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sabato 6 settembre 2014

Lo sguardo antropologico di P.P. Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

  
 
 
Lo sguardo antropologico di P.P. Pasolini

di Teresa Biondi
La rivista del documentario - Anno 1 n. 4 luglio 2006
Fondazione Libero Bizzarri



Affrontare il discorso riguardante i rapporti tra lo sguardo filmico e lo sguardo antropologico comporta una premessa importante: quando si usa il termine antropologia in riferimento ad opere filmiche bisogna chiarire la differenza tra realtà e realismo cinematografico; in riferimento all’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini è utile riprendere il concetto espresso da Gilles Deleuze, il quale afferma in merito ai film dell’autore che «il cinema è la realtà», confermando il rifiuto di simulare impressioni di realtà e perseguire la rappresentazione del vero partendo dall’assunto "ontologico/antropologico": «il cinema rappresenta la realtà attraverso la realtà» [1]. 

Ma cosa significa sguardo antropologico filmico? Come l’antropologia si ritrova nell’opera pasoliniana? Pasolini poeta, romanziere, saggista, regista della modernità è anche "antropologo" ed è attraverso i documentari che illustra tale capacità in modo chiaro e fortemente rappresentativo dell’indagine antropologica e della ricerca sulle mutazioni storico-culturali e comportamentali degli italiani, che egli andava studiando ed analizzando attraverso il cinema.

Pasolini usa il cinema partendo dal principio che si tratta di una lingua transculturale in grado di parlare a tutti, quindi in grado di comunicare a diversi livelli culturali; un sistema di segni che rappresenta la realtà attraverso la realtà capace di riprodurre uomini in carne ed ossa e che permette di vivere nel cuore della realtà delle cose e dei fatti rappresentati. La realtà al cinema per Pasolini non è la cronaca; anche quando utilizza l’inchiesta filmata ed emergono in primo piano accadimenti veri, la realtà ha una sua essenza realista che esula dal fatto stesso di cronaca per assurgere a forti tinte di umanità pura come eco e immagine dell’uomo vivente.

La Rabbia, il primo documentario di Pasolini, ne costituisce una prova; è il 1973 quando Pasolini realizza il suo primo film di montaggio realizzato con materiale di repertorio consistente nella messa in scena e rappresentazione della contemporaneità quale frutto della storia in grado di illustrare come negli anni il potere, le gerarchie e la borghesia hanno determinato i tempi moderni con tutte le catastrofi prodotte e generate dall’uomo, risultato della volontà e dell’attività arrivista delle forme di potere succedutesi e incardinatesi nella società e nella storia.

La grandezza del pensiero di Pasolini è di aver saputo narrare attraverso questo film il passato, il presente e (previsto) il futuro, in quanto è un’interpretazione attuale e futurista dei fatti che non si discosta molto da contenuti e immagini del sociale contemporaneo - che oggi (ri)viviamo come se fossimo nel 1963 - con tutti i limiti delle differenze dei fatti e delle evoluzioni della storia contemporanea. Quindi la realtà nel cinema di Pasolini non è la cronaca, ma è un modo per lasciar parlare il reale attraverso il filtro poetico del linguaggio cinematografico o il cosiddetto "cinema di poesia" come amava definirlo Pasolini. Il cinema di poesia di Pasolini può essere etichettato come un esperimento di linguaggio, non in quanto poesia ma come "cinema del pensiero" o "cinema della modernità" [2].

Giorgio De Vincenti ne Il concetto di modernità nel cinema [3] descrivendo la modernità ricorda che l’avvento di essa non è determinato esclusivamente dalle nuove tecniche - tra le quali la scoperta del panfocus, obiettivo grandangolare in grado di restituire la profondità di campo e quindi costruire un dialogo tra lo sfondo e il primo piano di una stessa immagine messa a fuoco in tutte le sue parti - e dal modo in cui queste rappresentano visivamente l’uomo; ma ricorda che è soprattutto nei contenuti filmici che nasce lo spirito profondo della modernità cinematografica, la quale consiste nel tentativo di rappresentare nuovi punti di vista sull’uomo tramite forme di racconto innovative, a partire dalle quali i tecnici affinano le "specificità dell’opera" attraverso le strumentazioni a disposizione che realizzano il contenuto per mezzo delle nuove forme di rappresentazione filmica ottenute grazie all’innovazione data dalle nuove tecnologie. Ciò spiega perché il montaggio nei film di Pasolini e in particolar modo nei documentari è differente dal montaggio della classicità e delle sue forme; i documentari di Pasolini sembrano dei reportage che si trasformano in appunti visivi/filmati dell’esperienza dei sopralluoghi, molto vicini tecnicamente alla ricerca antropologica sul campo e alla scientificità dell’antropologia, ad esempio attraverso l’utilizzo dei primi piani dei volti, ricercati e indagati con il chiaro intento di rappresentare i connotati razziali, i segni lasciati dall’ambiente e dal contesto culturale di origine determinanti modi e stili di vita all’interno degli spazi autoctoni.

