"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Tomaso Subino
Intorno a Pasolini prospera l’odierna industria culturale con i suoi
scaffali di libri (di, su, a partire da
Pasolini), spettacoli teatrali, documentari, programmi televisivi, siti
Internet, addirittura un film in concorso
alla 71° Mostra internazionale del cinema di Venezia (firmato da Abel Ferrara). L’ultima moda è quella delle mostre:
nel giro di pochi mesi se ne sono succedute addirittura due, la prima a Roma
(dal 15 aprile al 20 luglio), la seconda a
Matera (dal 21 luglio al 9 novembre).
La mostra romana ha fatto il giro
d’Europa (Barcellona, Parigi, dopo Roma si sposta a Berlino) beneficiando di
un finanziamento europeo. La seconda,
al contrario, come spiega Paolo Verri, il direttore del Comitato Matera 2019 a
sostegno della candidatura della città a
capitale europea della cultura, è stata
«costruita interamente da Sud» [sic],
ovvero è «stata del tutto creata e costruita con competenze locali collegate a
esperti nazionali», grazie all’erogazione
di cospicui finanziamenti locali. Da un
lato dunque un progetto dal respiro internazionale, dall’altro un percorso
espositivo orgogliosamente locale; da
un lato curatori internazionalmente noti e stimati (come Jordi Balló e Alain
Bergala), dall’altro «esperti» tutt’al più
«nazionali» chiamati a legittimare il lavoro di assessori locali. Eppure, quante
cose hanno in comune queste due mostre! Anzitutto nella messa in scena dei
materiali, la medesima nell’un caso come nell’altro: spezzoni di vecchi film,
contributi video realizzati ex novo, ma
soprattutto un abuso di documenti originali museificati.
Della mostra «Pasolini Roma» mi limiterò qui a sottolineare – contraddicendo le varie recensioni stese da giornalisti non specialisti, emblema del pubblico cui si intende rivolgersi – che essa
punta a far ammirare ai visitatori non il
Pasolini della storia, ma il Pasolini personaggio, che proprio in quanto tale necessita di uscire dalla storia per assurgere
al livello di «icona» e di «mito». E che
per ottenere questo obiettivo si fa un uso
distorto, per non dire perverso, dei documenti originali, i quali non si inseriscono come un tassello di realtà in un
più ampio discorso teso alla ricostruzione del passato, ma funzionano come una
stampella per l’ingenuo spettatore: una
credibile mitologia ha infatti bisogno di
spacciarsi per storicamente accertata.
In un libro uscito nel 2011 Tomaso
Montanari si è soffermato sull’odierno
«sistema delle mostre» chiedendosi A cosa serve Michelangelo? Forse è giunto il
momento di chiederci anche: «A cosa
serve Pasolini?». Concentriamoci sulla
seconda delle due mostre, quella attualmente in corso a Matera e intitolata «Il
Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo»,
patrocinata tra gli altri anche dalla CEI.
Lo scopo di fondo appare evidente,
è promuovere la città di Matera. Leggiamo un brano del comunicato stampa
ufficiale: «Obiettivo della mostra è mettere a fuoco, in maniera particolarmente approfondita e grazie a una narrazione originale, la genesi del capolavoro
pasoliniano e il rapporto del regista con
la città di Matera (…). Si è inteso ricostruire il doppio contesto del film – quello dell’ideazione ed elaborazione creativa tra Roma e Assisi e la Palestina tra il
1962 e il 1964 e quello della realizzazione delle riprese, del montaggio e della
produzione del film». La mostra coglie
l’obiettivo che si è posta? Decisamente
no. Anzitutto per l’inadeguatezza degli
strumenti messi in campo. Non basta
esporre qualche documento di archivio
per «ricostruire un contesto», come non
basta filmare qualche intervista per
«mettere a fuoco» l’articolato processo
di genesi di un film tanto importante
quanto complesso.
