault nota come il soggetto sia ritenuto già capace di verità: a priori e solo accessoriamente esso è il soggetto etico capace di azioni rette; infatti si può essere immorali e tuttavia conoscere la verità, la quale non è connessa, come nell’antichità, a un movimento di conversione che implica la formazione di un soggetto etico.
 
Il rapporto tra ascesi e conoscenza di sé risulta invertito, mentre il soggetto etico viene soppiantato dal soggetto morale e giuridico che non ha bisogno di trasformarsi.
 
Emerge in Foucault l’esigenza di far apparire la precarietà storica di questo tipo di soggetto, e le pratiche di sé che egli passa in rassegna nelle sue opere sono un modo per dire che la possibilità di un soggetto che si cura di sé, quale quella che avevano sperimentato gli antichi, è solo una delle possibilità di scegliersi come soggetto di azioni rette piuttosto che di conoscenze vere. Foucault non ha voluto dire che tale esperienza dovrebbe essere rivissuta estirpandola dall’antichità ed emulandola, ma ha sicuramente voluto dire che è necessario studiarla per accorgersi che le nostre modalità di sperimentare la soggettività non sono naturali. Si tratta sicuramente di un modo per riabilitare alla nostra mente la storicità della soggettività.
 
Spesso, nelle interviste, quando gli si chiedeva che cosa pensasse del superamento della morale borghese in favore di un’emancipazione che potesse sostituire dei nuovi valori a quelli in crisi, Foucault rispondeva che bisognava domandarsi invece se fosse possibile instaurare una nuova etica "al di là del Bene e del Male". Nelle forme di soggettività dell’antichità, su cui egli aveva tanto insistito, aveva trovato importante la volontà ferrea, sentita come una necessità, di dover stabilire un ordine nella propria vita che non fosse vincolato da norme sociali e da valori trascendenti, pur avvertendone la presenza, ma che si fondasse sulla scelta personale. L’idea di fare della propria vita un’opera d’arte da forgiare continuamente ha un’intenzione di base che poi va modificandosi con la pratica. Quando si scrive un’opera non si sa mai che cosa verrà fuori alla fine, aveva specificato in un’intervista (46). Una "formazione artigianale" che aspiri a una coerenza interna non dipende dunque da qualche legge civile o religiosa, da qualche prescrizione morale, ma da un esercizio di scelta personale. 
 
Foucault cerca di proporre un tipo di soggettività che si esprima in un rapporto ironico e critico col mondo, che viva per interrogare il mondo, pur non dipendendone, pur non fondendovisi; e che nello stesso tempo mantenga sempre una sorta di autonomia attraverso la distanza dagli affetti attraverso i quali pure realizza con pienezza la sua percezione dell’esistenza; un ascetismo che però non si trasformi in una debolezza che renda il soggetto dominabile da parte di un potere che gli impone vigilanza e rinuncia continue.
 
Foucault ha cercato di contrapporre a una forma di soggetto universale, quale quello giuridicamente riconosciuto, dei soggetti particolari con stili d’esistenza individuali ma etici. L’uguaglianza giuridica non basta, perché istituzionalizzerebbe le minoranze.
 In Le triomphe social du plaisir sexuel (47), Foucault si augurava il costituirsi di un "diritto relazionale" che si accompagnasse a quello giuridico istituzionale da arricchire continuamente con sempre nuove pratiche culturali che andassero oltre la lotta contro le leggi repressive, indicando il problema fondamentale di oggi in una carenza nella condivisione e comprensione reciproca di stili di vita, piuttosto che in un’opposizione dialettica.

 
La resistenza è semmai nella pratica di una ascesi trasversale. Si tratta di trovare vie di fuga piuttosto che riconoscimenti ufficiali, dal momento che determinate concessioni riguardo alla possibilità di agire "alla luce del sole", non implicano necessariamente l’assenza di discriminazioni future; il riconoscimento da parte delle Istituzioni non basta spesso a favorire la piena realizzazione di stili di esistenza legati al sorgere di nuove relazioni. La vera questione sta nel riconoscimento di pratiche culturali, di un nuovo modo di vivere che trasferisca il rapporto verticale con le istituzioni giuridiche, morali, religiose, in un rapporto trasversale tra singoli, spostando in secondo piano l’esaltazione di quelle pratiche come baluardo di trasgressione.
 
Mentre la morale è solo un modo per condurre gli individui, l’etica è il collegamento tra il modo di condurre gli individui e quello di condurre un rapporto con sé. Solo un’etica permetterebbe di problematizzare ogni volta quei valori umanistici come libertà e diritti, prodotto delle nostre forme di verità, che sono percepiti come universali.
 
La morale dei Greci era una morale di uomini, non universale, ma frutto dell’elaborazione di un’attività nell’esercizio del potere e nella pratica della libertà. La libertà, come si è già detto, è un potere che si esercita su se stessi nel potere che si esercita sugli altri.
 Il dominio inteso come "governalità" ha un rapporto diretto con l’etica, che, come sappiamo, è il collegamento tra la sfera privata in cui si gestisce la vita propria, della famiglia e dei beni, con la vita pubblica, in cui si dà vita e si sostenta l’equilibrio della polis. Inoltre la libertà-potere è sempre in rapporto con la verità. Il logos, che non è una condizione epistemologica ma ontologica, non può prescindere dalla struttura etica dell’uomo. Il soggetto morale è un soggetto di conoscenza, non nel senso di conoscenza di sé, ma conoscenza dell’atteggiamento che si deve assumere, di come esercitare il piacere per essere un soggetto morale a pieno titolo. Il rapporto con la verità non si dà in un’ermeneutica del desiderio, ma in un’estetica dell’esistenza. Il rapporto con il logos serve per mantenere e riprodurre un ordine ontologico che è insieme la struttura del soggetto morale e la sua condizione di possibilità, perché mostra la sua bellezza e ne fa modello per gli altri attraverso il ricordo.

Il modo d’essere proprio di un soggetto libero, attivo e morale, è anche etico in quanto è inseparabile da un’askesis, un esercizio, che si dà nella lotta con se stessi per il dominio di sé, in continuo rapporto con il logos; ma, soprattutto, è etico perché sceglie degli obblighi da imporre a se stesso per avere una bella vita ai fini del ricordo altrui e dell’armonia con il logos.

Il valore del giudizio morale cui questo soggetto è sottoposto è dunque anche estetico, pertanto le prescrizioni pratiche attraverso le quali avviene una modificazione del suo comportamento non sono soggette a una codificazione, ma a una "stilizzazione": il codice di comportamento del proprio stile di vita, ovvero il bios, è un opera d’arte da perfezionare attraverso una pratica costante e una riflessione morale che si colloca al di fuori di ciò che è lecito o illecito, pur definendosi come una questione comune di stile.
 
Il problema è che questa stilizzazione della condotta, per chi avesse voluto dare alla propria esistenza la forma più bella possibile, e l’esigenza di un’austerità sessuale che necessariamente ne deriva e che serve a rendere l’individuo che la pratica più forte di se stesso anche nell’esercizio del potere che ha sugli altri, con tutte le implicazioni del pensiero filosofico, medico, morale che se ne occupava, vengono inglobate e assunte come principi fondamentali dalle società cristiane, con la conseguenza che tali prescrizioni, che acquistano un carattere universale, vengono riconosciute come proprie di una forma atemporale e permanente della legge morale e religiosa; senza considerare una storia dell’etica che è ben diversa da quella dei codici, sebbene essi rimangano più o meno simili durante le varie epoche.
 
La cura di sé e i suoi correlati, il corpo e l’atto sessuale, difficile da padroneggiare, pericoloso, problematico, sono tanto al centro dell’attenzione estetica in epoca greca ed ellenistica, che quest’austerità, fondamentale nella risoluzione del problema di dipendenza e indipendenza, sovranità e padronanza di sé nel rapporto con se stesso e con altri, si innesterà nella tradizione cristiana.
 
Morali e precetti sono simili e costanti, ma impongono rapporti differenti col proprio sé, un’etica rimaneggiata e un modo diverso di percepirsi come soggetto morale.
 
Le forme di soggettivazione non possono dunque prescindere da un’etica, ovvero una forma di rapporto con sé che crea il soggetto morale. Un’azione per essere detta morale non deve limitarsi a un atto conforme al codice vigente, ma implica un certo rapporto con se stessi che non è semplicemente coscienza di sé ma anche soggettivazione morale. La resistenza, che è il luogo dove si forma un’etica del sé, non può seguire solo il filo della legge giuridica, ma arriva fino alla volontà, che non è una sostanza metafisica, ma un metodo che deve essere sempre praticato. Bisogna fare di questa volontà una contro-condotta, come la chiama Foucault (48), che è insieme una resistenza al potere e un cambiamento di se stessi, un atteggiamento, non è solo un rivolgimento contro la legge. La contro-condotta, dunque è politica in quanto cambia i rapporti di forza ma è anche etica solo se è un modo nuovo, diverso di vedere se stessi, di condursi.
 
 -I mattini grigi della tolleranza
 
 In un bellissimo saggio degli anni Settanta (49), Foucault si esprimeva in merito a un documentario condotto in forma di intervista (50) da Pier Paolo Pasolini nel 1963, che testimoniava l’arretratezza della coscienza dell’Italia di quel periodo rispetto alla realtà che si trovava a vivere.
 «Inchiesta sulla sessualità [Enquête sur la sexualité] è un’assai strana traduzione per Comizi d'amore: comizi, riunioni dove ha luogo una sorta di forum sull'amore. È il gioco millenario del "banchetto", ma a cielo aperto, sulle spiagge e sui ponti, all'angolo delle strade, con bambini che giocano a palla, giovanotti che gironzolano, donne che s'annoiano, le prostitute in attesa su un viale, operai che escono dalla fabbrica. Molto distanti dal confessionale, ma anche da quelle inchieste in cui, con la garanzia della discrezione, si indagano le cose più intime, queste sono delle interviste di strada sull’amore. Dopotutto la strada è la forma più spontanea di convivialità mediterranea. Al gruppo che passeggia, Pasolini tende il microfono: fa quasi di sfuggita una domanda sull'amore, quel regno indeciso dove si incrociano il sesso, la coppia, la famiglia, il fidanzamento con i sui costumi, la prostituzione con le sue tariffe. […] Non si puo apprezzare i documentario se non ci si interessa di più alle cose che vengono dette rispetto al mistero che resta impronunciato. Dopo il lungo dominio della morale cristiana, ci si poteva pure aspettare, da quest'Italia dei primi anni Sessanta, un certo "ribollire sessuale. Nient’affatto, le risposte sono date in termini di diritto: pro o contro il ruolo preminente del marito, pro o contro l'obbligo a preservare la verginità per le ragazze, pro o contro la condanna dell’omosessualità. Come se la società italiana di quest'epoca, tra i segreti della penitenza e le prescrizioni della legge, non avesse ancora trovato la voce per discutere pubblicamente del sesso come fanno i nostri media oggi.