Pasolini ha pensato palesemente il cinema come strumento di ricerca e indagine antropologica sull’uomo, come rivelano i suoi successivi film, quando - nel tentativo di comprendere la cultura quale sfondo della società, successivamente interpretata in prospettiva mitica - diviene evidente l’indagine antropologica connaturata al linguaggio filmico; a testimonianza del valore antropologico della rappresentazione filmica della realtà depone il suo pensiero sul Neorealismo cinematografico italiano che egli intendeva come il primo atto di coscienza critica e politica che l’Italia ha compiuto su se stessa, un’auto-analisi antropologica dettata dal piacere di scoprirsi nella realtà vera attraverso lo sguardo su se stessi, fondato sull’idea che il futuro sarà migliore, quale rappresentazione di un presente già passato nell’istante della sua cattura in immagine filmica e valevole in prospettiva teleologica.

Comizi d’amore è un documentario che attraverso l’inchiesta filmata mette in scena in modo esemplare per l’epoca la cultura che innesta e determina i costumi e le tradizioni sessuali degli italiani. Per realizzare questo film Pasolini si sposta da un capo all’altro dell’Italia mostrando diversi ambienti e diverse culture del Paese, documentando attraverso volti, atteggiamenti, modi e soprattutto attraverso i dialetti - i quali costituiscono il miglior modo, dal punto di vista antropologico, per rappresentare la realtà degli uomini che vivono in un determinato contesto ambientale e sociale - le diverse stratificazioni culturali e relativi comportamenti sessuali, totalmente contrastanti nell’uso e nel modo di intendere lo stesso pensiero sessuale degli italiani.

Da questo panorama ricostruito tramite l’incastro di tasselli macrosignificanti esplicativi di tipologie e modi cultuali, emergono i contesti che determinano la multiforme e sfaccettata italianità, i diversi caratteri sessuali degli italiani dal settentrione alla Sicilia, determinati dal "modello culturale di appartenenza" - che in tal caso ha basi fortemente regionalistiche, quali ad esempio la "sicilianità" che Pasolini lascia emergere con profonda significanza e a forti tinte "tradizionalistiche" - alle soglie di una trasformazione imminente che sfocerà nella rivoluzione sessuale del "Sessantotto".

L’utilizzo di tecniche del racconto specifiche del linguaggio cinematografico, le inquadrature, i primi piani, l’inchiesta dal vero, l’utilizzo di un montaggio serrato fatto di passaggi e tagli di forte impatto visivo - come un passaggio da un primo piano ad un totale, atto a connotare e contestualizzare la cultura nell’ambiente che la prodotta - non costituiscono per Pasolini una volontà di rottura delle forme o il tentativo di fare puro sperimentalismo, ma costituiscono il risultato dell’utilizzo della macchina da presa come " camera stilo", in modo del tutto libero dagli schemi del linguaggio classico e formale, come insegna la " nouvelle vague" francese.

 Come gli antropologi che si calano sul campo e vanno alla ricerca delle spiegazioni per mostrare e svelare la cultura e la realtà di popoli e situazioni, così Pasolini utilizza la macchina da presa per catturare immagini e istanti di realtà che svelano l’essenza vera degli italiani e mostrano i comportamenti, i costumi, la lingua, i pensieri, nonché le differenze essenziali che costituiscono gli specifici valori antropologici della variegata cultura italiana, sottolineando le "differenze" come patrimonio culturale e ontogenetico degli italiani, per assurgere in fine alla rappresentazione filmica dei cambiamenti storico-culturali in atto nella società moderna a scapito dei valori e del patrimonio di tradizioni e pratiche culturali ormai quasi del tutto perse, nel nome della modernità, del consumismo e dell’omologazione.