Accumuli ma non spiegazioni
Insomma, il problema sta proprio
nella «narrazione originale» con cui si
è preteso di procedere. Eccone la descrizione nel già citato comunicato
stampa: «L’allestimento si distingue
per una forte connotazione multimediale e interattiva basata sul modello
delle stazioni creative (…) e una narrazione estremamente visiva, resa possibile grazie al montaggio creativo di documenti originali, dipinti, disegni, fotografie, spezzoni cinematografici, interviste, materiale bibliografico e oggetti
tridimensionali (tra i quali la macchina
da presa del regista e i costumi originali
del film), per favorire una lettura a più
livelli di approfondimento, comprensibile da tutti i diversi pubblici a cui il
progetto intende rivolgersi, in un’ottica
fortemente inclusiva». Non è dunque
chiaro se scopo della mostra è dar conto (con linguaggio atto a essere inteso
anche da non specialisti) della creatività pasoliniana o non piuttosto «creare», a partire dall’opera di Pasolini, con
montaggio per l’appunto «creativo»,
una serie di «stazioni creative».
Il montaggio dei curatori
della mostra mette insieme, come lo stesso comunicato stampa rileva, le cose più disparate,
secondo una logica dell’accumulo che, lungi dal favorire una
lettura a più livelli, suscita dispersione, confusione, caos, anzitutto nello spettatore che si accosta per la prima volta a tali vicende e per il quale si è inteso
operare con «ottica inclusiva».
Ma soprattutto la mostra manca
quello che a rigor di logica
avrebbe dovuto essere il suo unico legittimo e più grande obiettivo: spiegare il rapporto tra Pasolini e Matera, perché Pasolini
scelse proprio Matera, cosa venne a Matera a fare. Anche rispetto a questa importante e complessa questione, la mostra non fa
altro che accumulare oggetti irrelati, alcuni dei quali molto interessanti, ma che sta al visitatore
interrogare, contestualizzare, inquadrare in una visione ampia che la mostra non offre.
La mostra, se manca di spiegare l’unica cosa che ci si aspetterebbe di intendere in un percorso espositivo su
Pasolini a Matera, si sofferma invece,
nell’ultima sala, sulla produzione della
neoavanguardia contemporanea al
film. Con quale scopo, se in uno dei
tanti contributi video presenti in mostra al piano sottostante è spiegato (correttamente) il rifiuto manifestato da
Pasolini nei confronti della stessa? Con
lo scopo di intendere per contrasto il
film? Tutt’altro: scopo dell’ultima sala
è «raccontare attraverso la scultura
contemporanea il dibattito sulle nuove
tecniche di immagine che si riflette nello straordinario film di Pasolini».
Del resto, per farsi un’idea della cura con cui si è lavorato, basta leggere i
testi che (in assenza di un catalogo) accompagnano i materiali: i refusi non si
contano, la sintassi è spesso traballante, il discorso è approssimativo e generico. Una mostra che i locali dicono sia
costata 300.000 euro non ha evidentemente ritenuto opportuno spenderne
qualche centinaio per far correggere le
bozze dei testi. Nei credits ufficiali trovano distinzione i curatori della mostra
(indicati in: Marta Ragozzino e Giuseppe Appella con Ermanno Taviani e
la collaborazione di Paride Leporace)
dal «coordinamento delle ricerche»
(assegnato ad Alberto Giordano con
Massimiliano Burgi e Vita Santoro e la
collaborazione di Emmanuele Curti).
Ho sempre pensato che la curatela di
una mostra prevedesse anche il coordinamento (ovvero la cura) delle ricerche. Ma in questo caso c’è una chiara
scissione dei ruoli. Mi chiedo se non sia
un modo per evitare di assumersi la responsabilità scientifica della proposta.
Come ha spiegato Giovanni Agosti,
in occasione della già citata mostra di
Novate: «Se si perde la memoria dei
fatti storici, si rischia di fare di Pasolini
una specie di santone fuori dalla storia.
E questo è nocivo non solo per l’autore,
ma anche per i giovani. Bisogna sempre riconquistare il dettaglio, saper distinguere... Poi ci si può anche accecare, ma se prima non si è visto... è soltanto smarrirsi». Lo scopo della mostra di
Matera non mi pare sia quello di vedere nuovamente e meglio «Il Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo», come il
suo titolo vorrebbe suggerire. La comprensione profonda del passato anche
recente (50 anni in fondo non sono poi
molti) si sviluppa per altre vie, con tempi e logiche diversi da quelli dell’intrattenimento. Esso può scaturire solo da
rigorosi (negli intenti e nei metodi) processi intellettuali, sui quali il curatore
scientifico di una mostra dovrebbe
avere il compito di vigilare, perché
non vengano compromessi da logiche a essi estranee, come quelle del
mercato, della promozione dell’immagine turistica, della visibilità politica, ecc. ecc.
