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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

venerdì 30 gennaio 2015

Pasolini - Processo La Ricotta.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Pasolini - Processo La Ricotta.





L'imputato
Pier Paolo Pasolini


L'imputazione
Vilipendio alla religione di Stato

Il pubblico ministero nel processo di primo grado
Giuseppe Di Gennaro


La sede giudiziaria 
Tribunale di Roma

Il presidente del Tribunale
Giuseppe Semeraro


Gli avvocati della difesa
Giuseppe Berlingieri, Ferdinando Giovannini, Celso Tabet (solo in appello)

Il procuratore generale d'appello
Giuseppe Battiati


Il presidente della corte d'appello di Roma (I sezione penale)
Felice Mazza

Il relatore di cassazione
Giovanni Leone


Il presidente della terza sezione penale di cassazione
Mario Baccigalupi




Causa a La Ricotta
 

04.10.62 Causa civile intentata dal procuratore Amoroso in relazione al soggetto del film La ricotta. Notifica dell'atto di citazione.

01.03.63 Sequestro dell'episodio La ricotta del film Rogopag.

02.03.63 Processo La ricotta. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti al tribunale di Roma.

05.03.63 Processo La ricotta. I udienza.

07.03.63 Processo La ricotta. II udienza e sentenza.

08.03.63 Processo La ricotta. Appello dei difensori (Avv. Berlingieri e Giovannini) contro la sentenza di I grado.

11.05.63 Processo La ricotta. Notifica dell'avviso di deposito della sentenza di I grado.

24.10.63 Processo La ricotta. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di appello di Roma.

03.02.64 Processo La ricotta. Udienza di corte d'appello.

28.04.64 Processo La ricotta. Udienza di Corte d'appello.

06.05.64 Processo La ricotta. Sentenza della corte d'appello.

08.05.64 Processo La ricotta. Notifica del ricorso per cassazione del procuratore generale.

 03.07.64 Processo La ricotta. Notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di II grado

10.01.67 Processo La ricotta. notifica della fissazione dell'udienza per la discussione del ricorso in cassazione
24.02.67 Processo La ricotta. Sentenza della cassazione.
    
  29.02.68 Processo La ricotta. Notifica dell'ordinanza della corte d'appello che dissequestra il film.


Il nullaosta della censura
8 febbrio 1963
Ministero del turismo e dello spettacolo
DIREZIONE GENERALE DELLO SPETTACOLO
-DIVISIONE VIII-


FILM ROGOPAG

Revisionato il film il giorno 7 febbraio 1963, la commissione esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta di proiezione in pubblico, col divieto per i minori degli anni diciotto, espresso a maggioranza.

Tale divieto è motivato, in special modo, dagli episodi "illibatezza" e "la ricotta" che, sia per la tematica, sia per la presenza di alcune scene e dialoghi, risultano controindicati alla particolare sensibilità dei minori e alle specifiche esigenze della loro tutela morale (art. 5 legge 21/4/1962 n. 161).

Parere favorevole per l'esportazione.

F.to: Filippo Leonardo - Presidente
Walter D'Avanzo
Franco Bonacina
Eraldo de Grada
Camillo Bruno
Lodovico Alessandrini

omissis

Nulla osta alla rappresentazione in pubblico del film Rogopag col divieto ai minori degli anni 18.

Roma, 8 febbraio 1963

il Ministro
Il sottosegretario di Stato
F.to On. Avv. Ruggero Lombardi





Il decreto di sequesto del film e la citazione in giudizio del regista
1-2 marzo 1963
Decreto di sequestro
(art. 337 e segg. Cod. Proc. Pen.)



Noi Dott. Giuseppe Di Gennaro, sost. Procuratore della Repubblica di Roma

Visti gli atti del procedimento penale contro PASOLINI Pier Paolo, nato a Bologna il 5/3/1922, abitante in Roma - via Fonteiana n. 86

IMPUTATO

del delitto p.p. dall'art. 402 C.P. per avere, nella sua qualità di soggettista e regista dell'episodio "LA RICOTTA" del film "ROGOPAG", pubblicamente vilipeso la religione dello stato, rappresentando con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica.

In Roma, nel febbraio 1963.

Visti gli art. 337 e segg. Codice procedura penale; poiché le pellicole cinematografiche che rappresentano l'episodio "LA RICOTTA" servirono a commentare il reato, ordiniamo il sequestro di tutte le copie, ovunque esse si trovino, delegando per l'esecuzione il Dr. Valerio Vernacchia dirigente II Div. della Questura di Roma. In Roma il 1° marzo 1963

Il sost. proc. della Repubblica
Dr. Giuseppe Di Gennaro






Citazione in giudizio direttissimo davanti il Tribunale o Pretore
Procura della Repubblica
ROMA
CITAZIONE IN GIUDIZIO DIRETTISSIMO
DAVANTI IL TRIBUNALE O PRETORE
(ART. 502, 505 Cod. proc. pen.)


Il procuratore della Repubblica
Visti gli atti del procedimento penale

CONTRO

PASOLINI Pier Paolo fu Carlo e di Colussi Susanna, nato a Bologna il 5/3/1922, domiciliato in Roma - via Giacinto Carini
n. 45.

IMPUTATO

del delitto p.p. dall'art. 402 C.P. per avere, nella sua qualità di soggettista e regista dell'episodio "LA RICOTTA" del film "ROGOPAG", pubblicamente vilipeso la religione dello stato, rappresentando con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica.
.
In Roma, nel febbraio 1963.





Verbali di dibattimento del processo di primo grado
5-7 marzo 1963
Tribunale Penale di Roma
PROCESSO VERBALE DI DIBATTIMENTO
(Art. 492, 496 Cod. proc. pen.)

L'anno millenovecentosessantatré il giorno cinque del mese di marzo alle 10.30.

Il tribunale penale di Roma - Sezione IV - composto dai Signori: Semeraro Giuseppe - Presidente, Testi Carlo e Biliardo Luigi - Giudici. Coll'intervento del Pubblico ministero rappresentato dal S. Di Gennaro Giuseppe coll'assistenza del cancelliere sottoscritto.

Si è adunato nella sala d'udienza aperta al pubblico per trattare la causa penale.

CONTRO

Pasolini Pier Paolo libero - presente assistito dai difensori G. Berlingieri - A. Carocci - F. Giovannini; Avv. Giovannini e Berlingieri per l'imputato; l'Avv. Carocci in qualità di sostituto dei due difensori.

Il PM chiede che il tribunale voglia prendere visione della pellicola cinematografica dell'episodio incriminato su normale schermo, e successivamente voglia, ove i giudici desiderino approfondire gli elementi di conoscenza, revisionare la stessa pellicola in moviola: chiede che parte della requisitoria si svolga col sussidio audio-visivo della proiezione della pellicola, quanto meno in moviola.

La difesa si associa alle richieste del PM, e chiede che il tribunale scelga la sede adatta per la proiezione. A tal fine i difensori indicano l'Istituto Luce.

Il tribunale si riserva.

Il presidente procede all'interrogatorio dell'imputato Pasolini Pier Paolo già qualificato in atti.

Quindi gli contesta il fatto che gli è attribuito, e le circostanze di esso e lo invita ad indicare le sue discolpe e quant'altro ritenga utile per la sua difesa e l'imputato risponde:

"L'accusa è infondata, io non avevo la minima intenzione di offendere, neppure involontariamente. Non c'è nulla, obbiettivamente, che possa offendere, nel film, la religione, nessun elemento valido a tal fine.
Se l'interpretazione sfavorevole, nel senso dell'imputazione, vi è stata, non puo' essere che interpretazione in malafede".

A questo punto, a domanda del PM, r.

"Preciso che la definizione e interpretazione per cui dinnanzi ho parlato di malafede, citando le mie stesse parole di una didascalia all'inizio del film, ove spiegavo che forse sarebbe stato interpretato sfavorevolmente, ma che l'interpretazione sfavorevole sarebbe stata effetto di malafede".