Ciò che attraversa tutto il film, non è, credo, l'ossessione del sesso, ma una sorta d'"apprensione" storica, d'esitazione premonitrice e confusa di fronte a un nuovo regime che nasce allora in Italia, quello della tolleranza. È qui che emergono le differenze, tra questa folla che si ostina a parlare di diritto, quando la si interroga sull'amore. Differenze tra uomini e donne, contadini e cittadini, ricchi e poveri? Si, di sicuro, ma sopratutto tra i giovani e gli altri. Questi temono un regime che s'avvia a sconvolgere gli aggiustamenti dolorosi e sottili che avevano assicurato l'ecosistema del sesso (con il divieto del divorzio, che considera ineguali fra loro l'uomo e la donna, con la casa chiusa che serve da figura complementare alla famiglia, col prezzo della verginità e il costo del matrimonio). I giovani affrontano questo cambiamento in maniera assai differente; non con grida di gioia, ma con un misto di serietà e diffidenza, perchè lo sanno legato a delle trasformazioni economiche, che rischiano fortemente di rimarcare le disuguaglianze dell'epoca, della fortuna e dello statuto giuridico. Infondo, i mattini grigi della tolleranza non incantano nessuno, e nessuno vede in essi la festa del sesso. Con rassegnazione o furore, i vecchi si preoccupano. Che ne sarà del diritto? E i giovani, con ostinazione rispondono: che ne sarà dei diritti? Dei nostri diritti? […] E poi, il 1963, era l'epoca in cui l'Italia entrava in questo movimento d'espansione-consumismo-tolleranza di cui Pasolini dovette fare un bilancio, dieci anni dopo, negli Scritti Corsari. La violenza del libro risponde all'inquietudine del film. 1963, era l'epoca in cui cominciava dappertutto in Europa e negli Stati Uniti questa messa in discussione delle forme molteplici del potere che i nostri "saggi" definiscono alla moda. E sia! La moda rischia di trascinarsi ancora per qualche tempo, come in questi giorni a Bologna» (51).
 Pasolini si impegnava in quegli anni in una vera e propria battaglia giornalistica contro l’assunzione di quelle forme molteplici da parte del potere che Foucault cita nel commento qui sopra riportato. Gran parte degli articoli che vi fanno riferimento è raccolta in Scritti corsari (53) e in Lettere luterane (54) : un vero e proprio testamento in cui l’autore fotografa in maniera mirabile, spietata e quasi profetica il destino politico e sociale dell’ Italia, uscita da non più di trent’anni dalla dittatura fascista e avviatasi all’espansione economica e all’emancipazione sociale, oltre che al riconoscimento dei diritti delle minoranze e della tolleranza delle diversità, patrimonio comune di tutte le democrazie occidentali. Si tratta di scritti di un’aggressività che non ha nulla di retorico, ma molta lucidità di giudizio nel bilancio complessivo di una nazione in cui emerge con troppa evidenza il contrasto tra una popolazione legata a una cultura e a una religione contadina e parrocchiale, i cui valori tradizionali avevano più innocenza che senso, e una realtà che assumeva come necessari i modelli consumistici di massa mascherandoli dietro ondate di progressismo intellettuale e di pretese di benessere sociale. Pasolini faceva luce su un’Italia che tradiva se stessa e il suo passato, le sue realtà particolari, per essere inglobata, ancora incosciente e impreparata nel non poter difendersi da una contaminazione imminente, in un’idea di nazione estranea alle sue possibilità e alla sua effettiva frammentarietà linguistica e culturale, per lo più gestita da un potere politico corrotto e incapace, ancora più incosciente di chi esso pretendeva di rappresentare, relativamente al suo utilizzare vecchi modelli ideologici per definire i contrasti al suo interno. L’Italia degli anni Settanta si presentava divisa tra una classe politica corrotta e colpevole, un’autorità religiosa che non aveva scelta nel far da spalla alle nuove esigenze consumistiche, cui si tendeva a dare il contentino in materia di valori quando ci si trovava di fronte a una sua opposizione soltanto formale, una borghesia ignorante e bigotta, una opposizione politica che aveva già fatto i compromessi necessari ad assumere un ruolo democratico permanente all’interno del governo, una minoranza intellettuale incapace di assumere una funzione critica e riformatrice,e una popolazione entusiasta che non sapeva di dovere andare incontro a cose che non avevano ancora un nome (55).
 
Particolarmente critico nei confronti dei propositi rivoluzionari giovanili, Pasolini prevedeva che un cambiamento sociale attraverso la promozione dei diritti civili non sarebbe stato sufficiente e risolutivo in un contesto di carenza generalizzata di consapevolezza, e che l’inneggiare a una trasgressione delle norme non avrebbe portato a nulla, se non a una promozione di etichette che avrebbero favorito una svalutazione dei valori correnti senza un terreno per una effettiva transvalutazione produttiva.
 
Non sfuggiva a Pasolini che la crisi di valori voleva essere colmata da un riconoscimento di diritti attraverso forme giuridiche svuotate del loro effettivo valore, della loro storicità, baluardo di un potere che stava cambiando, che stava assumendo nuove forme. Pasolini si rendeva conto della continuità del potere attraverso forze desacralizzanti rispetto al passato il cui effetto sarebbe stato sempre socialmente inefficace quando andasse a cozzare contro una carenza che si rivelava più profonda e di una natura ben diversa da come poteva sembrare. Quel che Pasolini lamentava nelle generazioni che vivevano quel cambiamento una carenza etica, alla quale non avrebbe potuto far fronte nessun tipo di emancipazione civile.
 In Lettere luterane (56) si esprimeva contro l’inefficacia della disubbidienza politica che si professava come manifestazione di ansia democratica e di progresso; la disubbidienza infatti era legata a forme di ribellione nei confronti di un passato autoritario, in cui si doveva obbedire, mentre in quel momento si assisteva a un ribaltamento della disubbidienza in ubbidienza a "qualcosa" di cui non si aveva coscienza:

«In realtà, semanticamente, le parole hanno rovesciato il loro senso scambiandoselo; in quanto consenziente all’ ideologia «distruttrice» del nuovo modo di produzione, che si crede «disobbediente» (e come tale si esibisce) è in realtà «obbediente»; mentre chi dissente dalla suddetta ideologia distruttrice – e, in quanto crede nei valori che il nuovo capitalismo vuole distruggere, è «obbediente» - è dunque in realtà «disobbediente» (57).
 
Era infatti avvertita un’esigenza di un avanzamento nel senso della demistificazione, della democratizzazione e del progresso puramente enfatici, che facevano capo al privilegiamento, da parte della nuova qualità di vita, del consumo e delle sue esigenze edonistiche. Pasolini rimproverava alle istituzioni di aver governato male in relazione al vecchio potere, cosa che implicava che i beni superflui, in quantità enorme, non potessero essere un fatto positivo, ma un fatto di deterioramento antropologico.
 In Intervento al congresso del partito radicale (58) Pasolini fa un discorso sui diritti civili, rilevandone la volgarizzazione quando essi divengono patrimonio di coloro i quali intendono affermarsi su una minoranza che già li possiede, situazione che riproduce quella della lotta di classe attraverso la quale ci si vuole appropriare del diritto del "padrone" e promuoversi dunque al grado di "borghesi". Lottare per la realizzazione dei propri diritti e di quelli degli altri dovrebbe accompagnarsi a una consapevolezza della propria posizione storica e culturale, che non riuscirebbe a prevedere una forma di alterità ottenuta in modo dialettico laddove fosse scomparsa la cultura della classe dominata. Raggiungere una forma di alterità, ovvero una condizione che sia in grado di promuovere la realizzazione umana attraverso i diritti civili, che sono i diritti degli altri, è il risultato del confronto dialettico fra il rapporto che si intrattiene con la propria cultura, ovvero la consapevolezza di come ci si costituisce come portatori di un diritto, e quello che si intrattiene con il codice morale della propria società.
 
La possibilità di un’alterità , ovvero la condizione etica che ci riscatta dalle forme di sfruttamento all’interno dei rapporti sociali, perché prima ce li rende manifesti e poi ci permette di difenderci dal potere degli altri attraverso un’emancipazione attiva, non può prescindere in nessun modo dalla resistenza che vi si può opporre: un movimento di affermazione sociale non può sostituire il soggetto etico, soprattutto in una società in cui non è più possibile lo scontro fra classi e in cui sarebbe necessario, quando si parla di diritti, occuparsi dei doveri, degli obblighi, di un codice morale che si tende a negare attraverso la disubbidienza e che invece è fondamentale perché il soggetto libero possa determinarsi rispetto ad esso e scegliere come rapportarvisi o come non rapportarvisi. Il soggetto giuridico è una forma insufficiente di soggetto, e i diritti devono essere piuttosto una conquista, che non è da porre in primo piano quando si tratti invece di una concessione.
 
Fuori da un contesto realmente democratico i diritti tendono a realizzare un’identificazione, e non un’alterità. Quest’alterità, fino a quando la lotta di classe aveva ancora un senso, mirava a escludere un’assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori, e mirava alla conservazione di una cultura, che era quella della classe dominata. Laddove vi sia ancora modificabilità di rapporti sociali, oggi, bisogna lottare per tutte le forme alterne e subalterne di cultura, il che significa sì promuovere attraverso i diritti quella della maggioranza, e ottenere dei successi, ma spesso significa anche mantenere, da parte delle minoranze, un’irriconoscibilità della propria cultura per non cedere a una realizzazione solo formale dei diritti civili.
 
In tutta la sua opera, letteraria, giornalistica, poetica e cinematografica, Pasolini ha denunciato la condizione di un sottoproletariato che sarebbe divenuto colpevole della propria innocenza e della propria estraneità al corso della storia, della cultura e della morale borghese, in quanto sarebbe stato colonizzato culturalmente senza rendersi conto di non poter opporre resistenza alla propria inconsapevolezza. Il vero pericolo sociale era per Pasolini l’assenza di un’etica consapevole, di un rapporto critico con sé che andasse oltre la pura sopravvivenza della vita biologica. La sola ostinazione della volontà di integrazione sociale non porta che a una degradazione di sé e a un conformismo senza progresso, all’assunzione di uno status giuridico che resta un dono incompreso, come nell’ebetudine dell’ uomo medio.
 In una postilla in versi a Lettere luterane (59), che potrebbe passare per un esempio di "conservatorismo reazionario", Pasolini scriveva:

«Capi, padri, signori, i più adorabili
 di tutti sono quelli che non sanno di avere diritti.
 Sono adorabili anche quelli che pur sapendo
 di avere dei diritti, non li pretendono.
 Sono abbastanza simpatici, poi, quelli
 che lottano per i diritti degli altri.
 […] 
 
Vogliamo sorridere come i ragazzini
 di Balsorano…Voi pensate ai nostri doveri
 ché ai nostri diritti, se vorremo, ci penseremo noi…» (60).
 