Tra Osservatore
e Repubblica
D’altra parte, Il Vangelo secondo
Matteo è un testo difficile da classificare, che si nega alle facili definizioni. Gli studi sul film degli ultimi
quindici anni lo hanno analizzato
in ogni sua piega: le ricerche in archivio sono riuscite ad andare oltre
la mitologia della testimonianza
orale, spiegando nel dettaglio il
suo processo ideativo, realizzativo
e distributivo. Sono altresì state
messe in luce le motivazioni che
guidarono le principali scelte compiute da Pasolini in relazione alla
stesura della sceneggiatura, all’individuazione degli interpreti e degli ambienti, e infine alla promozione del
film. Eppure il film continua in qualche modo a sfuggire a una presa piena,
certa, condivisa.
È recente la polemica (tutt’altro che
aspra, intendiamoci, ma di sostanza)
tra L’Osservatore romano e La Repubblica. In risposta al quotidiano della
Santa Sede che il 21 luglio aveva definito Il Vangelo secondo Matteo «il miglior film su Gesù mai girato» (E. Ranzato), su quello fondato da Scalfari il
giorno dopo si è rivendicata con forza
la proprietà del film alla sinistra, in un
articolo (di G. Crainz) pieno di inesattezze e approssimazioni, governato
dalle mistificazioni della militanza.
Da un lato L’Osservatore romano,
dall’altro La Repubblica: dire che Il
Vangelo secondo Matteo si colloca tra
questi due poli non è fargli un disonore, purché naturalmente si sgombri subito il campo da ipotesi di centrismo e
democristianismo. Il film va collocato
nell’ambito del dialogo che ha visto impegnati una parte dei cattolici e una
parte dei comunisti italiani nel corso
degli anni Sessanta. Si tratta di un ambito da cui è scaturita tanta produzione
artistica di qualità, spesso sostenuta da
autentiche speranze e passioni politiche, fondata sulla negoziazione del
conflitto, sul confronto tra le tradizioni culturali, da studiare oggi nei suoi effetti di lungo corso.
Mi ha colpito il ripensamento di
Goffredo Fofi nei confronti del film registrato dalla mostra di Matera. Come
noto Il Vangelo secondo Matteo fu rifiutato solo dalle estreme: la sinistra radicale e il cattolicesimo di destra. Oggi
sappiamo che i Fofi, i Bellocchio e i
Fortini (per fare i nomi di tre noti autori che polemizzarono con la proposta
pasoliniana) sbagliarono. Non perché
il film non fosse dal loro punto di vista
pericoloso: stiamo parlando di un film
tremendamente efficace proprio nel
contesto della sinistra (non a caso è un
animo, come quello di Fortini, che ha
conosciuto in gioventù un’autentica
esperienza religiosa a temere il film più
di tutti). Molto più semplicemente i Fofi, i Bellocchio e i Fortini guardarono il
film da un punto di vista che oggi appare del tutto superato: pare una banalità
ma è forse bene ricordarlo.
Ma si commisero tanti errori anche
sul fronte avversario: mi chiedo cosa
avrebbe potuto suscitare un film come
questo nell’America Latina se adeguatamente sostenuto. Da uno scambio epistolare tra Garzanti e Pasolini della fine
del 1965 emerge al riguardo una vicenda interessante. Una delle più importanti case editrici di Buenos Aires manifesta
a Garzanti il desiderio di pubblicare una
traduzione de Le ceneri di Gramsci, di
Passione e ideologia e di Una vita violenta. Al momento della richiesta la casa
editrice ha nel proprio catalogo un unico titolo pasoliniano: Cristo marxista,
«un volume contenente tutte le discussioni (…) suscitate in Italia dal film Il
Vangelo secondo Matteo». Insomma, Il
Vangelo secondo Matteo fa da apripista e
lo fa cambiando il proprio titolo. In un
luogo caldo come l’America Latina, dove comincia a muovere i suoi primi passi
la teologia della liberazione, il materiale
relativo a Il Vangelo secondo Matteo viene proposto in modi politicamente disambiguati, che non possono non aver
creato più di un sospetto tra le autorità
locali, comprese quelle ecclesiastiche.
