"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini, Ritratto di Roberto Longhi, 1975
Il saggio giallo di Roberto Longhi
Pasolini, rievocando a circa trentacinque anni di distanza Roberto Longhi in cattedra, scrisse che “era un’apparizione”. Longhi aveva debuttato nel 1912, cent’anni fa, pubblicando il primo saggio su “La Voce” di Prezzolini. Era allora poco più che ventenne quello che per molti versi sarebbe diventato Il critico d’arte del Novecento. Allo sterminato data base d’immagini mentali, che gli permetteva raffronti fulminei e profonde filogenesi, lo studioso unì l’istrionismo del maestro (il “carisma” segnalato sempre da Pasolini), capace d’incidere su moltissime figure successive, anche assai irregolari come Testori e Bertolucci, e di scaravoltare le gerarchie consolidate della storia dell’arte nostrana. Tutto ciò con una prosa così ricca e risentita da destare l’attenzione ammirata di scrittori e critici letterari quali Contini. Qui c’interessa però raccogliere un’osservazione fatta en passant da Pasolini sul saggismo di Longhi come “strabiliante romanzo giallo”. Vorremmo insomma soffermarci su una forma di saggio che attiva anche la propria struttura rendendola parlante.
Longhi apre il suo scritto Di Gaspare Traversi con un ricordo: dieci anni prima non riusciva a convenire sulla paternità di alcuni quadri di genere osservati presso collezioni private e antiquari; passati cinque anni rivede gli stessi dipinti a una grande mostra fiorentina attribuiti al Bonito, pittore napoletano di primo Settecento. Fatta tale premessa, l’autore comincia ad esaminare l’intera opera di Bonito, per escludere alla fine ogni traccia di quella “naturalezza pittorica” ravvisata invece nelle tele sospette. Quelle, scrive Longhi, “lungi dall’apparire soggetti di un canovaccio consunto, si leggono come pezzi di cronaca spietata, scettica, moderna” cosicché “da osservazioni di tal genere si fortificava più e più il mio dubbio che nei quadri di tal sorta una mano diversa e assai più nobile fosse all’opera”. Ecco che il saggio si trasforma in quête e l’attribuzionista in detective che fa del suo occhio eccezionale a priori alle valutazioni. Come Sherlock Holmes nota particolari trascurati da tutti gli altri e procede alle congetture, via via rafforzate da ulteriori conferme sui dettagli, che permettono anche l’impennata del linguaggio (“queste son rughe più sincere, più fisiche di quelle del Bonito; una biografia, quella testa!”). Si assapora da un lato la scoperta dell’investigatore e insieme si è travolti dalla foga fredda del persuasore.
Stacco e interrogatorio del successivo indiziato. Il Contratto nuziale di Roma rivela la stessa mano ignota, pur figurando per opera di Pier Leone Ghezzi, che viene a sua volta radiografato e scartato. Il paradigma indiziario funziona per esclusione: l’autore misterioso è per Longhi già a prima vista di formazione napoletana; la mimica e l’espressività delle figure “denuncia, si direbbe, persin la parlata” partenopea. I tratti del fantasma vengono pian piano formandosi in ipotesi di fisionomia mentre si eliminano le false piste. Il saggio giallo trova la sua risoluzione dopo quindici pagine di suspense narrativa in cui il nome era stato accuratamente celato. Il passaggio definitivo per individuare “il tanto desiderato pittore” mette in scena direttamente il protagonista della lunga caccia amorosa, ovvero Roberto Longhi stesso, con un procedimento metasaggistico: “chi era dunque il fortissimo pittore […] andavo chiedendo a me stesso inutilmente […] Finché un giorno, nei primi mesi del 1923, in un corridoio interno del convento di San Paolo fuori le Mura trovai già risolto, materialmente, il problema: un gruppo di cinque dipinti, tutti ad evidenza della stessa mano, ormai domestica alla mia memoria visiva; ed uno dei cinque, per buona sorte, anche firmato”. La vicenda soggettiva dello studioso irrompe in scena, vero incunabolo del saggismo invadente e pedinante alla Garboli, e di tante mescolanze tra autobiografia, opera altrui, critica e scrittura contemporanee. Abbiamo il nome: Gaspare Traversi. Longhi passa quindi a scartabellare antichi regesti e guide napoletani, lasciandosi sfuggire: “Ma che vergognosa scarsità di notizie intorno a un tant’uomo!”. Trova citato “lo scurissimo Traversi” a proposito di dipinti di Santa Maria dell’Aiuto; ed ecco che per una conferma lo studioso si rimette in scena, ancora come uno Sherlock Holmes dalle ampie falcate: “La memoria mi fallava, dopo dieci anni, e dunque, sui primi dei ‘24, volli rifare la strada per la chiesetta dell’Aiuto.”