 Non a caso, in questo testo è incluso un breve trattato pedagogico, cui Pasolini stava lavorando e che risulta incompleto a causa della sua morte, dedicato alla figura immaginaria di un ragazzo adolescente di nome Gennariello, il cui scopo è quello di promuovere l’esercizio etico del discepolo.
 Pasolini concludeva il suo documentario Comizi d’amore (61) filmando una coppia di sposi, facendo loro un augurio per l’assunzione di una consapevolezza del proprio vivere:

«Ma davvero agli uomini interessa qualcos’altro che vivere? Tonino e Graziella si sposano. Del loro amore essi sanno soltanto che è amore. […] Dei loro futuri figli sanno soltanto che saranno figli. È soprattutto quando è lieta e innocente che la vita non ha pietà. Due ragazzi italiani si sposano. E in questo loro giorno tutto il male e tutto il bene precedenti ad essi sembrano annullarsi, come il ricordo della tempesta nella pace. Ogni diritto è crudele, ed essi, esercitando il proprio diritto ad essere ciò che furono i loro padri e le loro madri, non fanno altro che confermare, cari come sono alla vita, la lietezza e l’innocenza della vita. Così la conoscenza del male e del bene - la storia, che non è né lieta né innocente - si trova sempre di fronte a questa spietata smemoratezza di chi vive, alla sua sovrana umiltà. Tonino e Graziella si sposano: e chi sa, tace, di fronte alla loro grazia che non vuole sapere. E invece il silenzio è colpevole: e l’augurio a Tonino e a Graziella sia: «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore» (62).
 
 -L’esercizio di sé
 
 In L’ermeneutica del soggetto (63), e in Tecnologie del sé (64) Foucault compie uno studio dei testi greci e romani rilevando come in essi il precetto di conoscere se stessi sia associato e subordinato a quello della cura di sé nonostante una morale austera, e come invece nella cristianità il "conosci te stesso" abbia oscurato il "prenditi cura di te stesso".

La cura di sé nella sua evoluzione assume diverse determinazioni. L’analisi di Foucault parte dall’Alcibiade di Platone, in cui la cura di sé ha una funzione pedagogica legata all’età giovanile, basata su un rapporto di amore filosofico con il maestro che si realizza nella forma del dialogo e in cui il discepolo è il soggetto attivo della cura dell’anima, intesa come principio d’azione. Il fine è quello di diventare abbastanza padroni di se stessi da poter governare anche gli altri, e in particolare la polis, quindi adempiere a un compito politico. La cura dell’anima consiste nella contemplazione del divino che è simile ad essa e dalla quale solo può derivare una conoscenza di sé: è rivolgendo lo sguardo dell’anima alle essenze che si potranno conoscere le regole per un’azione politica giusta.
 
In epoca ellenistica (Foucault prende in esame in particolare gli stoici e gli epicurei) invece la cura di sé si configura come un’attività estesa a tutte le età e a tutti, consistente in un ozio attivo, impiegato nello studio e nella lettura. Il sé diviene oggetto dell’attività di scrittura: la vigilanza su sé, ovvero sulle proprie azioni e non sui propri pensieri, acquista molta importanza. Si tratta di un regime di vita universale, non legato alla carriera politica, da cui anzi è necessario staccarsi per ritirarsi in comunità.
 
Abbiamo un passaggio dal modello pedagogico a quello medico, per cui ci si occupa di se stessi personalmente, come farebbe un medico col suo paziente, al fine di raggiungere una compiutezza della vita non nell’età adulta ma a fine vita. Il dialogo viene sostituito dal discorso del maestro, mentre da parte del discepolo prende vita un’arte dell’ascolto. Viene introdotta la pratica dell’esame di coscienza, in cui ha molta importanza l’attività di memoria, grazie alla quale si rilevano le regole, che servono ad attuare il giusto comportamento, e gli errori, che sono considerati il risultato di una strategia sbagliata, intenzioni rimaste irrealizzate, e non cattive intenzioni, peccati, significato che assumeranno nella dottrina cristiana.
 La verità non è la natura del soggetto, ma la regola di condotta, che il soggetto deve ricordare attraverso l’anakoresis, ritiro spirituale da compiere ogni giorno. Per gli stoici la verità è nei logoi, non è in noi, pertanto l’askesis è quella pratica che permette di assimilarla e trasformarla in un principio di azione. In questo modo l’aletheia, la verità, diventa ethos, portando all’accrescimento progressivo della soggettività. L’askesis si comprende di esercizi quali melete e ghymnasia, meditazioni i primi e allenamenti in situazioni reali i secondi, che servono a saggiare l’indipendenza dal mondo esterno. Pratiche necessarie per gli stoici sono inoltre l’analisi delle rappresentazioni e l’interpretazione dei sogni, che servono a pensare continuamente alle regole per gestire e valutare tali fenomeni, mentre nel Cristianesimo assumeranno una funzione di controllo della purezza delle idee da contaminazioni quali concupiscenza e desiderio.
 La techne tou biou dei Greci era un modo d’assoggettamento che prevedeva che ognuno dovesse porsi degli obblighi in modo estetico. Nel Cristianesimo invece il modo d’assoggettamento finisce per coincidere con un modo di vivere rinunciando a sé, obbedendo a delle regole religiose espresse giuridicamente. Mentre nell’età classico-ellenistica le tecniche di sé si differenziavano a seconda del telos, ora il telos è uno soltanto, ovvero l’immortalità dell’anima, e la sua sostanza etica è il desiderio. Tutte le conoscenze per i greci erano connesse con la cura di sé: conoscere equivaleva a dominarsi, a dominare e dominarsi; la conoscenza era subordinata alla padronanza. Il culto contemporaneo di sé, che si differenzia da quello dei greci, è condannato dal Cristianesimo, che lo intende come una forma di distaccamento da Dio; ma in ogni caso oggi non è proprio concepibile il culto di sé inteso come il forgiare un’opera d’arte, si tratta di una pratica completamente occultata.

Il potere pastorale utilizzerà alcune delle tecniche legate alla thekne tou biou per altri motivi e con altri effetti, e la "governamentalità", che è oggi il governo degli uomini sugli uomini, si appoggerà a questo modello e alle sue tecniche; noi quindi siamo i discendenti di quel potere pastorale, e la cosa importante per Foucault è capire che la forma di soggetto che abbiamo ereditato è una forma che quel potere ha ridotto al grado zero, perché ha separato la tecnica dalla pratica di sé, dall’ascetismo, per cui il soggetto è solo effetto dell’assoggettamento ma non della pratica di sé.

Una delle tante forme di askesis, addestramento, che Foucault ha trattato, è la "scrittura di sé": la sua funzione nella tarda antichità è il raccogliere il già detto, allo scopo di costituire se stessi, ricapitolare un logos frammentario per stabilire una relazione con se stessi.

Tra le tecniche di formazione di sé, quali astinenze, memorizzazioni, esami di coscienza, meditazioni, silenzio e ascolto dell’altro, la scrittura assume importanza abbastanza tardi. La scrittura "ethopoietica", quella che si associa alla meditazione attualizzando una regola e in questo modo prepara il soggetto ad affrontare il reale, attraverso un esercizio lineare, e infine rilancia la rielaborazione attraverso un esercizio circolare, si affianca tra il I e il II sec. d.C. alle tecniche già utilizzate degli hupomnemata e della corrispondenza. I primi sono quaderni personali, materiale scritto delle cose lette, ascoltate o pensate, che servivano per una rielaborazione che li integrasse nell’anima; costituivano un passato cui fare ritorno e in cui ritirarsi, e una sintesi che era, nello scrittore, il risultato della loro costituzione e consultazione e diventava suo principio razionale. La seconda consisteva, oltre che in una formazione di sé, in un modo per manifestarsi a se stessi e agli altri: la lettera rendeva lo scrittore presente, non solo tramite le informazioni su di sé, ma anche mediante una presenza quasi fisica, al destinatario. Si trattava di una reciprocità non solo del consiglio e dell’aiuto, ma anche dello sguardo e dell’esame, che implicava l’introspezione di sé come un’apertura di sé offerta all’altro, attraverso il mostrare le interferenze dell’anima e del corpo, le attività nei momenti di libertà, il corpo e i giorni. Non si trattava però ancora di stanare dall’anima i pensieri più reconditi per purificarsene, come avverrà nelle annotazioni monastiche, ma di far coincidere lo sguardo dell’altro con il proprio (65).

La " scrittura di sé " è per Foucault una delle modalità in cui l’individuo forgia la propria attività spirituale, crea il proprio sé. Attraverso la scrittura il sé supera continuamente un punto di partenza e questo consiste in un creare continuamente sul già creato. Si tratta di una pratica non terminabile, perché finisce soltanto con la morte. Essa è una pratica ascetica, perché consente di elaborarsi senza staccarsi dalla propria individualità, essa non scopre nulla, ma è un modo per inventare, creare. Si tratta appunto di un’arte, un luogo d’espressione di sé, che sarebbe positivo ispirasse un nostro atteggiamento nel contesto politico ed etico.
 
Foucault definisce l’ascesi come un esercizio di sé nel pensiero, che non consiste nel legittimare ciò che già si sa, ma nel cominciare a sapere fino a che punto sia possibile pensare in modo diverso. La stessa filosofia, precisa Foucault non è niente altro che lavoro critico del pensiero su se stesso: quello che oggi viene inteso come compito della filosofia nell’antichità costituiva una prova che ognuno che si prendesse cura di sé doveva svolgere quotidianamente. Una prova modificatrice di sé nel gioco della verità, non approvazione semplificatrice di altri a scopi di comunicazione. Questa prova, cui erano legate «pratiche ragionate e volontarie attraverso le quali gli uomini non solo si fissano dei canoni di comportamento ma cercano essi stessi di modificarsi nella loro essenza singola, di fare della loro vita un’opera che esprima certi valori estetici e risponda a determinati criteri di stile» (66), chiamate arti d’esistenza, costituiva un vero e proprio problema che si sviluppa proprio attraverso queste pratiche e che non si può fare a meno che venga posto.
 
Foucault si chiede perché l’arte sia diventata qualcosa che è in relazione soltanto con gli oggetti (67). Le persone pensano che la loro vita sia basata sulla conoscenza della verità sul desiderio, sulla natura e sul corpo. La nostra relazione con noi stessi dovrebbe essere continuamente ricondotta ad un’attività di creazione piuttosto che ad attribuirci noi stessi la prerogativa di creare altro.
 
Sicuramente oggi l’ascetismo smetterebbe di essere una contro-condotta se volessimo riprenderlo dalla cura di sé dell’antichità. Infatti una contro-condotta deve sempre avere una condotta di riferimento, e battersi contro una specifica tecnica di potere. Per questo Foucault fa pressione sull’analisi storica delle tecnologie e delle pratiche di sé, perché questi eventi sono sempre storicamente determinati e in quanto tali la genealogia e l’archeologia del potere, che li studiano, e il pensiero critico che vi si rapporta devono sempre essere aggiornati e non possono essere anacronistici.
 D’altro canto è vero che per Foucault qualsiasi etica possibile non può staccarsi da un’estetica: il termine va inteso nella sua accezione originaria che lo lega alla sensibilità, aisthesis. Compito di tutti indistintamente, del filosofo come dell’uomo comune, è oggi la trasformazione di sé attraverso la percezione del mondo. A partire dalla separazione cartesiana tra filosofia e spiritualità non ci è stato più possibile comprendere la trasformazione di sé come accesso alla verità. In Ermeneutica del soggetto (68), Foucault specifica, criticando la proposta marxista di una trasformazione della coscienza deformata e falsa, che un cambiamento della coscienza non è sufficiente per un accesso alla verità, che non è concepita come un concetto epistemologico, ma è più vicina a essere intesa come una realizzazione del soggetto ascetico, non di quello cognitivo, che consista in una sorta di "illuminazione" che assicuri la tranquillità dell’anima; si tratta di una conquista individuale, che interessa il rapporto col mondo attraverso una condotta spirituale, ma che ha un fondamento comunitario in quanto ha come materia d’analisi e di esercizio le cose del mondo, che sono patrimonio del senso comune.