A d. del PM, r.

"Insisto nel dire che, se al di fuori della mia volontà, interpretazione in malafede vi è stata, essa non può essere che stata frutto di malafede".

A domanda della difesa, r.:

"L'idea del fatto mi è stata suggerita da un fatto avvenuto durante l'ultima eclisse di sole, mentre si girava una scena sulla crocifissione di Nostro Signore. Preciso che la parte religiosa è la cornice dell'opera. Il significato è un altro, interessandosi i miei film e romanzi al sottoproletariato. Il protagonista del film vuole essere il simbolo del sottoproletariato, di cui nessuno si occupa né si è occupato mai. Lo Stracci, protagonista, è questo simbolo, e la sua morte è un modo di dimostrare la sua esistenza e di porre il problema della sua esistenza."

Il Tribunale

Sulle richieste delle parti, su indicazione della difesa, dispone che la proiezione avvenga nella sala dell'istituto Luce, in data odierna, ore 17; e che sia, in luogo, fatta trovare una moviola.

Rinvia il dibattimento alle ore 17, all'istituto Luce, Via S. Susanna 17.




.
TRIBUNALE PENALE DI ROMA
PROCESSO VERBALE DI DIBATTIMENTO
(art. 492, 496 Cod. proc. pen.)




L'anno millenovecentosessantatré il giorno cinque del mese di marzo alle ore 17.15

Il tribunale penale di Roma - Sezione IV

Composto dai signori: Semeraro Giuseppe - Presidente, Testi Carlo e Bilardo Luigi - Giudici

Coll'intervento del pubblico ministero rappresentato dal S. Procuratore Di Gennaro Giuseppe coll'assistenza del Cancelliere sottoscritto.

Si è adunato per trattare causa Penale, nella sala proiezioni dell'istituto Luce, in via S. Susanna, 17 - in prosieguo -

CONTRO

Pasolini Pier Paolo libero - presente

IMPUTATO

come in atti

Si dà atto che sono presenti i difensori dell'imputato, Avv.ti Giovannini e Berlingieri.

A questo punto l'Avv. Berlingieri chiede che venga ammesso a teste il Sig. Bini Alfredo, produttore del film, perché dica: se esista e quale sia il filone che accomuna i quattro episodi del film "Rogopag". Il PM non si oppone.
Il tribunale, sentite le parti, ammette il teste Alfredo Bini, presente nella sala di proiezione.

Il presidente, chiamato Bini Alfredo, lo invita a prestare giuramento prescritto negli articoli 142, 449, Cod. proc. pen., e all'uopo stando esso in piedi, gli dà lettura della seguente formula: "Consapevole della responsabilità che col giuramento assumete davanti a Dio e agli uomini, giurate di dire tutta la verità e null'altro che la verità".

Il teste pronuncia le parole: "lo giuro".

Quindi, richiesto delle sue generalità, risponde:

"Sono Bini Alfredo figlio di Alfredo, nato a Livorno, domiciliato a Roma, via di porta Lavernale 8".

Poscia interrogato risponde:

"Il film è composto di quattro episodi. Il filo conduttore è costituito dai diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il condizionamento dell'uomo nel mondo moderno. Il primo regista, Rossellini, si occupava del condizionamento dell'uomo nei suoi rapporti con la donna; il secondo, Gregoretti, si occupava del condizionamento relativo alla tecnologia ; Godard prevedeva in un prossimo futuro piccolissimi fattori di degenerazione che avrebbero portato alla fine del mondo senza scosse; Pasolini si occupava della maggior parte degli uomini non ancora in tale stato di condizionamento".

A d. della difesa r.:

"Nell'episodio di cui è causa, è stato preso l'ambiente cinematografico per satireggiare persone e situazioni, in cui, con la scusa della pietà, si accostavano senza pietà soggetti degni del massimo rispetto".

A questo punto, ha inizio la proiezione della pellicola relativa alle scene cinematografiche incriminate.

Al termine della proiezione, il Tribunale sentito il PM e i difensori dell'imputato, rinvia la causa in prosieguo all'udienza del giorno 7 marzo 1963, ore 10.



.

TRIBUNALE PENALE DI ROMA
PROCESSO VERBALE DI DIBATTIMENTO
(Art. 492, 496 Cod. proc. pen.)



L'anno millenovecentosessantatré il giorno sette del mese di marzo alle ore 10

Il tribunale penale di Roma - Sezione IV

Composto dai signori: Semeraro Giuseppe - Presidente, Testi Carlo e Bilardo Luigi - Giudici

Coll'intervento del pubblico ministero rappresentato dal S. Procuratore Di Gennaro Giuseppe coll'assistenza del Cancelliere sottoscritto.

Si è adunato per trattare causa Penale, nella sala proiezioni dell'istituto Luce, in via S. Susanna, 17 - in prosieguo

CONTRO

Pasolini Pier Paolo libero - presente

IMPUTATO

come in atti

Difensori Avv.ti Berlingieri e Giovannini.

Dopo di che il presidente procede all'interrogatorio dell'imputato Pasolini Pier Paolo, già qualificato in atti. A domanda del difensore Avv. Berlingieri anzi si chiede che l'imputato dica cosa intendeva esprimere con la pellicola anzi quali motivi lo hanno indotto a descrivere la ripresa cinematografica della Passione. Il PM chiede venga precisato dal Presidente che tale domanda è già stata rivolta all'imputato, che ha già ad essa risposto; che pertanto significherebbe tornare a ripetere la domanda e la risposta data. La difesa precisa che si tratta di chiarimenti.

Il tribunale ammette al domanda.

A d. l'imputato r.:

"Rispondendo alla domanda, alla scorsa udienza, ho parlato genericamente. Approfondendo l'argomento preciso che l'idea è nata da un fatto di cronaca. Il senso del film non era la polemica religiosa, bensì l'espressione; almeno non era questa una componente essenziale del racconto. Ciò che mi interessava era la descrizione del personaggio Stracci, dal punto di vista poetico; un personaggio vivo e vero. Questa era la cosa fondamentale. L'aspetto ideologico del film, altra componente, l'aspetto contenutistico. Chiedendomi quali fossero gli aspetti essenziali del sottoproletariato, che lo Stracci era chiamato a simboleggiare, ho pensato allora alla ritualità, il ritualismo allo stato puro, e la religiosità. Questo è il motivo per cui ho lasciato vicino a Stracci La Passione di Cristo, perché essa veniva ad essere la proiezione fantastica, concreta, visiva, di un elemento ideale, intimo nel mio personaggio".

A d. del PM, r.:

"Per religiosità intendo parlare di religiosità che contraddistingue un personaggio come lo Stracci condita di superstizione, cioè, che non è certo quella del teologo, ma semplicità istintiva. In tale primitiva religiosità indubbiamente vi eè l'elemento trascendente, credendo egli nell'esistenza di Dio, dei Santi, ecc.".

A d. del PM:

"Come si concili l'intendimento di esprimere l'intima religiosità dello Stracci, ponendolo in una cornice ieratica, con la frase posta sulla sua bocca alla domanda "Hodie mecum eris in Paradiso", risponde: "Starebbe tanto bene su 'sta tera".

L'imputato r.:

"Stracci risponde con una frase scherzosa ad una domanda scherzosa".

A d. della difesa, perché abbia riprodotto nel film determinati quadri relativi alla crocifissione di Cristo, r.:

"L'intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica, incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei, che vengono letti nell'azione del film [...]. Le musiche tendono a creare un'atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti dalla volgarità del mondo circostante".

A d. del PM, r.:

"Per quanto sappia, il Dies irae richiama la valle di Giosafat e il futuro delle anime".

A domanda della difesa r.:

"Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell'uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del '300, all'atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene accadendo nel mondo moderno".

A domanda r.:

"Anche fra le altre comparse vi sono altri sottoproletari, oltre allo Stracci; fra questi però non mi sembra ci sia contraddizione. In questi tipi sono rappresentate le diversità di ciascuno di essi".