Dopo averci fornito una forma saggistica connotativa e il personaggio dell’attribuzionista come investigatore, Longhi completa l’opera plasmando definitivamente l’ombra che ha preso nome di Traversi. L’attribuzionista diventa il giustiziere postumo che interpreta una concezione sana di revisionismo storico; ma certo vi è anche qualcosa della demiurgia dello scrittore. Traversi viene infatti definito una volta per sempre. E tutta la sapienza scrittoria è messa al servizio della creazione di tale personaggio, in una gara tra la concretezza del “caravaggesco in ritardo” e delle parole che lo devono mostrare: “I due tipi di commedia istrionica, il vecchio Zanni adunco, inferocito, e il Lazzariello che s’è venduto da tempo al diavolo, con quel suo viso pelato come l’avanzo d’una recente epidemia fra galeotti, vengon fuori dai candidissimi panneggi, raccapriccianti e comici ad un tempo: come crostacei dalla schiuma di Mergellina, come bruchi dalla lattuga; le mani smaneggiano come polipi, le pulsazioni sono alla scoperta”.
Longhi apre il suo scritto Di Gaspare Traversi con un ricordo: dieci anni prima non riusciva a convenire sulla paternità di alcuni quadri di genere osservati presso collezioni private e antiquari; passati cinque anni rivede gli stessi dipinti a una grande mostra fiorentina attribuiti al Bonito, pittore napoletano di primo Settecento. Fatta tale premessa, l’autore comincia ad esaminare l’intera opera di Bonito, per escludere alla fine ogni traccia di quella “naturalezza pittorica” ravvisata invece nelle tele sospette. Quelle, scrive Longhi, “lungi dall’apparire soggetti di un canovaccio consunto, si leggono come pezzi di cronaca spietata, scettica, moderna” cosicché “da osservazioni di tal genere si fortificava più e più il mio dubbio che nei quadri di tal sorta una mano diversa e assai più nobile fosse all’opera”. Ecco che il saggio si trasforma in quête e l’attribuzionista in detective che fa del suo occhio eccezionale a priori alle valutazioni. Come Sherlock Holmes nota particolari trascurati da tutti gli altri e procede alle congetture, via via rafforzate da ulteriori conferme sui dettagli, che permettono anche l’impennata del linguaggio (“queste son rughe più sincere, più fisiche di quelle del Bonito; una biografia, quella testa!”). Si assapora da un lato la scoperta dell’investigatore e insieme si è travolti dalla foga fredda del persuasore.
Stacco e interrogatorio del successivo indiziato. Il Contratto nuziale di Roma rivela la stessa mano ignota, pur figurando per opera di Pier Leone Ghezzi, che viene a sua volta radiografato e scartato. Il paradigma indiziario funziona per esclusione: l’autore misterioso è per Longhi già a prima vista di formazione napoletana; la mimica e l’espressività delle figure “denuncia, si direbbe, persin la parlata” partenopea. I tratti del fantasma vengono pian piano formandosi in ipotesi di fisionomia mentre si eliminano le false piste. Il saggio giallo trova la sua risoluzione dopo quindici pagine di suspense narrativa in cui il nome era stato accuratamente celato. Il passaggio definitivo per individuare “il tanto desiderato pittore” mette in scena direttamente il protagonista della lunga caccia amorosa, ovvero Roberto Longhi stesso, con un procedimento metasaggistico: “chi era dunque il fortissimo pittore […] andavo chiedendo a me stesso inutilmente […] Finché un giorno, nei primi mesi del 1923, in un corridoio interno del convento di San Paolo fuori le Mura trovai già risolto, materialmente, il problema: un gruppo di cinque dipinti, tutti ad evidenza della stessa mano, ormai domestica alla mia memoria visiva; ed uno dei cinque, per buona sorte, anche firmato”. La vicenda soggettiva dello studioso irrompe in scena, vero incunabolo del saggismo invadente e pedinante alla Garboli, e di tante mescolanze tra autobiografia, opera altrui, critica e scrittura contemporanee. Abbiamo il nome: Gaspare Traversi. Longhi passa quindi a scartabellare antichi regesti e guide napoletani, lasciandosi sfuggire: “Ma che vergognosa scarsità di notizie intorno a un tant’uomo!”. Trova citato “lo scurissimo Traversi” a proposito di dipinti di Santa Maria dell’Aiuto; ed ecco che per una conferma lo studioso si rimette in scena, ancora come uno Sherlock Holmes dalle ampie falcate: “La memoria mi fallava, dopo dieci anni, e dunque, sui primi dei ‘24, volli rifare la strada per la chiesetta dell’Aiuto.”
Dopo averci fornito una forma saggistica connotativa e il personaggio dell’attribuzionista come investigatore, Longhi completa l’opera plasmando definitivamente l’ombra che ha preso nome di Traversi. L’attribuzionista diventa il giustiziere postumo che interpreta una concezione sana di revisionismo storico; ma certo vi è anche qualcosa della demiurgia dello scrittore. Traversi viene infatti definito una volta per sempre. E tutta la sapienza scrittoria è messa al servizio della creazione di tale personaggio, in una gara tra la concretezza del “caravaggesco in ritardo” e delle parole che lo devono mostrare: “I due tipi di commedia istrionica, il vecchio Zanni adunco, inferocito, e il Lazzariello che s’è venduto da tempo al diavolo, con quel suo viso pelato come l’avanzo d’una recente epidemia fra galeotti, vengon fuori dai candidissimi panneggi, raccapriccianti e comici ad un tempo: come crostacei dalla schiuma di Mergellina, come bruchi dalla lattuga; le mani smaneggiano come polipi, le pulsazioni sono alla scoperta”.
Fonte:
http://www.doppiozero.com/materiali/ars/il-saggio-giallo-di-roberto-longhi
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Curatore, Bruno Esposito
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