Il problema per Foucault è cambiare l’affettività, la sensibilità, non solo il pensiero. Per noi moderni, concetti come kalos, riferito alla bellezza, e agathon, riferito al bene, a ciò che è buono, hanno valenza diversa e si presentano come separati rispetto al contesto greco, in cui invece erano legati.

-Io stesso, in carne e ossa
 
 Sappiamo come le rivoluzioni non bastino a riscattare definitivamente l’esistente: bisogna salvaguardarlo attraverso pratiche consapevoli che vadano oltre la pura trasgressione delle norme, altrimenti si rischia di far ricadere la novità nella convenzionalità istituzionalizzata, di trasformare la disubbidienza in ubbidienza.
 
Carla Benedetti ha affermato che Pasolini è la prova che in qualsiasi tempo esiste la possibilità della rottura della convenzione, «con la sua scandalosa opera letteraria, né tradizionale né trasgressiva, priva di ogni "autonomia formale", paradossalmente sottomessa a fini pratici, non leggibile senza un riferimento alla persona dell’autore, e tuttavia capace di parlare, con la forza del suo mondo poetico costruito non si sa come, a dispetto di tutti i criteri di letterarietà correnti, in una radicale impurità estetica» (69) . La studiosa sottolinea come Pasolini fosse stato l’unico scrittore italiano a riflettere sull’impotenza della letteratura come istituzione di fronte a un potere che ne minaccia l’autonomia, utilizzando la parola come «un’arma paradossale» (70) che potesse riscattare la letteratura al di là delle battaglie formali delle avanguardie, realizzando un tipo di rapporto con il lettore che potesse attraverso la scrittura fare della vita un’arte pratica al sevizio della critica.
 
Pasolini ha sempre rimproverato alle avanguardie il voler sconvolgere la convenzionalità della letteratura restando all’interno del suo gioco elitario, ovvero, come nota Benedetti, "allargandone" il territorio ad altri linguaggi, che potevano comprendere anche materiali bassi, contaminati, estranei alla purezza di stile (71).
 
Pasolini invece, in tutta la sua carriera letteraria e cinematografica, lascia testimonianza di un modo nuovo di concepire l’opera, la poesia, la scrittura, aprendole a qualcosa che è capace di sfondarne l’autoreferenzialità.  
Pasolini comincia con l’utilizzare i dialetti nella poesia e nei suoi romanzi, ma ancora caratterizzandoli come un’espressione di qualcosa di autentico, di passionale che si distacchi dal mondo della prassi, per poi scegliere una modalità di rapporto col pubblico che si dà in appunti, frammenti, documentari cinematografici in cui è l’autore stesso ad annunciare intenzioni che rimarranno irrealizzate, progetti di opere volontariamente incompiute, che è come se invitassero a un completamento dall’esterno e dal futuro.
 
Si tratta di un pensare l’opera come una "prova" in cui ciò che viene coinvolto in prima persona è l’autore stesso. La scrittura diviene un mezzo utilizzato ai fini puramente comunicativi, diviene una testimonianza dell’azione, un metodo progressivo che si esplica nell’esercizio continuo di manifestare il proprio rapporto col mondo e nello stesso tempo trascurare l’oggetto estetico rifiutandosi di definirlo affinché il lettore o lo spettatore possa comprenderlo soltanto aggiungendovi qualcosa della propria relazione col mondo.
 Petrolio (72) è un romanzo dalla trama e dalla lettura difficile, che offre al lettore, attraverso la storia dello sdoppiamento, della dissociazione del protagonista, una visione non realistica, non consolatoria del potere, non rappresentabile attraverso la forma romanzesca del complotto, al quale è inutile opporsi perchè diretto da una mente, un ordine, perchè presenta la realtà intrappolata in uno schema prestabilito, una realtà non reale, e nello stesso tempo presenta una nuova forma di rapporto tra autore e lettore. Petrolio è una "forma-progetto" intenzionale, ovvero costituita di appunti, una forma romanzo che si rifiuta di essere una narrazione escludente il lettore-spettatore. Esso non esclude la narrazione, ma la propina al lettore come una voce che gli si rivolge, e lo coinvolge, lo chiama in causa ad essere appunto inserito in quanto spettatore di visioni, ad assistervi insieme ai protagonisti e all'autore. Non è un rifiuto del romanzo, ma del ritagliare storie per escludere chi legge, un rifiuto della certezza di non potere agire, dell'adattamento, della comodità. Chi scrive e chi legge agiscono sullo stesso piano, hanno lo stesso potere modificativo.

Nella Lettera a Moravia (73), l’autore dice di non aver voluto fare del romanzo scritto un "oggetto" destinato solo al lettore, distanziandosene: « […] io stesso, in carne ossa,[…] ho messo tale oggetto fra il lettore e me, e ne ho discusso insieme (come si può fare da soli, scrivendo)» (74).
 
Questa scrittura in forma di frammenti vuol dire la volontà di sforzo di comprensione di chi legge, vuol dire atto positivo, costruzione e non ricezione passiva. Da parte di chi scrive o parla essa è azione, dialogo, non discorso.
 
Il romanzo realista, illusionistico per eccellenza, taglia fuori lo spettatore, lo accomoda, lo mette a proprio agio perchè lo esclude dalle trame, lo spinge ad un adattamento, presentandogli una forma di realtà che è invero un teatrino della realtà, in cui egli non può intervenire.
 
Quest’opera smentisce la critica pasoliniana di un potere che viene soltanto dall'alto, escludente i corpi, di un Potere: non v'è solo un aspetto del potere, e questo si accompagna alla volontà di superamento di tutte sue le rappresentazioni tradizionali. Il romanzo è costituito, dunque, dall’alternarsi di due tipologie di appunti, alle quali avrebbero dovuto corrispondere le titolature di "mistero", in cui si racconta ciò che è evidente, e per questo si dice solo ciò che si vede, e "progetto", in cui si raccolgono lettere dell’autore o di amici dell’autore, testimonianze orali riportate su giornali, illustrazioni e diagrammi, documenti giornalistici, visioni oniriche in forma mitica, circolare, le quali sono come dei diaframma attraverso i quali si manifesta il potere nelle sue realtà molteplici; la visione è un tentativo di contenere la stratificazione dei tempi, il noto e l’ignoto degli intrecci del potere. Tema della stratificazione è la sovrapposizione di passato e presente nell’attualità della realtà, che è insieme l’effetto degli eventi storici e delle creazioni del pensiero che non sono riconducibili a un’unica visione, né esplicabili attraverso un discorso lineare.
 
Si tratta dunque di una forma di rappresentazione alternativa a quella convenzionale ma più scomoda, perchè non facilmente controllabile, che riesce a far cogliere il potere nei suoi effetti sui corpi, che coglie la realtà nel particolare e nello sfondo, non nell'astrazione della realtà stessa.
 
La scrittura a strati è particolarmente significativa, perché presentava il libro nella forma di un diario, in cui ogni stesura veniva presentata come una nota e datata, e il materiale accumulato non doveva essere eliminato, presentandosi come un processo formale vivente a testimonianza del passaggio di pensiero. Il romanzo doveva avere "la forma magmatica e progressiva della realtà, che non cancella nulla, che fa coesistere il passato con il presente" (75). 
 
Il soggetto agisce sempre in relazione a una realtà che è la sua stessa esperienza e che egli mette continuamente alla prova in un’altra realtà, che è quella del mondo e degli altri, cui si rapporta. Pasolini afferma: «quest’opera […] fa riferimento a se stessa attraverso la realtà»(76). L’autore si mette in gioco attraverso l’arte, che è per lui matrice della realtà, e invita il lettore, o meglio l’interlocutore, a fare altrettanto.
 
«Non ci si può comprendere a parole, l’unica dimostrazione di buona volontà reale è l’azione comune: anche, e tanto più, se scandalosa» (77).
 
L’altro, sia che legga o che ascolti, non può sfuggire al fraintendimento, e deve impegnarsi continuamente in un rapporto con sé che gli permetta di recuperare un senso da apportare a una possibile conclusione, a una possibile interpretazione, a una possibile riorganizzazione dei fatti prodotti da quella stessa scrittura. L’altro si trasforma in un interlocutore che deve mettere sempre in discussione se stesso e l’opera cui si va rapportando. Oltre a creare un paradosso che si esprime nel contrasto tra l’inutilità dello strumento letterario (che è inutile per eccellenza) e la funzione pragmatica della poesia come azione; oltre a collocarsi contemporaneamente dentro e fuori dalla sfera estetica, dentro perché si scrive e fuori perché ciò che si vuole comunicare ha carattere puramente pragmatico, l’opera è anche una spinta a un esercizio critico eterno.
 
 -Logos e bios
 
 Foucault, in Discorso e verità (78) si sofferma sulla nozione di parresia, parola che compare per la prima volta in Euripide nel V sec. a. C. e che indica il dire tutto ciò che si pensa essere la verità, poiché, dalla sua etimologia, pan vuol dire "tutto" e rhema fa riferimento alle "cose dette". La parresia designa in primo luogo una relazione fra se stessi e ciò che viene detto, ovvero la verità; poi una relazione fra se stessi e coloro cui si dice la verità allo scopo di modificarne azioni e comportamenti; una critica di se stessi o di altri; un’esposizione in prima persona in quanto si è soggetti dell’enunciazione che si pronuncia e dell’opinione che essa esprime, ovvero si è soggetti di ciò che in essa viene detto; il coraggio di esporsi a un pericolo, dato che il parresiastes, il soggetto di parresia, è sempre in una condizione di inferiorità rispetto a colui al quale si rivolge. Foucault aggiunge che nei testi classici la parola in questione assume un significato positivo, e designa una coincidenza fra opinione e verità: il parresiastes dice ciò che è vero perché sa che è vero.
 
Mentre infatti da Cartesio in poi la corrispondenza fra opinione e verità sarà il risultato di un’esperienza mentale evidenziale, per i Greci lo era di un’attività verbale, che era determinata dal possesso di alcune qualità morali, ovvero conoscere la verità, comunicarla agli altri, essere abbastanza coraggiosi da affrontare il pericolo; per cui valeva la possibilità di vivere inespressi ed essere falsi con se stessi oppure di rischiare la vita essendo veritieri con se stessi.
 La parresia democratica era un requisito non comune a tutti: potevano beneficiarne coloro che in base al proprio status politico, quello di cittadino libero maschio, potevano usufruire del diritto di parola in assemblea; il dire la verità era considerato come un dovere e una espressione di libera scelta per aiutare altre persone o se stessi a vivere bene o meglio. In democrazia la parresia è un requisito del discorso pubblico e si esercita nell’agorà. In epoca ellenistica è esercitata dal consigliere rispetto al sovrano presso la sua corte, consigliere che rappresenta la maggioranza silenziosa.