A d. r.:

"Un problema di sceneggiatura del film era il rendere realisticamente oltre che simbolicamente la morte di Stracci. Lo spogliarello è parte di ciò. Dovevo preparare la morte dello Stracci in diversi modi, attraverso le privazioni, la fame, il desiderio di quella donna che si spoglia e che egli non può avere".

La difesa esibisce fotocopie del testo integrale della poesia detta nel film.

Si dà quindi lettura degli atti consentiti.

Poscia il PM pronuncia la sua requisitoria, con la quale conclude chiedendo: anni 1 di reclusione, esclusi i benefici di legge.

A questo punto sull'accordo delle parti, il Tribunale, sospendendo l'udienza, rinvia il processo per la discussione della difesa, alle ore 16.30 di oggi, 7 marzo '63.

Del che è verbale, chiuso e sottoscritto alle ore 13.20 di oggi.

Alle ore 16.50, ripresa l'udienza, presenti tutte le parti, il difensore dell'imputato, Avv. Berlingieri, pronunzia la propria difesa.

Il PM replica brevemente, precisando le proprie conclusioni.

Quindi l'Avv. Giovannini, per l'imputato Pasolini, pronunzia la propria arringa.

A questo punto l'imputato Pasolini, a domanda del tribunale risponde:

"Preciso che l'intervento del cane, nella rappresentazione cinematografica, al momento del grido "via i crocifissi", vuol essere nient'altro che una trovata scherzosa, una "gag", come si dice nel cinema".

L'Avv. Giovannini continua nella propria arringa, chiedendo l'assoluzione piena dell'imputato.

L'imputato che ebbe per ultimo la parola, ha dichiarato nulla.

Terminata la discussione il Presidente dichiara chiuso il dibattito e il tribunale si ritira in camera di Consiglio a deliberare, escluso il PM, le parti, i difensori, il cancelliere, ed ogni altra persona.

Ritornato nella sala di udienza il Pubblica Ministero e i difensori e l'imputato, il Presidente dà lettura del dispositivo della sentenza come in atti.



Poesie
allegate ai verbali

.
La prima è contenuta nel copione del film;
entrambe sono citate nel dibattimento
per chiarire la posizione del regista
rispetto al Cristianesimo e alla Chiesa

10 Giugno

Un solo rudere, sogno di un arco,
di una volta romana o romanica,
in un prato dove schiumeggia un sole
il cui calore è calmo come un mare,
e, del mare, ha il sapore di sale,
il mistero splendente: lì ridotto,
sulla schiuma, del mare della luce,
il rudere è solo: liturgia
e uso, ora profondamente estinti,
vivono nel suo stile - e nel sole -
per chi ne comprenda presenza e poesia.
Fai pochi passi, e sei sull'Appia
o sulla Tuscolana: lì tutto è vita,
per tutti. Anzi, meglio è complice
di quella vita chi non ne sa stile
e storia. I suoi significati
si scambiano nella sordida pace
indifferenza e violenza. Migliaia,
migliaia di persone, pulcinella
di una modernità di fuoco, nel sole
il cui significato è anch'esso in atto,
si incrociano pullulando scure
sugli accecanti marciapiedi, contro
l'Ina-Casa sprofondate nel cielo.
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi e' nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più.

Auguri al Papa

Va la littorina,
verso Ravenna, inter pages:
e alla vista di siepi di duro materiale comacino
armate di brina, ho nelle gengive
il sapore di un bicchiere di vino invernale
pieno di cinguettii di uccelli.

Sapere posseduto
per via di padre - venuto da adriatiche
dinastie di padroni - e di madri,
prole di proprietari
di sacri pezzetti di Friuli
nel quieto odore del fumo cristiano.

Tu, monumento
assurdamente trapiantato in Roma,
di quelle parentele restate cattoliche,
inter pages, lungo il mare e ai piedi dei monti,
il Segretariato per l'unità dei cristiani,
è il prodotto del tuo humour cittadino
acquisito,
ma nato in una nobiltà che ha, in pagis,
padri gonfi come pagnotte, nani mastini,
nello sgomento odore di fuoco nella brina,

"Sii Pastore dei Bianchi Barbarici,
dei Gialli sanguinari,
dei Negri antropofagi:
tu regnerai
perché sono miliardi i Sottoproletari della Terra".

E col dolce spirito dei borghesi nuovi
tu lo sai: ne fai una saggezza da buttar via,
umile.

Alta, sublime, millenaria saggezza:
che riapre la storia
agli abitanti della Subtopia!

"Sarai papa figlio di pastori del deserto,
nipote di kikuyu,
pronipote di cacciatori di teste,
fratello di maomettani, cugino
di pagani calabresi e indiani:
regnerai
perché sono miliardi
i Sottoproletari della Terra".

Va la littorina
verso Ravenna, inter pages.
Contro schienali di duro materiale comacino
padri tracagnotti con le cadoppe romaniche
- le tue parentele comuniste -
stanno in ansia per la salute di chi ha in mano
i nuovi natali del mondo contadino.

Salute! Lunga vita,
Pastor Paganus! La Rivelazione
che occupò i Centri
e lasciò le campagne
al cinguettio degli dei,
occupa col tuo sorriso campagne fatte
[di continenti,
per sopravvivere in una storia nuova.

Va la littorina,
verso Ravenna: e io alla tua fortuna
alzo l'ideale bicchiere, ex pagis,
di questo vinello
pieno del canto dei più umili degli umili.





Memoria presentata
per la difesa dagli
avvocati
Giovannini e Berlingieri



1) Il grido di "Corona, corona" è la prima avvisaglia della superficialità incredula, scettica, plebea, del mondo che circonda Stracci e sarà testimone del suo martirio. Il tono noncurante, o poco inerente, non si riferisce però, qui, tanto alla "corona", quanto all'andamento tipico del lavoro del set; e, se vuole sfottere qualcuno, sfotte la spocchia del regista, monosillabico, paratattico e annoiato, nella sua veste impopolare di "superuomo" decadente, che tratta i subalterni dall'alto della sua coscienza di artista (il "gusto" con cui sceglie le squisitezze cromatiche del Pontormo, o quelle musicali del Biscogli) e di cui la troupe non sa e non vuole sapere nulla. La troupe considera infatti la "corona" un capriccio del regista, e col tipico tono ambiguo dell'ironia popolare romanesca, un po' gli tiene bordone, un po' lo prende in giro.
Io, direttamente, come autore, intervengo, quando - spente le irriverenti grida - la corona viene alzata da due mani di operai, contro il biancheggiante panorama della città, dominandolo.

2) Non è Cristo che sbotta a ridere - è l'umile attore che interpreta il Cristo, che non è poi neanche Cristo, ma il Cristo profanamente raffigurato dal Pontormo.
L'idea di far sbottare a ridere quell'attore, eè' stata suggerita da un fatto reale. Un giovane della troupe, sentendo leggere il Lamento della Vergine di Jacopone, evidentemente colpito dal linguaggio arcaico e per lui incomprensibile, che veniva a formare una specie di lagna rimata, si è messo a ridere, candidamente.

3) Il canto del Dies Irae che echeggia sulla famigliola affamata che mangia, vuole essere semplicemente un presentimento stilistico di morte: la quale morte è poeticamente legata al digiuno, alla fame, al pasto.

4) Sia ben chiaro che "comparsata" vuol dire lavorare come comparsa. E' una pura illazione pensare che significhi, in gergo, qualcosa altro, a smontare cioè il mito del Poeta con la p maiuscola, misticheggiante, irrazionale, ispirato, intoccabile, e a ridare al Poeta dignità di cittadino.

5) Bivacco sulla croce: cialtroneria picara della troupe in ozio, ancora. Ossia descrizione, oggettiva, di come la religione è sentita dal mondo moderno, rappresentato, ai suoi vari livelli, nel mio film, appunto dalla troupe.