In questo contesto storico-culturale-antropologico il nuovo linguaggio filmico proposto da Pasolini è stato definito "sperimentalista", luogo virtuale di espressione ideologica e contestazione teorica in cui le forme sperimentali del documentario moderno, il carattere performativo e autoriflessivo che si integrano alle forme della rappresentazione canonica - forme impure, in cui il soggettivismo si contrappone all’oggettivismo classico - costituiscono il modo di rappresentare una nuova forma di antropologia prospettica intorno all’analisi dei cambiamenti culturali ed epocali dell’uomo, puntando i riflettori sulle angosce intime e private derivanti dal disagio del vivere di quegli anni. Pasolini si spinge fino al tentativo della ricerca dell’arcaico puro e dell’uomo originario non contraffatto dall’evoluzione dei tempi moderni - quest’ultima dettata dall’arroganza del potere e della borghesia sopraffattrice, in nome  del denaro e della supremazia del più forte sul più debole, dei valori intimi e primordiali dell’uomo - andando a ricercare nei paesi del Terzo Mondo l’uomo "oriundo", nella speranza di trovare ancora in vita l’essere non corrotto dalla nuova cultura consumistica e omologante delle società evolute.

Pasolini dopo Comizi d’amore si reca in Palestina per la ricerca delle ambientazioni e dei personaggi de Il Vangelo secondo Matteo (1964) e realizza dei sopralluoghi filmati (Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, 1963-1964) trasformando la macchina da presa in taccuino da viaggio così come fanno gli antropologi sul campo.

Pasolini non vuole fare l’antropologo, ma si è sempre trasformato e reinventato attraverso l’analisi sullo stato della cultura e dell’uomo realizzate da punti di vista molto differenti gli uni dagli altri. Non ha mai pensato di essere solo un poeta, solo un romanziere, solo un regista o un antropologo. Quando si sposta da un continente all’altro alla ricerca della spiegazione della cultura umana, dell’uomo primitivo, delle tradizioni e del folklorico allo scopo di interpretare la condizione moderna dell’uomo, si rende conto che l’utilizzo della macchina da presa diviene un occhio meccanico in sostituzione del proprio in grado di catturare la sua esperienza esattamente così come appare davanti ai suoi occhi in quel preciso istante.

Pasolini può così compiere il suo viaggio di ricerca, calarsi sul campo e cercare le risposte alle sue domande attraverso le riprese dell’esperienza vissuta con i sopralluoghi per il film sul Vangelo, testimonianza della vita e delle trasformazioni economiche, politiche e sociali della cultura araba e dei popoli della Palestina dalla nascita di Cristo agli anni Sessanta del Novecento. La documentazione audiovisiva, ricercata e ragionata attentamente, assume valenza antropologica per la capacità di narrare un ambiente contenente degli uomini che vivono nella loro cultura specifica e lascia emergere la grande capacità antropologica di Pasolini che riesce a riprodurre diversi modelli di culture attraverso i documentari realizzati in Italia, in Palestina, in Africa e in India.

Gli antropologi analizzano e studiano le culture definendole attraverso la riproduzione dell’esperienza sul campo documentata su testi scritti e audiovisivi, secondo una prospettiva di studio stabilita, o "teleologica" come viene definita tecnicamente in antropologia sociale, che in quanto tale se verificata assume valenza "scientifica" della ricerca antropologica sul campo. Per gli antropologi l’opera pasoliniana quale ricerca sul campo non è puramente scientifica, anche se più volte antropologi e etnologi citano i film di Pasolini, e non solo i film documentari, quali documenti in grado di spiegare culture e aspetti di modelli di culture delle quali non esistono altri documenti. Bisogna infatti porre attenzione al particolare significato assunto dai film quali testimonianze che documentano l’uomo e la cultura grazie alla capacità ontologica, assunta dal cinema sin dalla sua origine, di essere strumento di riproduzione tecnologica del reale. [4] Infatti, sin dagli inizi del Novecento, gli antropologi si accorgono che il cinema ha la grande capacità di rappresentare l’uomo vivente e la sua cultura, anche se bisognerà attendere gli anni Trenta e le ricerche condotte da Margaret Mead per la nascita ufficiale dell’antropologia visiva.

I primi studi antropologici definiscono "scientifica" la capacità del mezzo filmico - in grado di sostituire il taccuino da viaggio con uno strumento che finalmente dà la possibilità di mostrare l’uomo attraverso delle riprese realizzate sul campo - di riprodurre movimenti, gesti, fattezze e in seguito, quando arriverà il sonoro, registrare e riprodurre i suoni, le lingue ed il pensiero stesso degli uomini attraverso la parola. Si pensi all’uso del dialetto nei film di Pasolini quale elemento forte della costruzione filmica; attraverso una lingua diversa da quella spontanea e originaria della popolazione messa in scena non si potrebbe avere lo stesso significato antropologico dell’uomo e dei luoghi rappresentati. Pasolini è alla ricerca dell’uomo originario, scelta ideologica non secondaria che accomuna lo studio antropologico e il lavoro cinematografico pasoliniano.