Foucault sottolinea come la parresia, con la crisi delle istituzioni democratiche, sia stata problematizzata in modo sempre diverso, assumendo anche significati negativi, fino a coincidere con una scelta di vita, di bios, e diventando una caratteristica individuale, una qualità morale personale.

Nei dialoghi platonici Socrate svolge un ruolo parresiastico: la parresia è qui intesa come una relazione fra esseri umani e fra logos e bios. Il maestro di verità verifica la relazione che l’interlocutore intrattiene con la verità, la quale consiste nei logoi che devono essere trasmessi attraverso l’educazione. Il ruolo filosofico del maestro conciliava allora tre tipi di attività parresiastica: assumeva un ruolo epistemico, allorché si occupava della conoscenza di verità circa il mondo; un ruolo politico, in quanto curava la relazione coi nomoi, le leggi; 18

un ruolo infine etico-estetico, poiché svolgeva e insegnava a svolgere delle pratiche parresiastiche che consentivano l’accesso alla verità mediante una modificazione del bios.
 
Epicurei e stoici utilizzarono le pratiche parresiastiche nella vita in comunità, i primi, e nelle relazioni interpersonali, i secondi. È qui che viene meno la forma dialogica utilizzata da Socrate e acquistano importanza pratiche quali il discorso e la scrittura.
 
Presso gli epicurei (79), colui che parla lo fa allo scopo di dar vita nell’altro a un rapporto con se stesso che sia autonomo, non di dipendenza. La verità serve a suggellare l’autonomia dell’altro. La parresia è la trasmissione della verità e si esercita sugli altri per far sì che riescano a instaurare con se stessi un rapporto di sovranità; pertanto questa pratica avviene in gruppo: il maestro parla e incita i discepoli alla benevolenza reciproca, all’amicizia, alla salvezza degli uni grazie agli altri che si fonda sulla generosità che è un dovere nei confronti dell’altro. La parresia è indicativa di coerenza tra verità e comportamento: la verità è data dalla presenza di chi parla, del soggetto parlante che dice le cose che ama, e che è un soggetto di comportamento. Foucault nota che è in questo contesto che prende vita la pratica della confessione, che sarà ripresa dalle società cristiane; avverrà il passaggio da una pedagogia della verità atta alla trasmissione di verità al fine di dotare i discepoli di capacità costitutive di un soggetto autonomo, come avveniva presso gli epicurei e gli stoici, a una psicagogia della verità, volta all’estrazione di verità attraverso la pratica della confessione in presenza del maestro, che guida il discepolo a fare di sé un oggetto del suo proprio discorso vero.
 
Il principio ascetico che potrebbe, secondo Foucault, regolare una possibile estetica dell’esistenza, sembra implicare quasi un rifiuto della forma di discorso tradizionale, che è tipica del moderno discorso filosofico: un discorso teorico verticale, che a ha che fare con un tipo di conoscenza lineare e progressiva, con una meta precisa ma indefinita. Questo rifiuto di base, paradossale ma emergente dalla sua opera, favorisce invece un rapporto trasversale, col mondo e con la sua interiorizzazione, che non si costruisce mai attraverso un superamento che è anche una purificazione del vissuto nella conoscenza, ma per sovrapposizione di esperienze della realtà. Sembra che la meraviglia e la frammentarietà dell’esperienza del mondo costituisca il materiale migliore per un progresso ascetico del soggetto, proporzionato ogni volta alle sue capacità di apprendimento.
 
L’esercizio ascetico si dà sempre come un cambiamento nello stile di vita, una conversione. Il rapporto col maestro di verità nell’antichità aveva questa funzione, che Foucault dimostra di apprezzare particolarmente soprattutto per quanto riguarda l’insegnamento socratico, che non si basava su un discorso teorico, ma privilegiava soprattutto una forma di dialogo in cui c’è l’idea di voler modificare una condotta non prescindendo dal livello di formazione dell’interlocutore: il dialogo non è una forma di discorso dogmatico, ma implica una predisposizione di chi parla a farsi capire da chi deve controbattere, quindi un rapporto che si basa sull’integrazione reciproca a seconda della situazione particolare, in cui è fondamentale il percorso, non la definizione finale.
 
Per Foucault è importante che nell’antichità la relazione del sé con la verità non implicasse una concezione teoretica della verità, ma soprattutto delle regole di condotta che devono essere memorizzate per riattivare continuamente i principi razionali per un fine etico, per vivere bene, in accordo con un’estetica del sé che non significa comportarsi come un giudice nei confronti di se stessi, ma come un artista, termine inteso in senso più propriamente tecnico, un artigiano che ha sempre bisogno di visionare la sua materia e vagliarla attraverso le regole di quell’arte. La verità qui si presenta come un’attività, non come un’analisi, per cui è importante la domanda "chi dice la verità?" e non "cos’è la verità?". Questa domanda, sottolinea Foucault, è l’interrogativo che caratterizza l’approccio filosofico occidentale che per questo viene detto critico, e che si interessa non solo al problema politico e filosofico, ma a un problema etico (80). Una problematizzazione, spiega Foucault (81), che è legata alla domanda "perché certe cose divengono un problema?", è sempre una creazione dovuta a un certo tipo di risposta che si è data a una situazione storica, e non è solo una situazione che si è determinata storicamente. È dunque un effetto dell’incontro tra pensiero e realtà storica, mai soltanto una rappresentazione o un effetto diretto della realtà storica cui fa riferimento.
 
Foucault ci aiuta a porre l’attenzione su un soggetto, quale quello moderno, che si trova a essere ingabbiato in una sorta di processo ciclico che lo costringe ad adattarsi a una verità oggettivizzata che però paradossalmente proviene dalla sua stessa "interiorità"e che per questo è infondo considerata autentica e naturale. È difficilissimo uscire da quest’impasse, all’interno della quale le pratiche di libertà possibili rifluiscono continuamente nelle discipline dell’obbedienza. Resta da capire in che modo si possa elaborare se stessi indipendentemente da una verità data, se il legame analitico fra morale, politica e società è sempre storico e contingente, e come costituirsi secondo delle regole che ci servono per orientarci tra tutte queste verità prodotte, indipendentemente da un’identità che ci restituisce all’oggettivazione, che ci normalizza come universali. Sembra che bisogni continuamente opporre una via d’uscita alla verità che viene da sé, collocandola e riconoscendola continuamente tra quelle verità che verranno oggettivate all’esterno, e che se oggi fanno una differenza nella storia, domani dovranno essere sottoposte anch’esse a una rottura critica che a sua volta s’attende una differenza.
 Foucault stesso identifica la critica in un ethos, un atteggiamento limite che, esercitato nella forma del superamento possibile delle strutture formali che hanno valore universale, attraverso un’indagine storica degli eventi che ci permettono di riconoscerci come soggetti di ciò che facciamo, pensiamo e diciamo, possa autodefinirsi archeologico e non trascendentale, nella misura in cui si occupa non di cogliere le strutture universali di ogni conoscenza e morale possibile, ma di trattare i discorsi che articolano ciò che noi pensiamo, diciamo e facciamo come eventi storici essi stessi; e possa dirsi genealogico nella misura in cui definisce la possibilità non di dedurre ciò che non possiamo conoscere e fare dalla forma di ciò che siamo, ma di cogliere, nella nostra contingenza di soggetti storici, la possibilità di non essere, non fare, non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo (82).
 
Non vi è nessuna esperienza, secondo Foucault, che non sia riconducibile a un modo di pensare e che non possa essere ricondotta a una storia del pensiero che solo il pensiero può compiere lavorando su se stesso; per questo il pensiero è anche azione, è considerato forma stessa dell’azione, che implica il gioco del vero e del falso, l’accettazione o il rifiuto della regola, i rapporti con se stessi e con gli altri; questo pensiero contiene delle strutture universali che sono però sempre storicamente vincolate, e che pertanto danno luogo a eventi di pensiero che possono essere analizzati e trasformati dal soggetto di pensiero critico in questione (83).
 
Che cosa del presente ha attualmente senso per una riflessione del pensiero? Qual è la nostra attualità, qual è il nostro senso?
 
Foucault pensava la modernità in termini di atteggiamento ovvero modo di relazione con l’attualità, piuttosto che un periodo della storia; modo di relazione che consistesse in una scelta che, alla maniera di Baudelaire, si traducesse nell’inventare se stessi facendo della propria esistenza, del proprio corpo, passioni, sentimenti un’opera d’arte, violentando il presente e rispettandolo allo stesso tempo attraverso la trasfigurazione del reale (84). La modernità è un modo di pensare, agire, sentire, comportarsi, che testimonia la nostra appartenenza all’attualità e si presenta come un compito al tempo stesso, caratterizzandosi come un ethos. In Baudelaire, sottolinea Foucault, v’è un atteggiamento rispetto al movimento perpetuo del tempo, ed essere moderni è non riconoscere questo movimento, ma trovare nella relazione con il presente qualcosa di eterno, di "eroico", trasfigurarla attraverso un gioco tra la verità del reale e l’esercizio della libertà, facendo del proprio corpo un comportamento, un’opera d’arte.
 
Sembra che Foucault abbia prospettato la critica come una regola, uno strumento, un metodo; un principio che non potesse essere legge ma che potesse essere ricollegato alla virtù, che si collocasse sul confine, tra "il dentro e il fuori" del soggetto. Egli la definisce "un modo per non essere eccessivamente governati" (85), pur giocando nell’interrogare la verità nei suoi effetti di potere sul soggetto; conoscendola, la critica non serve la verità, ma la corregge nelle sue degenerazioni. Ciò che è atto a indagare il campo delle esperienze possibili, contrapponendosi a un’analitica della verità, che si interroga sulle condizioni per le quali è possibile una conoscenza vera, è l’ontologia del presente, che si chiede che ruolo abbiamo come soggetti produttori di verità, nel determinare quelle rotture tra verità e verità che ci fanno riconsiderare il presente e ci rapportano continuamente all’attualità, avviando l’etica perché distaccano da un unico modo di essere, creano un modo di soggettivazione proiettato verso "altro".
 
 -Esprimersi e morire o essere immortali e inespressi
 
 Carla Benedetti in Il tradimento dei critici (86), definisce l’impulso alla critica come una pulsione di tutto ciò che vive e opera nel mondo, riprendendo la formula dell’«euresi» di Gadda, per cui ogni essere n tenderebbe verso l’n+1, dove n sta per l’acquisito e l’1 sta per l’acquisendo che è ancora ignoto, rimettendo in moto la costruzione, l’aggiunta di nuovo, in ciò che dopo un certo tempo si trova privo di realtà ma viene dato comunque per evidente all’interno del pensiero comune (87).
 «La critica […] in qualsiasi campo si eserciti, […],mira a tenere aperti i possibili, a lasciar parlare l’alterità, e in definitiva – come scriveva Foucault – a far vedere alle persone come esse siano più libere di quello che pensano» (88).
 Benedetti riprende il concetto foucaultiano di critica come costruzione di nuovi nessi sapere-potere, di effetti di verità che modifichino il discorso corrente, in cui la verità non è il campo dell’universale, ma il campo stesso di azione del potere, che a sua volta si dà in una continua lotta per la produzione di effetti di verità (89). Nota dunque che la verità non è un qualcosa cui la conoscenza debba adeguarsi, non è legata all’oggettività dei fatti, ma è un effetto che si costruisce dentro la comunicazione stessa, e ad ogni effetto corrispondono fatti che si creano attraverso i discorsi. Dunque la verità risulta essere il campo di un conflitto, non dell’universale, nel quale campo l’intellettuale in quanto critico non può porsi come portatore di una verità universale falsata dal potere, in quanto per le stesse ragioni sopra esposte non può opporre la verità al potere. Il compito del critico dunque è «sbloccare i contesti, tracciare linee di fuga, muovere verso qualcosa di radicalmente altro» (90). L’intellettuale non può restare l’universalista di un tempo, ma deve aprire dei varchi agendo all’interno dei micropoteri, svilendo i punti di vista dominanti in un mondo della cultura che sembrerebbe privo di conflitti (91).
 