6) Dies irae sul cagnolino che mangia il pasto di stracci, cfr. n. 3: è lo stesso motivo stilistico, che ritorna nella identificazione fantastica dell'appetito e della morte (il film finirà infatti con la morte per digiuno e indigestione).

7) L'espressione ironica che fa Welles alla fine della sua frase sul proprio cattolicesimo, è rivolta al giornalista (contro cui subito dopo l'ironia eromperà) quasi gli dicesse: "è inutile che faccia a te queste delicate confessioni, tanto tu non capisci nulla".

8) L'espressione "uomo medio" è usata dal regista Orson Welles nel senso che le danno i sociologi nei loro testi, ossia uomo condizionato, uomo massa (tutto il discorso di Welles, sia pure divertito ed ironico è infatti di tipo sociologico). Non "medio" nel senso umano psicologico della parola. In tal senso tutti siamo uomini medi. I superuomini sono degli imbecilli: e tutta la polemica letteraria del Pasolini si è svolta negli ultimi dieci anni in questa direzione: Pasolini ha, per l'uomo medio cittadino, suo contemporaneo, suo collega, intellettuale o operaio, il massimo rispetto. E' per questo che Pasolini, per esempio, è contrario alla censura: essa sì presuntuosa e paternalista, presuppone cioè una inferiorità del pubblico rispetto all'artista o alla classe colta o dirigente.

9) L'incontro con i due agenti è una pura e semplice gag. Uno degli elementi stilistici del film, sono le citazioni charlottiane. Questa è una di quelle, una innocente allegria di comica.

10) Il rutto sulla croce non è un rutto, ma un singhiozzo. Il singhiozzo di chi, morto di fame come il buon Stracci, si è finalmente rimpinzato.

11) Nessun secondo fine su Stracci che i compagni di lavoro rendono vittima di scherzi crudeli. Questa crudeltà è un aspetto della vita, della semplice vita di tutti i giorni, nei sobborghi delle grandi citta. Vivere, lì, è spesso una scommessa difficile, e fa parte dell'onore saper fare gli scherzi o saperci stare.
Quanto al racconto, i traumi patiti da Stracci, degni di quelli di Tantalo, hanno la funzione di preparare e giustificare, naturalisticamente oltre che poeticamente, il suo malore finale, che, prima digiuno, e poi bestialmente saziato, lo conduce alla morte.

12) L'introduzione delle scene a colori, è una arbitrarietà poetica, un movimento di libertà stilistica, determinata da esigenze estetiche, se volete estetizzanti, nel senso di spettacolari. Si separa, così, il mondo del film da quello del film girato dal regista, quasi che non ci fosse possibile comunicazione tra i due, quasi fossero due realtà giustapposte ma estranee: con una frizione, appunto, di stupore spettacolare.

13) Il "cornuti" è gridato dall'aiuto regista (doppiato dallo stesso giovane che l'ha interpretato, cioè Paolo Meloni) ai personaggi di una doppia finzione: non a Cristo e alle Persone della Passione, ma al Cristo e alle persone della Passione di Pontormo; non a Cristo e alle Persone della Passione, ma al Cristo e alle persone della Passione di Pontormo che diventa un film. Il "cornuti" è gridato ai personaggi di una finzione nella finzione.

14) Il Dies irae su Stracci che mangia; vedi paragrafo 3 e 6.

15) E' difficile rendersi conto di ciò che si può vedere di male nel fatto che Stracci vada a nascondersi per mangiare in pace, dentro una grotta.

L'accusa afferma, infine, di aver voluto sostituire il simbolo del Sottoproletariato a quello di Cristo. Sarebbe stata una pura idiozia che nulla potrebbe mai giustificare.

Al Pasolini interessa soltanto mettere a fuoco il problema del sottoproletariato, senza falsi misticismi: quel sottoproletariato che, come ha ben dimostrato di capire il PM, sta morendo - storicamente - senza che nessuno sappia che farsene, se non forse come ha scritto altrove, in prosa e in versi, Giovanni XXIII e i cattolici che sono con lui.
.



Alcune recensioni a
RoGoPaG
allegate al fascicolo processuale


.

"La settimana Incom" - 3 marzo 1963
LO SPETTATORE

La fame del protagonista.
La ricotta di Pasolini è l'episodio più riuscito
di RoGoPaG, il film girato da quattro registi.
Cronaca cinematografica di Tullio Kezich
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Nel bellissimo libro dedicato a Mamma Roma (edizioni Rizzoli), che Orson Welles tiene fra le mani nell'episodio pasoliniano di RoGoPaG, c'è uno sfogo dell'autore degno di attenzione: "Penso che il più grave difetto della critica cinematografica", confida Pasolini al megafono "sia quello di mancare di gusto filologico. Essa è una critica tutta sensibilità, di fondo idealistico, superata sia all'università che fuori dall'università, da molti anni, da almeno venti, trenta anni. E, quando non è idealistica, allora è critica marxistica, schematica, di contenuto, dei giornali di sinistra. In tutti e due i casi manca completamente la filologia. Le fonti cinematografiche sono sempre viste come qualcosa di mitico, mai di storico. Direi che per una critica filologica, alla saggistica cinematografica manca addirittura la terminologia".

A parte un eccesso di severità, Pasolini ha ragione. Quando esce dalla critica quotidiana o dal pezzo settimanale, la critica cinematografica continua a dibattersi fra le secche dell'impressionismo e del contenutismo. La difficoltà di consultare i vecchi film, la genericità dei testi canonici ai quali dobbiamo per forza riferirci, i cedimenti della memoria, il frastuono cronico del mondo cinematografico con l'ossessivo pullulare di false novità: tutto questo contribuisce a renderci pigri, disattenti e generici. Ben venga Pasolini a tirarci le orecchie soprattutto adesso che il cinema moderno impone un ritorno alla critica stilistica, un ridimensionamento filologico.

Altrimenti come faremmo ad orintarci in un momento nel quale gli schermi sono affollati di opere prime pretenziose, gracili e balbuzienti, dove gli ultimi della classe o coloro che non sono ancora nati ci dimostrano quanto sia difficile fare, in un modo qualsiasi, un film? Ed è proprio in questo momento che il cinema italiano sta dando esempi emozionanti di estrema libertà morale e linguistica: ieri è stata la volta di Otto e mezzo, oggi è di scena La ricotta di Pasolini, domani vedremo I fidanzati di Olmi.

In questi film, e in qualche altro esempio dell'ultima produzione, c'è il superamento del neorealismo, l'adozione di una nuova misura del tempo narrativo, il ritorno ad un linguaggio che risale addirittura alle origini del cinema. Quando per esempio Pasolini ricorre all'accelerazione dell'immagine per raccontare la corsa del suo eroe alla conquista della ricotta, il procedimento da vecchia comica assume nelle sue mani un valore di sottolineatura tragica: la fame, eterna molla della farsa italiana da Ruzante a Eduardo, ha nell'episodio il suo monumento grottesco e barocco.

Pasolini è un ingegno composito, arrivato al cinema da esperienze letterarie e per vocazione figurativa. I suoi maestri dichiarati sono Dreyer, Chaplin e Bergman; e bisogna aggiungere all'elenco il nome di Fellini mitologico e angosciato di La strada, un film chiave di cui molti hanno subito l'influenza dopo averlo detestato. Accattone rappresentò la sorpresa di un mondo suburbano e primitivo narrato con inedita icasticità e giusta mancanza di armonici; Mamma Roma, di cui si notarono piuttosto i difetti che i grandissimi pregi, fu la conferma di un talento che ha una sua dimensione cinematografica per nulla dilettantesca; La ricotta è a tutt'oggi l'opera migliore di Pasolini e forse un capolavoro.