Conversioni a Est
Il film che oggi L’Osservatore romano e La Repubblica si contendono è stato temuto tanto dai burocrati sovietici
quanto da quelli vaticani. Eppure sia
gli uni sia gli altri non poterono esimersi dal farci i conti, con le contraddizioni
che ne derivarono. Nella mostra di
Matera ci si sofferma a lungo sul fatto
che il film è stato premiato dai cattolici
con la targa dell’Organisation catholique internationale du cinéma (OCIC),
ma nulla si dice del fatto che Pasolini
riconsegnò il premio quattro anni dopo, in seguito alle polemiche suscitate
da una dura «deplorazione» rivolta da
Paolo VI alla giuria OCIC quando nel
1968 torna a premiare Pasolini per Teorema. Ma non minori furono le contraddizioni in terra sovietica, dove il
film non potè circolare e, nonostante
ciò, produsse conversioni.
Il giornalista e scrittore inglese Oliver
Bullough ne ha recentemente documentato un esempio, nel suo ultimo libro The
Last Man in Russia.
7
Il volume è dedicato alla vita del prete ortodosso Dmitry
Dudko, narrata sullo sfondo della storia
dell’Unione Sovietica degli anni di
Brezhnev: l’oppressione e le menzogne
del comunismo, i tentativi dei dissidenti
di condurre una vita libera, la depressione e l’alcolismo che si impadroniscono di
un intero popolo. A un terzo circa del
volume Bullough incontra Alexander
Ogorodnikov (come Dudko, un sopravvissuto al Gulag), per farsi raccontare come si viveva a Mosca negli anni Sessanta. Nato ai confini della Siberia, Ogorodnikov «da bambino, non aveva motivo di lamentarsi della sua vita, nel complesso. Ben lontano dalla rarefatta atmosfera degli intellettuali di Mosca, era un
puro prodotto del sistema sovietico. Per
il proprio futuro il paese contava su persone come lui, brillanti e impegnate. Gli
ci volle del tempo per ribellarsi».
Ogorodnikov impara tuttavia presto a misurare la distanza che c’è tra gli
ideali comunisti nei quali è stato cresciuto e la corruzione e il cinismo della
società reale. Sebbene la favola di vivere nel migliore dei mondi cominciasse
a scricchiolare al confronto con la realtà, Ogorodnikov partecipa al concorso
per entrare nella VIGK, la prestigiosa
scuola di cinema dell’Unione Sovietica. Lo vince, ed è qui che entra in gioco
il film di Pasolini. Agli studenti di questa scuola di stato veniva insegnato come produrre film di alta qualità allineati alle richieste ideologiche degli alti
burocrati del partito. Ma nel contempo
veniva loro mostrato anche ciò a cui
avrebbero dovuto contrapporsi, i prodotti del nemico. Con questa finalità si
svolgevano speciali proiezioni di film
occidentali proibiti al pubblico ordinario: «Nella primavera del 1973, un
giorno gli venne servito Il Vangelo secondo Matteo, una versione della Scrittura dovuta a un omosessuale comunista italiano», che invece di insegnargli a
combattere le tecniche della propaganda occidentale, «lo convertì».
Se il film di Pasolini ha avuto su
Ogorodnikov un così fatale effetto è proprio perché rappresenta una versione
del Vangelo realizzata da un comunista,
insomma proprio perché sta tra Osservatore romano e Repubblica: «Il Cristo presentato da Pasolini è un giovane dissidente, con un anelito sinceramente rivoluzionario, incurante dei cinici che lo
circondano e che cercano con asprezza
di soffocarglielo. Non c’è affatto da sorprendersi che ispiri il giovane che lo sta
guardando. Rappresenta un vero e proprio programma, ed è immediato mettere in parallelo la Terra santa e l’Unione
Sovietica, con i comunisti nel ruolo dei
farisei, a rivendicare le loro alte motivazioni morali mentre in realtà sono intenti a riempirsi le tasche. (…) Guardando il
film, Ogorodnikov decide che anche lui
può diventare uno che rovescia i tavoli
dei cambiavalute e mostra loro, come in
uno specchio, il volto di un vero credente. Esce dal cinema trasformato in un
cristiano militante, e comincia una nuova vita».
Tomaso Subini
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