Il problema dell’oggi infatti è proprio questa apparenza di "quiete dopo la tempesta", vissuta come un’espansione del post-rivoluzionario, del post-liberatorio. Tutto ciò che viene prodotto, in qualsiasi settore culturale viene indicato premettendo a ciò di cui si vuole che sia espressione il prefisso post, come se si dovesse trattare di una pura appendice, che non solo non è in grado ma neppure ha intenzione di provocare scandalo, sancendo con la sua sola nascita la propria impotenza e la propria impersonalità.
 « […] Sia l’arte, sia l’azione rivoluzionaria sono finite in questo doppio legame paralizzante: se disubbidisci ubbidisci, se scandalizzi sei nella norma, qualunque cosa tu faccia resti prigioniero del già dato. Dappertutto è registrata l’impossibilità dello scandalo, che poi è anche l’impossibilità del conflitto» (92).
 È in questo contesto che Carla Benedetti recupera la figura di Pier Paolo Pasolini:
 «Egli non solo fu il primo in Italia a denunciare l’esaurirsi dell’avanguardia, ma anche a denunciare l’impotenza di quel tipo di trasgressione […] e anche a capire le trasformazioni del potere. Un potere che non reprime ma imbriglia, anche quando trasgredisci le sue regole, anche quando ti ribelli al padre e vai a manifestare a Berlino […] poiché se disubbidisci ubbidisci» (93).
 Pasolini si esprime con tutte le sue forze nel recuperare un rapporto con il lettore nella scrittura e con lo spettatore nel teatro, che si strutturi attraverso la coincidenza, il compenetrarsi di pensiero e azione, in modo che l’autore sia coinvolto personalmente, in carne e ossa in quello che dice e che esula dalla narrazione. Il tentativo di Pasolini è un tentativo che si scaglia contro il realismo del racconto borghese, dell’esposizione dei fatti attraverso la coerenza, la linearità, la fluidità della narrazione; quello di voler ridare forza a una parola morta in partenza, e, come nota ancora Benedetti, di scagliarsi contro quella convenzionalità non delle forme artistiche, bensì della sfera in cui esse trovavano posto. Per questo la sua parola vuole uscire dalla Letteratura e dal Teatro, per agire nel mondo al di fuori della sua istituzionalizzazione. Si tratta di quella forma di coerenza tra pensiero e azione, che consiste quasi in una riattualizzazione di quella parresia che serviva nella democrazia ateniese a esercitare una critica in rapporto diretto col potere, quell’attività che comportava un rischio e di quel rischio stesso faceva un’affermazione di verità, attraverso quella relazione fra se stessi e ciò che si dice (94).
 
Pasolini mostrava il proprio corpo e il proprio pensiero consapevole, non distaccandolo mai dall’esperienza diretta, dal rischio che comportava l’ esporre la propria professione e la propria persona contemporaneamente al potere delle istituzioni letterarie e di quelle politiche, alla verità del logos che esse diffondevano per mezzo di quella stessa parola, che l’autore tenderà a rifiutare sempre più drasticamente.
 La sfiducia nel logos tradizionale ha trovato in Empirismo eretico (95) la sua espressione teorica. Pasolini è stato sempre affascinato, durante l’intero corso della sua opera, dal passaggio dalla falsa dialettica antiborghese a quello che chiamava "il linguaggio della realtà", a discapito della ricezione del messaggio da parte del pubblico: la sua carriera subisce infatti una svolta improvvisa quando da poeta e romanziere, che pure aveva preferito l’incursione dialettale nella narrazione perché più vicina a una forma di comunicazione lontana dalla prigione della lingua borghese, passa all’attività di regista cinematografico. Partendo dall’idea di un linguaggio senza lingua, giunge alla tesi un po’ provocatoria che la lingua del cinema è la Realtà stessa, in quanto lo spettatore decodifica le immagini filmiche con lo stesso sguardo col quale decodifica la realtà; "il linguaggio della realtà" pertanto è più vicino alla fisicità onirica del caos delle cose che alla astrattezza dei simboli del linguaggio parlato. Gli oggetti infatti, afferma Pasolini, conservano sempre una certa impenetrabilità, perché non si adattano come le parole alle creazioni che indicano, ma essendo patrimonio comune, il loro significato è quello del senso comune; pertanto attraverso una sorta di memoria onirica si realizza una forma di rapporto comunicativo del soggetto, che percepisce l’immagine, con se stesso e indirettamente con gli altri: questo costituiva per Pasolini una poeticità della comunicazione al di fuori della strumentalità del linguaggio. La realtà dunque potrebbe definirsi come "cinema in natura" il cui primo linguaggio è l’azione umana nella realtà stessa che si eprime attraverso il corpo, la presenza fisica, il comportamento e infine la lingua scritto-parlata (96).
 
«Vivendo, dunque, noi ci rappresentiamo, e assistiamo alla rappresentazione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori: un gigantesco happening, se vogliamo» (97).
 Nel cinema, inteso come tecnica audiovisiva, Pasolini vedeva un mezzo per esercitare resistenza contro quei codici rivelatori di verità che tendono a unire il mondo e ad amministrarlo, facendolo apparire naturale attraverso l’ottica di una sua dimensione spazio-temporale. Il cinema rappresenta dunque un tentativo di isolare feticisticamente le cose del mondo e non considerarle naturali. Condizione di naturalità è infatti il tempo, che è il passare di una cosa che non c’è, di cui il cinema in ogni sua espressione pratica, ovvero in ciascuna realizzazione cinematografica, è in grado di abolire la continuità, presentando le azioni della vita come dopo la morte, rendendole significative e morali (98). L’autore, che in carne e ossa decifra il linguaggio dell’azione umana facendone rappresentazione, muore anch’egli ogni volta dentro le sue opere, perché il suo esempio ha fine e in questo modo esercita la sua libertà, mentre lo spettatore gode di tale libertà.
 
«O esprimersi e morire o essere immortali e inespressi» (99).
 
Si tratta di quella esigenza, parresiastica, perché dice "ecco ciò che sono e ciò che dico", in una coerenza di espressione e di azione, di voler eroicizzare il presente facendo di se stessi, nell’atto di creare, un atteggiamento che è al tempo stesso un comportamento, un esempio che si rinnova in ogni forma di espressione e in essa ogni volta ha fine, perché è quella fine che vi conferisce un significato morale, segnando al tempo stesso l’interminabilità di quell’esercizio che si fermerà soltanto con la morte, stavolta intesa non metaforicamente, e che a sua volta eroicizza l’intera vita come esempio. Pasolini poi, nelle sue opere, dà forma all’apprensione per il presente attraverso il ricorso all’esaltazione del passato, che metteva in luce una esigenza di allarmarsi di fronte a una carenza di comprensione storica che minava la possibilità di una relazione consapevole con l’attualità. Egli fa recitare al protagonista di un suo film (100) dei suoi versi:
 «Io sono una forza del Passato.
 
Solo nella tradizione è il mio amore.
 Vengo dai ruderi, dalle chiese,
 dalle pale d’altare, dai borghi
 abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
 dove sono vissuti i fratelli.
 Giro per la Tuscolana come un pazzo,
 per l’Appia come un cane senza padrone.  
O guardo i crepuscoli, le mattine
 su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più» (101).
 
 Il rifiuto delle forme espressive amministrate deve fino all’estremo trovare nuove modalità di manifestare il proprio pensiero, che Pasolini definisce sempre come un esempio, con riferimento immediato alla fisicità, alla presenza che rischia di restare incompresa: non a caso alcuni dei suoi versi più famosi recitano: «La morte non è nel non poter più comunicare, ma nel non poter più essere compresi» (102) .
 
La morte è l’atto inspiegabile che è in grado di dare senso alla vita, rivelazione misteriosa di quella bellezza che Pasolini cercherà di rendere soffermandosi sull’immagine della realtà, dei suoi corpi, delle sue azioni ritratte come dopo la morte.
 Che cosa sono le nuvole? (103) é una rivisitazione dell’Otello di Shakespeare che Pasolini presentava come una rappresentazione nella rappresentazione: immaginava la tragedia come messa in scena da un teatro di burattini, che sono i protagonisti veri e propri in quanto animati, ossia impersonati da attori in carne ed ossa: Otello in particolare, in quanto "creato" da poco, si chiede il perché di dover compiere degli atti che non avverte come corrispondenti alla propria natura, si chiede il perché di dover essere amministrato in quel modo. La prima risposta gli verrà fornita da Jago, il bugiardo traditore:

«la nostra vita è come una polenta. Prende le forme della caldara dov’è rovesciata. Ma qual è questa forma? La forma della superficie della polenta contro la parete della caldara, o la forma della parete della caldara che contiene la polenta? Noi siamo la polenta, e il giudizio degli altri è la caldara…eh figlio mio, noi siamo in un sogno dentro un sogno» (104).
 La seconda risposta gli verrà data dal burattinaio e poi ancora da Jago, i quali cercano di far capire a Otello che il motivo del sentirsi così diverso da come crede risiede in una verità che è nascosta nel profondo dell’anima e che dà ragione degli atti compiuti, coincidendo con una volontà inconsapevole; verità che non bisogna nominare, perché appena la si nomina, essa non c’è più. I due personaggi principali della commedia, Otello, che deve uccidere Desdemona, e Jago, i quali non possono fare a meno di recitare, essendo burattini, vengono "fagocitati" nel bel mezzo della scena da un pubblico di estrazione popolare che non riesce a scindere tra realtà e rappresentazione, e che irrompe sul palcoscenico aggredendo i personaggi, avvertiti come colpevoli dei loro atti. I malridotti Otello e Jago, il giorno seguente, vengono gettati in una discarica all’aria aperta perché ormai inutilizzabili, e, alzando gli occhi al cielo per la prima volta in punto di morte, si meravigliano, volgendo lo sguardo alle nuvole, della « straziante bellezza del creato » (105).
 