Non è facile analizzare un film che cerca le prospettive opposte del mito e del saggio, vuol colpire con l'immediatezza delle visioni, convincere con la forza del ragionamento. Pasolini ci ha messo dentro tutto: Welles che parla con la voce di Giorgio Bassani, i ragazzi di vita, gli Stracci del cinema in costume, il twist, una crocifissione a colori che sfiora l'empietà per ritrovare la sua tragicità più grezza e emblematica, la musica del melodramma, il dolore per una condizione umana miserabile, Laura Betti, il giornalismo volgare, l'autobiografismo. "Io sono una forza del passato. - solo nella tradizione è il mio amore...- Giro per la Tuscolana come un pazzo, - o per l'Appia come un cane senza padrone. - O guardo i crepuscoli, le mattine - su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, - come i primi atti della dopostoria...". In questa poesia, che Welles legge nel film, Pasolini ci offre l'interpretazione più sofferta della sua poetica di cattolico impegnato con le contraddizioni del mondo contemporaneo. La ricotta ne è un'illustrazione impressionante e commovente, al di là di un certo tono didascalico che affiora verso la fine e potrebbe suscitare perplessità.

RoGoPaG, bizzarro titolo che il produttore Alfredo Bini ha ricavato dai cognomi dei registi impegnati nei vari episodi, si raccomanda soprattutto per il racconto di Pasolini. Degli altri è piuttosto divertente Il pollo ruspante di Ugo Gregoretti, variazione sarcastica sulla stranezze del miracolo italiano a mezza strada fra lo sketch rivistaiolo e una articolo del "New Yorker". Come al solito, Ugo Tognazzi è bravissimo nella raffigurazione dell'italiano medio negli "anni sessanta", un personaggio che gli resterà attaccato e lo consegna, se non alla storia del cinema, almeno a quella del costume.

Il brano migliore dell'episodio, che si conclude con un'improvvisa nota drammatica, è quello della gita a una certa "Svizzera dei lombardi" per l'acquisto di un appezzamento di terreno. Qui la satira si fa precisa ed efficace, per esempio, nel cogliere l'imbarazzo della coppia milanese costretta ad ammettere di non avere disponibili i milioni per pagare in contanti la cifra che viene richiesta. Il lombardo che vuole essere "all'altessa" è veramente il borghese gentiluomo di oggi e nessuno l'aveva mai punzecchiato con tanta proprietà.

La fine del mondo, di Jean Luc Godard, è una novelletta intellettualistica sugli effetti psicologici di una immaginaria esplosione atomica su Parigi. In un'aura vagamente jettatoria si muovono, deliberatamente inespressivi, Jean Marc Bory e Alexandra Stewart. Godard fonde lo spauracchio termonucleare con la realtà dell'alienazione, ma il racconto è gracile, né spiritoso né terrificante.

Meglio tacere infine sull'espisodio di Roberto Rossellini, intitolato Illibatezza e dedicato all'arte di Rosanna Schiaffino. Diremo soltanto che Rossellini sembra impegnato masochisticamente a far sfigurare quelli di noi che lo considerano un maestro, e a dar ragione ai suoi superficiali detrattori.

Tullio Kezich


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"L'Espresso" - 3 marzo 1963
Un film a episodi
L'UOMO MEDIO SOTTO IL BISTURI
Di Alberto Moravia
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RoGoPaG è un film ad episodi; il titolo bizzarro sta a indicare i nomi dei quattro registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. [...]

E veniamo all'episodio di Pier Paolo Pasolini. La ricotta. Dobbiamo premettere che un solo giudizio si attaglia a quest'episodio: geniale. Non vogliamo dire con questo che sia perfetto o che sia bellissimo; ma vi si riscontrano i caratteri della genialità, ossia una certa qualità di vitalità al tempo stesso sorprendente e profonda.

In quest'episodio si narra il caso di un poveraccio a nome Stracci ingaggiato come comparsa in un film sulla Passione. Stracci è il buon ladrone. Affamato, deluso nella sua fame da vari incidenti, Stracci alla fine si rimpinza di ricotta, prende un'indigestione e muore sulla croce, proprio nel momento in cui il regista s'appresta a far ripetere una scena in presenza del produttore.

La ricotta nell'opera cinematografica di Pasolini nasce dalla stessa ispirazione delle poesie; così come Accattone riprendeva sullo schermo i temi dei romanzi. L'idea amaramente dolorosamente espressa in questo piccolo capolavoro è quella del contrasto tra la grande civiltà italiana del passato simboleggiata dalla Sacra Famiglia dipinta da tutti i nostri pittori, dai primitivi fino ai secentisti, e la corruttela e l'imbastardimento di questa stessa civiltà simoboleggiata dalla disgregazione e decomposizione canagliesca di quella stessa Sacra Famiglia. Mentre Accattone spoglio ed essenziale conteneva la polemica umana e sociale di Pasolini, ne La ricotta si esprime, con modi barocchi e grotteschi, la polemica culturale e religiosa.

L'episodio di Pasolini ha la complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livello delle sue poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema in immagini cinematografiche. Da notarsi l'uso nuovo e attraente del colore alternato al bianco e nero. Orson Welles, nella parte del regista straniero che si lascia intervistare, ha creato con maestria un personaggio indimenticabile.

Resterebbe ora da chiedersi il motivo della freddezza con la quale è stato accolto dalla critica cinematografica quest'episodio. La chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell'impreparazione culturale di molti critici, anche nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. Diamine: il regista nell'intervista dichiara: "L'Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d'Europa", ed ecco che scontenta così i partiti di destra come quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: "L'uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista", ed ecco scontentati tutti quanti. L'Italia del passato, infatti era il paese dell'uomo, in tutta la sua umanità; l'Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell'uomo medio.


Alberto Moravia



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"l'Unità" - 24 febbraio 1963
RoGoPaG
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Ancora un'antologia cinematografica in quattro episodi, la connessione fra i quali viene indicata nel titolo, che raccoglie le sigle dei quattro registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. Altra e più sostanziosa connessione non riusciamo a scorgere, anche se, nell'affannosa molteplicità delle didascalie generali e particolari, sembra proporsi la traccia comune di un esame dello stato dell'uomo d'oggi, in bilico fra due ere o, addirittura, alla vigilia della sua scomparsa dalla faccia della terra. [...]

La ricotta reca la firma di Pier Paolo Pasolini: è la storia di un poveraccio, affamato cronico, il quale viene assunto come comparsa in un film sul Calvario, nei panni (scarsi) del ladrone buono. Mille circostanze gli impediscono di soddisfare l'appetito: e quando, infine, può saziarsi a proprio piacimento, il troppo cibo ingurgitato e lo strazio della finta Crocifissione provocano la sua morte. Alla linearità della vicenda principale, l'autore ha aggiunto il peso di altri elementi non molto congrui, per il vero, data l'obbligatoria brevità dell'episodio: e, in qualche caso, destinato ad un ristretto pubblico di amici o di nemici. Così Orson Welles, nelle vesti del regista, polemizza per conto di Pasolini e lo cita abbondantemente. Così le scene dell'immaginario "colosso" biblico sono a colori, e Pasolini ironizza su chi ha avanzato riserve circa la sua "fulgurazione figurativa" componendovi una serie di "quadri viventi", il cui effetto, sia detto con la massima franchezza, è di accrescere le riserve surricordate. Ma forse, qui Pasolini voleva fare anche un po' di spiritosa autocritica.

Ag. Sa.


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"Il Popolo" - 26 febbraio 1963
Quattro registi per RoGoPaG
IL CINEMA GUARDA ALL'INDUSTRIA
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La sigla RoGoPaG indica le iniziali dei quattro registi, e tutti per un verso o per l'altro, particolarmente indicativi delle tendenze del cinema d'oggi, che hanno diretto i quattro episodi di questo film: Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti. E quel nome che sembra quello di una società, ha un suo significato anche in sé, perché sta su di un'opera che vuol parlare di civiltà industriale, vista in uno dei riflessi che ci interessano più da vicino, quel condizionamento al consumo e le sue spesso abnormi deformazioni che premono sulla individualità dell'uomo d'oggi e tendono, in vista di non meglio identificati interessi comuni, a farne un numero i cui gusti e le cui preferenze siano facilmente identificabili.

