"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Petrolio - Recensione di Raffaella Foresti
Chi mi segue da un po’ sa che ho un’autentica passione per quelle sculture di Michelangelo chiamate Schiavi o Prigioni.
Si tratta come noto di un gruppo di sei statue che l’artista realizzò (o meglio, avrebbe dovuto realizzare) per la tomba di Giulio II. Due di esse (lo Schiavo morente e lo Schiavo ribelle) si trovano al Louvre, mentre le altre quattro, le più belle, le più intense, le più evocative, hanno trovato (ahimè indegna) collocazione presso la Galleria dell’Accademia di Firenze, un po’ abbandonate ai lati del corridoio che conduce alla sala del perfettissimo, lucidissimo e finitissimo David.
Questi Prigioni fiorentini (lo Schiavo giovane, lo Schiavo barbuto, lo Schiavo detto Atlante e lo Schiavo che si ridesta) sono noti per essere rimasti incompiuti e per aver consegnato alla storia non solo un chiaro segno della poetica michelangiolesca (le statue in torsione escono letteralmente dal blocco di marmo grezzo, ancora ben visibile) ma anche una voce, un concetto, destinato a fare presa, in modo particolare, sull’uomo postmoderno.
Gli Schiavi, proprio perché “interrotti”, possiedono in sé la forza di bloccare il tempo in un istante eterno restituendo, in un solo momento, tutto il significato della creazione artistica, la sua frustrazione e la sua vittoria.
È proprio nel suo essere frammentario e non-finito, nel senso di cui sopra, che sta la maggior potenza di Petrolio, l’ultima opera letteraria di Pasolini.
Associo queste due forme d’arte, così distanti tra loro, perché in qualche modo sono accomunate da un suono così chiaramente udibile dall’uomo postmoderno che pur chiaramente prescinde, e di fatto trascende, i propositi dell’artista.
È ormai praticamente certo, infatti, che Michelangelo non abbia intenzionalmente lasciato questi suoi lavori a metà, allo stesso modo che per Pasolini, che anzi sentiva come un dovere civile portare a compimento il romanzo.
Questo disse P.P.P. nel 1975, l’anno prima di morire:
“Voglio rimettermi a scrivere. Anzi, ho ricominciato a scrivere. Sto lavorando a un romanzo. Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S’intitolerà Petrolio. Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto, e ci saranno vari protagonisti…”.
E questo è ciò che scrisse infine:
“Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà. […] Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il mio romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso, proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire”
(Appunto 99 p. 419).
In una lettera a Moravia, Pasolini fece sue (preveggendo, come sempre) le critiche che gli sarebbero state mosse nei decenni successivi alla pubblicazione di Petrolio, avvenuta solo nel 1992: questo è un libro incomprensibile, illeggibile, impubblicabile! Ecco alcuni frammenti della lettera:
“Caro Alberto,
ti mando questo manoscritto perché tu mi dia un consiglio. E’ un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia: rari sono i passi che si possono chiamare decisamente narrativi, e in tal caso sono passi narrativamente così scoperti (“ma ora passiamo ai fatti”, “Carlo camminava…” ecc, e del resto c’è anche una citazione simbolica in questo senso: “Il voyagea…”) che ricordano piuttosto la lingua dei trattamenti o delle sceneggiature che quella dei romanzi classici: si tratta cioè di ‘passi narrativi veri e propri’ fatti ‘apposta’ per rievocare il romanzo […]
Ed ecco il consiglio che ti chiedo: ciò che ho scritto basta a dire dignitosamente e poeticamente quello che volevo dire?”.
Non sono Moravia ma ho letto il libro e ho una mia risposta: non solo ciò che vi troviamo scritto basta a dire dignitosamente e poeticamente ciò che Pasolini voleva dire. Penso che non ci sarebbe riuscito in altro modo. Come i Prigioni di Michelangelo anche Petrolio, così com’è, costituisce un lascito alla postmodernità. Anche Pasolini, dalle ultime parole della lettera a Moravia, sembra averlo capito:
“Questo romanzo non serve più molto alla mia vita (come sono i romanzi o le poesie che si scrivono da giovani), non è un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, la testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato…”.
Non resta che leggere il libro e provare a raccogliere questa eredità.
Fonte:
http://www.raccontopostmoderno.com/2013/06/petrolio-pasolini-recensione/
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