Qui la morte è vitale in quanto spalanca una porta verso la bellezza di un mondo altro che fino a quel momento non era stato scorto guardando dentro di sé. Questo mondo non può e non deve essere ridotto a spettacolo, ma deve essere un’apertura a un possibile ancora ignoto che si può costruire, che per Pasolini assumeva una dimensione sacra; la finitezza umana in rapporto col presente deve essere una spinta all’azione. Bisogna fare della vita un’arte a cui la morte dà un significato nel momento in cui rivela che la verità non va cercata dentro di sé, ma tendendo il proprio esprimersi verso il mondo, accorgendosi del mondo per turbarlo senza esserne divorati: offrire allo spettatore la propria consapevolezza, essere spettatori del proprio rapporto col mondo per essere spettacolo per il mondo.
 
Questa pratica dell’esistenza come esperienza del rapporto con l’ignoto possibile, Pasolini la definiva anche una dimensione "sacra" alternativa alla razionalità illuministica della cultura borghese.
 Quest’ultima viene posta in Teorema (106) a contatto con una dimensione ad essa estranea. Una famiglia borghese è indotta alla dissoluzione di tutti i suoi componenti attraverso la messa in discussione dei loro valori universali da un personaggio che Pasolini presenta nelle vesti di un ospite, che attraverso la dimesione sessuale, distrugge l’identità di tutti i membri della famiglia, ma che ha una dimensione umana benché estraniante. Il risultato è lo "smarrimento" di tutti i componenti della famiglia.
 
Si riscontra la necessità dell’affermazione di qualcosa di differente, di altro, che corrisponda a una spiritualità intesa come uno spazio pieno, ri-creato. La razionalità ordinatrice che, attraverso le categorie di ordine, benessere, possesso, riduce tutto a oggetto, non può concepire il sacro che come senso di colpa per aver trasgredito all’obbedienza alla propria cultura legata a una dimensione identificatoria che non può rapportarsi alla differenza se non cercando di assimilarla a sé, integrandola. Non conosce per questo che la dimensione dello sfruttamento, della dialettica schiavo-padrone e riconosce la diversità, l’alterità soltanto attraverso il formale, tollerando. La cultura occidentale, incarnata dalla borghesia, o rivoluziona e assimila a sé, o tollera escludendo il particolare attraverso il riconoscimento formale. Per questo Pasolini immagina che a contatto con l’"estraneo" essa si autodistrugga per eccesso di cultura e di appartenenza.
 
Il senso del sacro congiunto al corpo diviene in Pasolini un modo per rapportarsi nuovamente al proprio sé, una rifondazione della propria soggettività dopo la rinuncia che appartiene a quella borghese, e che necessita di un nuovo modo di vedere, di conoscere, di convivere. L’identità con la sua dinamica di accoglienza/esclusione è in questo senso una condizione sempre insufficiente del percepire la propria soggettività. Ciò che deve metterla per Pasolini in discussione è un’"alterità spirituale."
 Nel documentario Sopraluoghi in Palestina (107) , lo scrittore, (durante la visita ai luoghi della vita di Gesù, allo scopo di raccogliere materiale per girare il suo capolavoro Il Vangelo secondo Matteo (108), affermava che "spirituale" corrispondesse per lui a un qualcosa di non religioso o intimo, ma di estetico; Pasolini, rimasto sconvolto da quei luoghi, che avevano conservato pochissimo della loro autenticità quasi barbarica, di cui ciò che era sopravvissuto emergeva nelle cose piccole, che per tradizione cristiana immaginiamo immense, si dichiarava sempre più persuaso dalla sua idea che le cose, quanto più sono piccole e umili, tanto più sono belle e profonde, e si ritrovava altrettanto profondamente nella frase di san Paolo che dice:

«ciò che è stolto per il mondo, Iddio lo scelse per confondere i sapienti. E ciò che per il mondo è debole, Iddio lo scelse per confondere quello che è forte. Scelse ciò che per il mondo non ha nobiltà e valore, ciò che non esiste, per ridurre al nulla ciò che esiste» (109).
 
 La rivelazione estetica era dunque spirituale nella misura in cui si ricollegava a una rilevanza dell’ignoto, di ciò che di sacro si apre alla scoperta.
 
L’idea della morte in Pasolini metteva in evidenza quest’ignoto proprio mentre manifestava che finché siamo vivi manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita è nel caos di possibilità che si aprono nella relazione. Il sacro è quella sostanzialità dell’irresolubile, che non richiede qualcosa di ulteriore per essere compresa se non l’evidenza della vita.
 Il fiore delle mille e una notte (110), girato tra il 1973 e il 1974 tra Etiopia, Iran, Yemen e Nepal, che riprende lo schema della raccolta araba, in cui da una storia sboccia un’altra storia, privilegiandone alcuni temi, è un capolavoro della "vita esposta", in cui risaltano le atmosfere oniriche e i colori caldi. L’intenzione di Pasolini è proprio una rappresentazione dell’evidenza nella nudità dei corpi non eccessivamente scandalizzante perché giustificata da un modello di povertà.
 
La dimensione di "alterità" che qui e altrove in Pasolini si dà nella forma della nostalgia viene proiettata nel passato ma vuole essere una dimensione possibile, in cui la realtà gode già della propria ri-creazione pur non perdendo la sua condizione particolare di esperienza, poiché "la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni" (111), o come riportato, ancora più chiaramente, nella sceneggiatura, "la verità è nella vita, non nel sogno" (112). La verità è data dal carattere esperienziale inclassificabile della relazione, dal momento che ogni personaggio che racconta una storia lo fa vivendone una a sua volta, la cui conclusione felice o infelice non dice una verità su di sé, ma espone la propria "sacra e vera evidenza" della vita presentandola come archi-possibilità della differenza, dello scarto che essa esprime.
 
Da ogni relazione ne nasce un’altra, perfino dalla morte si schiude una relazione attraverso una storia. La morte é lo scarto che sposta l’attenzione dalla grazia dei singoli corpi all’elemento co-esitenziale della relazione, alla bellezza co-esistenziale dei corpi.
 
 -Per concludere

Per Foucault un modo di disassoggettamento é un modo di smettere di essere legati a un’identità, di esercitare il proprio potere sugli altri nel senso di una condotta, pertanto è una forma di resistenza. Esistono soggetti attivi, attraverso le pratiche di sé, sia soggetti passivi, cioè vittime di un sistema di coercizione. Ma i casi di attività o passività, le pratiche di sé o modi di soggettivazione, sono per Foucault il modo in cui un individuo accede, forma la propria soggettività, dunque sono anche il modo attraverso il quale si conduce rispetto agli altri. Sono il modo in cui regola il proprio potere a partire da una pratica di resistenza e si oppone al potere, ma, contemporaneamente, si costituisce eticamente come soggetto morale, rispetto a se stesso e ad altri, attraverso un’arte dell’esistenza. Essa è la chiave della possibilità di una soggettivazione etica che sia anche politica, e che implichi una reciprocità tra questi due ruoli del soggetto.
 In Microfisica del potere (113), Foucault afferma che esiste un meccanismo per cui alla repressione si oppone il discorso e la ribellione del corpo a quel discorso; il potere ne prende atto e proprio attraverso e grazie a quel discorso si ripresenta sottoforma di controllo-stimolo alla verità piuttosto che di repressione, recuperando sempre attraverso i soggetti. La coscienza del corpo è dunque sempre determinata da un investimento di quel corpo da parte del potere. In questo si verifica sempre un controllo capillare del potere (114).
 
Se i Greci dunque si curavano della verità curandosi di se stessi, e si curavano degli altri attraverso il rapporto con sé, escludendo che si possa riprendere la cura di sé come principio imitativo dei Greci, potremmo porci, secondo Foucault, il problema della verità in negativo. Perchè dobbiamo curarci della verità più che di noi stessi? Foucault sottolinea che in occidente ci sono delle possibilità di cambiare le regole del gioco di verità perché non ne esiste una definizione chiusa, che escluda tutti gli altri giochi di verità.
 
L’importante lezione di Foucault è che il lavoro da compiere è innanzitutto sul soggetto come sull’elaborazione d’alterità: laddove oggi l’ascetismo è inteso essenzialmente come rinuncia, astensione da qualcosa, si deve a far maturare l’elemento positivo-affettivo, produttivo dell’ascesi.
 
L’arte di vivere in questo senso è una forma produttiva di "creazione" di sé che non può prescindere dalla pratica politica, dall’opposizione, dalla resistenza; nello stesso tempo non si può prendere una posizione ed esercitare un’influenza politica senza un’etica, senza un lavoro su di sé, senza un riconoscimento politico, una consapevolezza dei rapporti che soltanto quel lavoro su di sé può dare.
 
Pier Paolo Pasolini si é impegnato in un tentativo etico e insieme politico di ricerca artistica che implicasse il coinvolgimento dell’esistenza stessa, nella persona dell’autore, fino alla sua morte, coerentemente con il suo pensiero:
 «Ogni nostra vita, in quanto linguaggio dell’azione, o semplicemente, della presenza fisica, è un "esempio": in quanto tale, ogni nostra vita è un’opera: con il suo stile e la sua morale: il suo messaggio. Rispetto al codice, cioè alla media delle vite umane, la nostra vita può essere inventata, com’è inventato, appunto, "un messaggio". [...] Invasato da un vecchio spirito ereticale, metto l’accento piuttosto sulle opere che sulla fede» (115).
 Attraverso una nuova possibilità di concepire il modo di essere, entrambi, Foucault e Pasolini, collegano politica, etica e verità nella loro ricerca.
 
Per Foucault la creazione di forme nuove di soggettivazione, di una cultura di sé attraverso l’arte di vivere, è la dimensione più appropriata, auspicabile per ritrovare una forma di combattimento politico che non si dia nella forma di un’illusione, di un accaparramento di realtà, di una presa di possesso, di un progresso crescente, di un valore universale. È importante che la trasformazione sociale parte da un lavoro interno a questo spazio comune di ricerca dove il discorso e la razionalità non sono l’unica promessa di felicità e dove il soggetto è capace di "crearsi altro" per sé e per altri anche a costo di essere, talvolta, un soggetto muto.
 
Il rapporto, quando è mediato da un "interesse confessionale", privilegia quasi sempre il "ruolo oggetto" del soggetto che si pente o che si libera del peso della sua verità: emerge come questa sia una caratteristica che si estende a tutti i rapporti e riempie tutte le forme di soggettività che sono legate a un’estrazione di verità che si fa discorso, e che promette salvezza o guarigione dalle pene dell’anima. Nel cammino verso la salvezza e nel progresso della conoscenza il soggetto non ha bisogno di trasformazione, ma non rinuncia alla valorizzazione del discorso come forma di possesso del mondo. L’altro è solo un simile che all’occorrenza viene a tirar fuori la verità che è dentro di noi. 
 
Il potere che esercitiamo sugli altri è posto fra se stessi e la verità, e la salvezza che essa promette è una salvezza individuale. Il momento della verità è un momento di comprensione individuale, non relazionale, come lo è la morte; e la comprensione non è qualcosa che si condivide, è un atto razionale. Ciò che ci responsabilizza verso gli altri è qualcosa di esterno, naturale e universale, come il diritto: ciò è sufficiente a concepirci in una dimensione parallela a quella dell’altro, riconoscendoci un comune fine razionale. Niente dell’altro compromette il sé, la cui unica ascesi possibile è quella della conquista della verità, e la forma di discorso che se ne ricava, strumentale e verticale, favorisce uno strutturarsi di relazioni il cui unico frutto è il prodursi negli individui di "percorsi paralleli e lineari", che degenerano qualora "deviati", messi in discussione dagli altri.
 