Argomento dunque affascinante e preoccupante. I quattro autori ne hanno proposto storie assai diverse tra loro; tutte interessanti, anche se nessuna pienamente riuscita. [...]

L'episodio, comunque, segna un momento preciso e di estremo interesse nella possibile evoluzione di un autore cinematografico che ha sicuramente delle cose da dire. E che prima o poi troverà il modo di esprimerle nella loro dimensione più precisa: questa volta è intuita ma non raggiunta.

Dalla personalità e dalla varietà dei quattro registi, dall'interesse del tema proposto il film deriva sicuramente una sua vivacità e una sua modernità. Che valgono, in buona misura, a bilanciare i non trascurabili e irritanti difetti.

P.V.



La sentenza di condanna nel processo
di Primo grado
7 marzo 1963
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Dispositivo di sentenza
( art. 472, 473 c.p.p. - art. 27 Regolam. esecuz.
C.p.p. 28 maggio 1931, n. 603)
REPUBBLICA ITALINA
in nome del Popolo intaliano

Tribunale di Roma - Sez. IV Penale
alla pubblica udienza del 7/3/1963 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

Visti gli artt. 483, 487, 488 cpp dichiara Pasolini Pier Paolo colpevole del delitto ascrittogli e con le attenuanti generiche lo condanna alla pena di mesi quattro di reclusione e al pagamento delle spese processuali. Ordina sospendersi l'esecuzione della pena inflitta per anni cinque alle condizioni di legge.

Il Presidente

N.1020/63

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il giorno 7 del mese di marzo 1963

IL TRIBUNALE DI ROMA - SEZ. IV

composto dai signori Magistrati: Dr. Semeraro Giuseppe - Presidente, Dr. Testi Carlo estensore, Dr. Bilardi Luigi - Giudici, con l'intervento del Dott. Di Gennaro Giuseppe S. Procuratore della Repubblica e con l'assenza del Sig. Ungaretti Giuseppe Cancelliere ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa penale

CONTRO

PASOLINI Pier Paolo fu Carlo e di Colussi Susanna, nato a Bologna il 5/3/1922, dom.to in Roma via Giacinto Carini n. 45
Libero presente

IMPUTATO del delitto p.p. dell'art. 402 C.P. per avere, nella sua qualita' di soggettista e regista dell'episodio La ricotta del film "ROGOPAG" pubblicamente vilipeso la religione dello stato, rappresentando con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene dalla Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e le altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica.
In Roma, nel febbraio 1963.

SVOLGIMENTO DEL FATTO

Il 1° marzo u.s. il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma ordinava il sequestro delle pellicole cinematografiche relative all'episodio La ricotta facente parte del film "ROGOPAG" proiettato per la prima volta in Italia il 19 febbraio precedente nel cinema "Tor Lupara" sito in Mentana (Roma).

Ritenendo che l'episodio di cui sopra vilipendesse pubblicamente la Religione dellao Stato, in quanto in esso Pier Paolo Pasolini, soggettista e regista, col pretesto di descrivere una ripresa cinematografica avrebbe rappresentato alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori, sia col comento musicale che con la mimica, il dialogo e le altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica, il Procuratore della Repubblica promuoveva nei confronti del citato Pasolini l'azione penale col rito direttissimo.

L'imputato veniva così tratto in giudizio dinanzi a questa giustizia, competente per materia e per territorio per la udienza del 5 marzo u.s., per rispondere del delitto di cui all'art. 402 codice Penale.

Esperitasi l'istruttoria dibattimentale, con l'ampio e dettagliato interrogatorio del pervenuto; la visione della pellicola incriminata e la escussione del produttore del film Bini Alfredo, alla odierna udienza il PM chiedeva la condanna di Pasolini alla pena di un anno di reclusione senza benefici di legge.