Ma cos’è per Pasolini la ricerca dell’uomo originario? È la ricerca utopica di trovare, o ritrovare - se è ancora possibile - l’uomo puro, l’uomo che è sopravvissuto alle classificazioni sociali senza farsi corrompere dalla borghesia. L’intera opera pasoliniana si assume l’arduo compito di documentare l’uomo superando e travalicando la nazionalità.

I successivi documentari, Appunti per un film sull’India (1967-1968), Appunti per  un’Orestiade Africana (1969), Le Mura di Sanna’a (1971), costituiscono un’operazione  d’indagine antropologica in cui si ricercano delle specificità culturali. All’interno di tali specificità Pasolini spiega la realtà sociale dell’uomo evolutosi fino alla modernità e mostra contemporaneamente la geografia delle culture e la crescita dell’umanità attestando come la povertà è radicata in tutte le società ed è parte dell’uomo quale risultato delle classi sostenute dai corrotti, dal progresso e dal potere.

Pasolini nel tentativo di spiegare la distruzione operata dall’uomo ai danni di se stesso e delle culture originarie mette in scena la morte, metafora dell’uomo corrotto che diretto verso la distruzione non ha alcuna via di scampo al suo destino. Il significato specifico assunto della morte nella rappresentazione filmica pasoliniana è legato al tentativo di spiegare l’uomo guardandolo a ritroso nel tempo, partendo dalle sue origini e allo stesso tempo osservandolo nel suo cammino verso il futuro o verso quello che è il destino, percorso nel quale Pasolini rintraccia sempre l’innestarsi di forze di potere che ne determinano la distruzione e la morte. Pasolini attraverso la sacralità ed il mito - inteso quale destino, ciò che è segnato e destinato e non può non accadere - dà delle risposte e dei significati profondi alle azioni dell’uomo compiute durante questo tragitto ed afferma della morte che essa: «[…] opera una rapida sintesi della vita passata e la luce retroattiva che essa rimanda su tale vita ne trasceglie i punti essenziali facendone degli atti mitici o morali fuori del tempo. Ecco, questo è il modo con cui una vita diventa una storia».

Pasolini è stato decisamente un buon antropologo ed è limitativo parlare di antropologia filmica nell’opera pasoliniana riferendosi solo a Edipo re (1967), Medea (1969-1970) ed al discorso dell’autore intorno al mito, alla sacralità o alla religione.

L’opera documentaristica pasoliniana, sia nei contenuti che nella forma, è molto vicina alla ricerca antropologica anche se il chiaro intento dell’autore è stato quello di fare cinema, il cinema della modernità, dove travalicando i generi e le forme Pasolini ha insegnato che il cinema è un linguaggio in continua evoluzione, espressione del pensiero dell’uomo e dell’uomo stesso in grado di svelare la realtà attraverso la realtà.



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NOTE
[1] Deleuze G., L’immagine tempo, Ubulibri, Milano, 1989, p. 41.
[2] Così come affermato al Premio Libero Bizzarri 2005 da Manoel de Oliveira riguardo al cinema della modernità e delle sue stesse opere: «il cinema del pensiero sono quei film attenti alla rappresentazione dell’uomo, dell’uomo immerso nel mondo e nel contesto in cui esso agisce, si muove e pensa». È chiaro che sia l’opera di Pasolini che l’opera del grande maestro de Oliveira, sono esempi molto significati di quello che Deleuze chiama il cinema di pensiero o cinema della modernità.
[3] De Vincenti G., Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche Editrice, Parma, 1993.
[4] Ha affermato Maoel de Oliveira durante un incontro con gli studenti delle scuole nelle mattinate del Premio Libero Bizzarri che: «quando i fratelli Lumière girano i loro primi film realizzano dei documentari. Allo stesso modo quando posizioniamo la macchina da presa davanti ad un fatto che accade, se quel fatto non sa di essere ripreso, quello che otteniamo è molto vicino al documentario. Così l’uscita dalla fabbrica del primo film dei Lumière è documentazione visiva di un avvenimento, ma non scientifica perché realizzata con intenzioni artistiche, di utilizzo del mezzo tecnico per riprodurre il movimento umano attraverso il cinema, e non con chiari intenti antropologici di analizzare culturalmente quel comportamento».



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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