L’individuo si analizza, ma non si scalfisce. Bisogna invece opporre continuamente, secondo la lezione di Foucault, una via d’uscita alla verità che viene da sé, via d’uscita che è nel corpo dell’altro e nel mondo e va cercata opponendo al presente la consapevolezza del passato e del vissuto: niente deve scomparire, niente va liberato, tutto va rivisitato continuamente nella sua stratificazione.
 
A questo proposito Pasolini concepisce, attraverso una forma particolare di scrittura, la comprensione a partire dal fraintendimento, e la fa diventare una costruzione di esperienze stratificate, accessibili soltanto mediante un’azione comune dell’autore e del lettore-interlocutore, esercitata innanzitutto sull’elaborazione del proprio vissuto, necessario per l’operazione dialogica.
 
Una volta soggetto etico e soggetto di verità, come spiega Foucault, erano congiunti grazie a una forma di ascetismo attivo: il fatto che le forme di soggettività non siano delle categorie universali implica che esse possano sempre costituirsi "in verità" come alterità politiche ed etiche. Questa possibilità si dà in un’estetica dell’esistenza trasversale, che attraverso il lavoro su sé e sul proprio corpo agisce anche sulle regole di condotta degli altri, e che necessita di una continua attenzione critico-percettiva alle possibilità che essa stessa apre.
 
Il soggetto può tornare ad essere un soggetto di conoscenza se la conoscenza è quella che deve assumere per essere un soggetto morale a pieno titolo: questo atteggiamento è etico in quanto si pone il problema di esercitare un modo di condursi e di condurre e presuppone uno spazio fra sé "altro", che, nei termini di questa relazione, è l’equivalente del "momento eroico" baudelairiano nella relazione col presente: il momento della meraviglia. La relazione va trasfigurata attraverso l’evidenza del reale e l’esercizio della libertà, che fa del proprio corpo un’opera d’arte e il cui senso è il compito legato all’atteggiamento che si assume, fino alla fine di quel vissuto.
 
Pasolini, che aveva cercato la poeticità della comunicazione al di là della strumentalità del linguaggio, ritrovandola nell’immagine della realtà, in "Affabulazione" (116), nei panni dell’ombra di Sofocle, si esprime cosi’:
 
«L’uomo si è accorto della realtà
Solo quando l’ha rappresentata.
[…]
comincia ad albeggiare, è l’ora in cui il silenzio
è più profondo…Ma un rossore
corrompe col suo profondo essere,
l’azzurro dell’aria gelida: fra poco ne brilleranno i vetri riflettendo il triste orizzonte.
Ah, rimpiangerò per sempre
di non aver rappresentato abbastanza nelle mie tragedie
questa inanimata
volontà della terra a rivivere; questo po’ di rosa,
questo leggero spirare del vento – cose, non parole» (117).
 
Note
 (1) MICHEL FOUCAULT, Tecnologie del sé. Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 10. 26
(2) ib, p. 14.
(3) Ib, p. 13.
(4) Ib, p. 66.
(5) MICHEL FOUCAULT, Poteri e strategie, Associazione Culturale Mimesis, Milano 2004, cfr. p. 104. Si veda inoltre ID., L’etica della cura di sé come pratica di libertà, in Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 2005, cfr. p. 282.
(6) MICHEL FOUCAULT, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2004, p. 83.
(7) Ib, pp. 82-85.
(8) MICHEL FOUCAULT, Foucault, in Archivio Foucault 3. cit. p. 252.
(9) MICHEL FOUCAULT, Tecnologie del sé, cit. p. 14
(10) MICHEL FOUCAULT Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005, p. 143.
(11) MICHEL FOUCAULT, Il soggetto e il potere, in H. L. DREYFUS, P. RABINOW, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze, 1989, p. 248.
(12) Ibidem, p. 249.
 (13) Ibidem.
 (14) Ibidem, p. 79.
 (15) MICHEL FOUCAULT, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, p. 183.
(16) MICHEL FOUCAULT, Foucault 1984, in Archivio Foucault 3, cit., p. 250.
(17) MICHEL FOUCAULT, L’etica della cura di sé come pratica di libertà, in Archivio Foucault 3, cit., p. 283.
(18) Si fa riferimento alla definizione foucaultiana che costituisce il titolo di un paragrafo in MICHEL FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1993, cfr. p. 147.
(19) Sul dispositivo di sessualità cfr. MICHEL FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., pp. 138 - 139.
(20) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Le parole e le cose, Bur Saggi, Milano, 2004.
(21) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Microfisica del potere, cit.
(22) Cfr. Intervista a Michel Foucault, ibidem, p. 11.
(23) Cfr. ibidem, pp. 8-9.
 (24) Cfr. Nietzsche, la genealogia, la storia, ibidem, p. 29.
(25) Cfr. ibidem, pp. 30-34.
 (26) Cfr. ibidem, p. 35.
 (27) Cfr. ibidem, p. 41.
 (28) Cfr. ibidem, pp. 42-44.
 (29) Cfr. ibidem, pp. 51-54.
 (30) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Le parole e le cose, cit.
(31) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Calderòn, in Pasolini. Teatro, Mondadori, Milano, 2001.
(32)MICHEL FOUCAULT. L’etica della cura di sé come pratica di libertà, in Archivio Foucault 3, cit.
(33) Cfr. ibidem, p. 276.
 (34) Sulla genealogia dell’etica, in H. L. DREYFUS, P. RABINOW, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 266.
(35) Ibidem, p. 258.
 (36) Ibidem, p. 259.
 (37) Ibidem, p. 268.
 (38) Ibidem, p. 273.
 (39) Ibidem, p. 278.
 (40) MICHEL FOUCAULT, Tecnologie del sé, cit., p. 12.
(41) MICHEL FOUCAULT. L’etica della cura di sé come pratica di libertà, cit., p. 280.
(42) Ibidem, p. 293.
 (43) Ibidem.
 (44) MICHEL FOUCAULT, Poteri e Strategie, cit. p. 114.
(45) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Lezione del 6 gennaio 1982, in Ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2003.
(46) Ibidem.
 (47) MICHEL FOUCAULT, Tecnologie del sé, cit, p. 3.
(48) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Le triomphe social du plaisir sexuel, in Dits et écrits, Gallimard, 1994.
(49) Cfr. MICHEL FOUCAULT Lezione del 1° marzo 1978, in Sicurezza, territorio, popolazione, cit.
(50) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Les matins gris de la tolerance, in Dits et écrits, cit.
(51) PIER PAOLO PASOLINI, Comizi d’amore, 1963, in Pasolini. Per il cinema, Mondadori, Milano, 2001.
(52) MICHEL FOUCAULT, Les matins gris de la tolerance, in Dits et écrits, cit., p. 269-271 (traduzione mia).
(53) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Scritti Corsari, in Pasolini. Scritti sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 2006.
(54) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Lettere luterane, in Pasolini. Scritti sulla politica e sulla società, cit.
(55) PIER PAOLO PASOLINI, Pannella e il dissenso, ibidem,cit., p. 606.
(56) Ibidem. 27
(57) Ibidem, p. 608.
 (58) Cfr. Intervento al congresso del partito radicale, ibidem, cit.
(59) Ibidem, cit.
 (60) Ibidem, p. 721.
 (61) PIER PAOLO PASOLINI, Comizi d’amore, cit.
(62) Ibidem.
 (63) MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit.
(64) MICHEL FOUCAULT, Tecnologie del sé, cit.
(65) Cfr. MICHEL FOUCAULT, La scrittura di sé, in Archivio Foucault 3, cit.
(66) MICHEL FOUCAULT, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Lilano, 2004, p. 16.
(67) Cfr. MICHEL FOUCAULT, La genealogia dell’etica, in H.L. DREYFUS, P. RABINOW, La ricerca di Michel Foucault, cit, p. 264.
(68) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Lezione del 6 gennaio 1982, in Ermeneutica del soggetto, cit.
(69) CARLA BENEDETTI, Pasolini contro Calvino, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 181.
(70) Ibidem, p. 185.
 (71) Ibidem, p. 151.
 (72) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Petrolio, Mondadori, Milano 2005.
(73) Ibidem, p. 579.
(74) Ibidem.
 (75) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, La Divina Mimesis, Mondadori, Milano 2006, p. 44.
(76) PIER PAOLO PASOLINI, Petrolio, cit., p. 39.
(77) Ibidem, pp. 14-15.
 (78) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Discorso e Verità, Donzelli, Roma 2005.
(79) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Lezione del 10 marzo 1982, in L’ermeneutica del soggetto, cit.
(80) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Discorso e verità, cit., pp. 111-114.
(81) Cfr. ibidem.
 (82) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Che cos’è l’ Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., p. 228.
(83) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Prefazione alla storia della sessualità, ibidem, pp. 234-235.
(84) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Che cos’è l’Illuminismo, ibidem, pp. 223-225.
(85) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Illuminismo e Critica, Donzelli, Roma 1997.
(86) CARLA BENEDETTI, Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
(87) Ibidem, p. 7.
(88) Ibidem, p. 8.
(89) Ibidem, pp. 115-116.
(90) Ibidem, p. 117.
(91) Ibidem, pp. 117-119.
 (92) Ibidem, p. 130.
 (93) Ibidem, p. 131.
 (94) Ibidem, p. 133.
 (95) PIER PAOLO PASOLINI, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2005.
(96) Cfr. Sezione Cinema, ibidem.
(97) Ibidem, p. 606.
(98) Ibidem, p. 253.
(99) Ibidem.
 (100) PIER PAOLO PASOLINI, La ricotta, 1963, in Pasolini. Per il cinema, Mondadori, Milano, 2001.
(101) PIER PAOLO PASOLINI, Poesia in forma di rosa, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2003, p. 1099.
(102) Ibidem, p. 1183.
 (103) PIER PAOLO PASOLINI, Che cosa sono le nuvole?, 1967, in Pasolini. Per il cinema, Mondadori, Milano, 2001.
(104) Ibidem, pp. 939-40.
 (105) Cfr. Ibidem.
 (106) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Teorema, Garzanti, Milano 2006.
(107) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Sopraluoghi in Palestina, 1963-64, in Pasolini. Per il cinema, cit.
(108) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Il Vangelo secondo Matteo, 1964, Pasolini. Per il cinema, cit.
(109) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Sopraluoghi in Palestina, cit.
(110) PIER PAOLO PASOLINI, Il fiore delle mille e una notte, 1973-74, in Pasolini. Per il cinema, Mondadori, Milano, 2001.
(111) Cfr. ibidem.
(112) Cfr. ibidem, p. 1722
 (113) Cfr. MICHEL FOUCAULT, Microfisica del potere, cit.
(114) Cfr. ibidem, p. 140. 28
(115) PIER PAOLO PASOLINI, Appendice a Porno Theo Kolossal, in Pasolini. Per il cinema, cit, p. 2758.
(116) Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Affabulazione, in pasolini. Teatro, cit.
(117) Ibidem, pp. 520-522.






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Curatore, Bruno Esposito

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