Dal canto suo la difesa, che esibiva la sceneggiatura dell'episodio e una panoramica della critica cinematografica sul film "ROGOPAG" e in particolare "La ricotta", invocava l'assoluzione dell'imputato con formula piena.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Prima di scendere al merito della delicata ed interessante fattispecie di che trattasi, reputa utile il collegio, far precedere alcune precisazioni di carattere giuridico, circa la imputazione contestata al prevenuto Pasolini.
Innanzitutto va osservato che la competenza funzionale e per territorio del Tribunale di Roma deriva dal chiaro disposto dell'art. 14 della Legge 21 aprile 1962, n. 1l6l1, in base alla quale - è opportuno inoltre sottolineare - la commissione di I grado, preposta alla revisione dei film (art. 1) può dare, a norma del successivo art. 6, parere contrario alla loro proiezione in pubblico, esclusivamente ove ravvisi in essi sia nel complesso che nelle singole scene o sequenze, offesa la buon costume, inteso ai sensi dell'artl 21 della Costituzione.
Ora, per quanto attiene al film "ROGOPAG", la detta commissione diede parere favorevole alla concessione del nulla osta alla proiezione in pubblico, sia pur col divieto per i minori degli anni 18, proprio per non avervi riscontrato, nei limiti della propria competenza, estremi di offesa al buon costume.
Dal canto suo, con particolare riferimento all'episodio La ricotta, il Procuratore della Repubblica ha ritenuto di ravvisarvi elementi di vilipendio della religione dello Stato. Di qui il proponimento dell'azione penale nei confronti di Pasolini, cui è stato addebitato un delitto, in merito al quale, ove pur lo avesse rilevato, assolutamente nulla poteva eccepire l'organo di controllo amministrativo.
Ciò posto, rileva il Collegio che l'accusa è pienamente fondata.
Preliminarmente non sembra inutile rilevare circa l'espressione "Religione dello Stato", di cui è menzione nel titolo e nel testo dell'art. 402 C.P., che essa era contenuta nell'art. 1 dello Statuto Albertino in cui era scritta che la religione cattolica Apostolica Romana è la sola religione dello Stato come quella che è professata dalla quasi totalità degli italiani.
Tale dichiarazione implicitamente abrogata dal Codice Penale del 1889 e' stata ripristinata dall'art. 1 del trattato politico con la Santa Sede dell'11 febbraio 1929, approvata con legge 27 maggio 1929 n. 810. Il concordato poi, contiene - come si dirà qui di seguito - disposizioni che applicano questo principio regolando appunto i rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
Ora, potrebbe sembrare, prima facie, esatto, con riguardo all'art. 7 della legge fondamentale, riconoscere alla regolamentazione concernente la religione cattolica, il carattere costituzionale per cui essa andrebbe considerata una istituzione costituzionale dello Stato.
Senonché, a parere del Collegio, è essenziale sottolineare, a prescindere dalla validità o meno di siffatta impostazione giuridica e delle conseguenze che agevolmente se ne traggono circa la confessionalità o meno del nostro Stato, che segnatamente alla stregua degli art. 3 e 19 della legge fondamentale, la locuzione "religione dello Stato", non può intendersi, atteso l'attuale regime democratico, se non nel significato, alieno da ogni incrostazione confessionista, di religione cui lo stato italiano attribuisce una posizione di preminenza, in considerazione che essa è professata dalla maggioranza degli italiani: nel significato cioè di religione della maggioranza dell'elemento personale dello Stato, vale a dire del suo popolo.
Ciò precisato, devesi tenere presente che il criterio informatore dell.art. 402 del C.P. del 1930, come degli altri articoli compresi nello stesso Capo I ("dei delitti contro la religione dello Stato e i Culti ammessi") del titolo IV ("dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti") del libro II dello stesso codice è diverso da quello a suo tempo adottato in subiecta materia dal codice penale del 1889.
Questo mirava infatti a proteggere direttamente non tanto la religione in sé considerata, quanto la libertà religiosa individuale, sicché le relative norme erano collocate senza il titolo "dei delitti contro la libertà dei culti"; per contro il legislatore nel 1930 ha inteso con le norme di cui agli art. 402 e segg. del C.P. elevare ad oggetto specifico della tutela penale il sentimento religioso, quale indiscusso patrimonio morale di un popolo, quale forza spirituale operante nella nostra società e concorrente al perseguimento dei fini dello Stato. [...]
Quanto sopra rilevato in linea di diritto, è necessario ora procedere all'esame del film La ricotta, di cui il Collegio ha preso attenta visione, al fine di stabilire se esso, nel complesso e in alcune particolari sequenze, abbia o meno contenuto obbiettivamente vilipendioso, nel senso testé delineato, della religione.
Il film racconta la giornata di lavoro di una équipe di attori e di comparse, intenta a rappresentare per la ripresa cinematografica in esterni, alcune scene della Passione e morte di Gesù Cristo.
L'attenzione dello spettatore è polarizzata sul personaggio principale dell'episodio rappresentato da un certo Stracci, povero, misero individuo che nel film è destinato formalmente a impersonare il buon ladrone e che nella vita reale costituisce il simbolo cristallino di quel sottoproletariato senza mezzi e senza educazione che la società costringe ai margini del vivere civile e lo Stato non aiuta e non tutela; di quel sottoproletariato, cioè, che campa alla giornata, è totalmente privo di mezzi necessari per la propria elevazione fisica e spirituale, e che lavora, suo malgrado, solo quando sporadicamente ne ha l'occasione.
La ricotta è dunque la storia di Stracci, un uomo disgraziato, indifeso, abbandonato a se stesso, ma fondamentalmente buono e generoso, che è costretto a lavorare anche quando è malato, che cede il cibo datogli da chi lo ha precariamente ingaggiato come comparsa, alla sua numerosa, povera famiglia, che sopporta il duro lavoro sotto i morsi feroci della fame, dalla quale mai è riuscito a riscattarsi; e se un espediente escogitato e attuato fra una pausa e l'altra del lavoro, gli consente di disporre di mille lire, egli non esiterà a impiegarle interamente nell'acquisto di ricotta.
Sarà proprio l'ossessivo avido e assurdo ingurgitamento di questa e degli altri cibi deliziosamente offertigli dai suoi compagni, sia pur per scherno e derisione, che lo condurrà di lì a poco a morte, quando inchiodato sulla croce, innalzata con le altre sulla collina che dovrebbe significare il Calvario, sta per dare vita cinematograficamente alla scena della Passione e delle morte di Cristo e dei ladroni. Il film si chiude col commento sul tragico fatto profferito dal regista della équipe: "povero Stracci, la sua morte è stata il solo suo modo di fare la rivoluzione".
Questa per sommi capi è la trama del film che di per se non appare vilipendiosa della religione cattolica, che del resto è estranea, pur se è dato cogliere un significato vagamente religioso nella morte in croce del protagonista, il quale colle sue sofferenze induce facilmente a pensare alla morte di Cristo, pure condannato da una società ottusa e sorda ad una fine ignominosa.
Al riguardo si potrebbe aggiungere che è nel significato e nell'essenza della religione cattolica, per chi accettandone e riconoscendone il valore transumano e trascendente ravvisi nel Cristo del Calvario l'uomo - Dio che si fece crocifiggere per la salvezza delle anime, accostare le vicissitudini dell'uomo che soffre a quelle del Salvatore, per trarre da questo raffronto, conforto o forza di sopportazione e di rassegnazione, nella speranza di una vita ultraterrena che ricompensi da tutti mali e le disgrazie patite.
Nulla dunque da osservare o da eccepire sulla trama del film, e in definitiva sul significato del messaggio sociale in esso contenuto, così come lo ha inteso profilare e materializzare Pasolini, dando vita al suo personaggio protestatario.
Del resto non ignora il Collegio le precedenti opere dell'imputato, come scrittore e come regista cinematografico.
Non è la prima volta che egli affronta con la sua cultura e la sua educazione, sia pur condizionato dalle personali vedute che costituiscono ad un tempo, sotto il profilo artistico, l'essenza e i limiti delle sue opere, il tema del sottoproletariato in generale.
D'altra parte l'imputato è stato esplicito, quando ha dichiarato che Stracci vuole essere il simbolo del sottoproletariato da tutti ignorato e che la sua morte è un modo di dimostrare la sua esistenza, di porre cioè il problema della sua esistenza.
Ciò non contrasta poi con quanto assunto dal produttore Bini, secondo cui, se il filone centrale dei quattro episodi del film "ROGOPAG" è costituito dal vaglio critico dei diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il condizionamento cioè dell'uomo nel mondo moderno, nell'episodio La ricotta Pasolini ha inteso occuparsi proprio di quella parte di umanità non ancora assoggettata a tale stato di condizionamento.
L'imputato ha però escluso che fosse sua intenzione, sia pur recondita e inconscia, vilipendere la religione cattolica; anzi ha aggiunto che proprio sotto il profilo obiettivo il film non conteneva alcunché che potesse vilipendere la religione, precisando che la parte religiosa era soltanto "la cornice dell'opera" e, ancora, che il senso del film non era la polemica religiosa o almeno non era questa una componente essenziale del film.
Il Collegio è di avviso nettamente contrario, nel senso che la trama del film e il messaggio che se ne ricava, ha un contenuto certamente sociale, essa è però articolata, nelle sue scene, nelle sue inquadrature, nelle sue sequenze e nei commenti musicali e verbali che questa di volta in volta accompagnano, in guisa tale che offre Stracci, simbolo dell'uomo - vittima della società, un'altra ben più nobile e più degna entità viene gratuitamente immolata allo spirito negatore e al sentimento distruggitore di Pasolini, la religione cattolica, nel film apertamente dileggiata, schernita, derisa, immiserita nei suoi simboli e nelle sue manifestazioni più intime ed essenziali.
Pasolini ha spiegato quale è stata l'occasione e quale la causa profonda perché Stracci, simbolo del sottoproletariato, è stato accostato alla Passione di Cristo, nelle vicende della lavorazione di un film su tale argomento.
Secondo l'imputato lo spunto del racconto gli è stato offerto dal fatto di cronaca della morte di una comparsa durante la ripresa cinematografica dell'eclisse di sole del 1961.
La causa vera di tale accostamento tra Stracci e la Passione di Cristo, sempre a dire di Pasolini si giustificherebbe artisticamente perché questa "veniva ad essere la proiezione fantastica, concreta, visiva di un elemento ideale, intimo del personaggio" di cui sarebbe palese la profonda seppur istintiva e primitiva religiosità.
Ora, è un dato in effetti obiettivo che Pasolini ha volutamente inquadrato il suo simbolo nella visuale da lui artisticamente sentita, cogliendolo cioè durante la sua giornata lavorativa di comparsa impegnata nella rappresentazione cinematografica della Passione di Cristo.
Ciò posto, nessuno dubita che il regista ha trattato il suo personaggio-simbolo con estrema pietà e religiosità, se con quest'ultima parola si intende il rispetto, la venerazione ostentata verso la sua creatura, da tutti derisa e dileggiata e in definitiva verso chiunque si debba nello Stracci riconoscere.
Allo spettatore non sfugge davvero la mistica sacralità delle scene che inquadrano Stracci cha mangia, i suoi familiari che mangiano, Stracci che è alla ricerca disperata di cibo: mistica della fame e del bisogno, accentuata da una particolare musica sacra (il Dies Irae): mistica mai dileggiata, mai derisa, mai ridicolizzata, come purtroppo accadrà invece ogni qual volta il regista tratterà le parti veramente sacre del film, ogni qual volta egli si accosterà a Cristo e ai personaggi della tradizione cattolica. Tale religiosità, il regista ha evidenziato quando a mano a mano, sequenza per sequenza, ha innalzato Stracci, che pur nel film doveva impersonare il buon ladrone, alla dignità del vero Cristo, dell'uomo-simbolo che morendo in croce dileggiato e deriso, soltanto nella morte trova il mezzo di dimostrare la propria esistenza. In questi sensi e con questi limiti può accettarsi la tesi del prevenuto circa la religiosità del film e del suo personaggio e in definitiva circa la propria religiosità. Trattasi però di una religiosità particolare, propria del soggetto che la evidenzia e come tale mai elevata e spiritualizzata. Invero, per rendere atrocemente evidente la sofferenza del Cristo terreno inchiodato sulla croce, Pasolini, fedele alla sua impostazione ideologica, non può non fare subire a Stracci il supplizio dei cibi e delle bevande offertegli e poi negategli da altri sottoproletari: il tormento e il desiderio della donna formosa che egli non può avere; tutto si riduce per Pasolini ad una questione di primordiali esigenze fisiche non soddisfatte, ed è per questa insignificante negazione di beni materiali che Stracci morirà sulla croce.
La religiosità che Pasolini connatura al suo personaggio è dunque una religiosità che rispetto alla entità cui è stata volutamente contrapposta è in verità chiaramente antireligiosa, in quanto concretatasi in azioni vilipendiose del bene tutelato al quale si pone col suo racconto in antitesi.
In altri termini Pasolini, proprio per servire, illustrare ed evidenziare la religiosità del racconto, di Stracci e quindi la propria concezione della religiosità ha voluto immotivatamente aggredire una entità, artatamente presentata come del tutto antitetica al proprio sentimento di religiosità e cioè la fede cattolica, nelle sue manifestazioni più mistiche che attingono alle tragiche vicende terrene dell'Uomo-Dio e quindi dei suoi simboli essenziali.
Nessuno, credente o meno, che guardi con spirito sereno la pellicola, può negare che le immagini di alcune sequenze nella situazione in cui di fatto vengono inquadrate e nel loro accoppiamento ora a musiche ora a parole, siano vilipendiose della religione cattolica.
Va precisato che nel film, in bianco e nero, alcune sequenze ritraggono gli attori e le comparse in libertà, quando cioè non sono impegnati ad agire sotto la macchina da presa, altre invece li ritraggono nell'atto in cui danno vita a scene cinematografiche della Passione di Cristo.
Ora è agevole rilevare innanzitutto che il materiale della pellicola qualitativamente e quantitativamente più consistente ai fini della nostra indagine è fuori - si badi bene - della economia dei fini, pur chiaramente messi avanti dal regista per giustificare la sua opera; e, ancora, che esso è preteso più o meno sfrontatamente il fine delittuoso di prendersi di volta in volta beffa e lazzo della religione.
Basti pensare alle belle scene che il regista ha voluto a colori - armonici, limpidi, perfetti - rappresentanti la Deposizione di Gesù.
Trattasi di due quadri viventi realizzati in maniera pregevole, copie artistiche di due opere pittoriche rinascimentali, rispettivamente del Rosso Fiorentino e del Pontormo. Senza volersi indugiare nell'esame circa il valore intrinseco dei dipinti, nella ricerca della corrente artistica cui appartenevano gli autori, in relazione all'epoca in cui le opere furono compiute, e senza abbandonarsi alla non necessaria, quanto sottile indagine diretta a cercare le più o meno recondite sfumature di espressione che in esse è consentito ai critici e agli iniziati di cogliere, sta di fatto che le due Deposizioni, pur nella loro tormentata umanità, emanano un colore profondamente religioso, almeno per chi, credente e non, le osservi con occhio sereno, scevro da riserve, da pregiudizi e da rancori ideologici, sia per la purezza dei colori e delle immagini, sia per il loro contenuto altamente religioso, in quanto afferenti al momento in cui Cristo, immolatosi per la redenzione degli uomini, viene staccato dalla croce e mestamente composto dalle pie donne che già amaramente avevano pianto ai suoi piedi.
E indubbiamente che con questi quadri viventi il regista è riuscito a dar vita ad alcune sequenze idonee a provocare un profondo sentimento di religiosità e un profondo seppur semplice misticismo. Lo spettatore è quasi portato in questa atmosfera intima che promana la pellicola a partecipare alla Passione della crocefissione che rivive sulla scena, spiritualmente sollevato da un empito di venerazione e di rispetto.
Eppure proprio questa atmosfera artatamente creata dal regista viene ripetutamente profanata, distrutta, irrisa in maniera tanto turpe quanto inopinata e immotivata, in guisa tale da offendere la più parte degli spettatori che non guardino con occhi e spirito irriverenti.
E' quanto accade per il quadro vivente della deposizione del
Rosso Fiorentino. Ad esso viene prima accoppiato come commento musicale, un "twist" e poi un "cha cha cha", musiche che irrompono, nella loro irriverente profanità, sulla croce, sul viso dei santi, del Cristo morto, della Madonna.
In una successiva sequenza, il bel volto del Cristo, incorniciato da fulva capigliatura e serenamente composto nell'immagine della morte, proprio nel momento di una profonda e mesta religiosità della scena, si contrae inopinatamente in un riso sguaiato quando cioè la Madonna, con voce dolente, e straziata, ha finito di profferire ai suoi propri piedi le antiche, semplici purissime parole: "figlio, l'alma t'è uscita, figlio della sparita, figlio della smarrita, figlio atossicato, figlio bianco e vermiglio".
All'intensa religiosità della scena, al profondo misticismo che da essa si effonde, corrisponde dunque, di volta in volta, con pari intensità il dileggio gratuito, lo scherno, la irrisione immotivata.
Raramente, ad avviso del Collegio, potrebbesi con tanta irriverenza irridere alla Croce, al Cristo, alla sua passione e morte. Ma non basta. Anche in una successiva sequenza che pregevolmente ritrae in un quadro vivente la Passione del Pontormo, pure a colori, Pasolini ha voluto e saputo dar vita ad una religiosa atmosfera, analoga a quella di cui sopra si è parlato.
Ebbene, anche su questa sequenza, irrompe prima irriverentemente, quale commento musicale, un ballabile; la religiosità della scena già così turbata, sarà poi definitivamente distrutta quando, essendo il Cristo, che doveva essere ritratto nell'atto della sua deposizione, malauguratamente rovinato a terra fra le sguaiate risate delle altre comparse che interpretano i vari personaggi sacri del quadro, sferzante e ingiurioso sul crocefisso, sulla Madonna, sui santi ritratti di volta in volta in primo piano, si alza il grido di una voce fuori campo "cornuti, cornuti, cornuti".
Può seriamente attendersi la giustificazione, per quanto concerne le musiche, che trattasi di incresciosi ma non voluti errori di esecuzione, per quanto riguarda la sguaiata risata di Cristo, che non questi ma la comparsa che lo interpreta intende irridere ai suoi compagni di lavoro e specialmente alla donna che interpreta la Madre di Dio, nell'udire per di più ripetutamente le strane e incomprensibili parole, che dettò l'animo ispirato di Jacopone da Todi?
Ci si può acquietare pensando che il grido "cornuti" fosse diretto a colpire soltanto le comparse, le quali avevano in sostanza rovinato la scena? In altre parole può accettarsi la tesi che tutto quanto avviene nel film per ciò che riguarda le scene sacre e religiose attiene alle comparse che agiscono e che in definitiva il film è la fedele documentazione della condotta ignorante, altamente irriverente e irreligiosa di individui chiamati ad interpretare parti di contenuto sacro, cui essi sono spiritualmente estranei?
A tali interrogativi devesi, ad avviso del Collegio, rispondere negativamente.
Invero con il ripetuto oltraggio della musica, con la risata sguaiata del Cristo-comparsa, di cui al dipinto del Rosso Fiorentino, con gli insulti rivolti ai personaggi sacri della Passione del Pontormo, è in realtà il Cristo degli altari, il Cristo della tradizione a essere dileggiato, schernito, deriso.
Consegue che gravemente offeso ne risulta il sentimento religioso della maggioranza degli italiani, che nel Cristo di cui è dileggiata la Passione e morte in Croce, riconoscono piu' che il simbolo, l'essenza e l'intima sostanza della loro religione.
Davvero puerili seppur apparentemente esaurienti, appaiono dunque siffatte giustificazioni, come quelle dirette a far risalire ai personaggi del film la responsabilità delle loro azioni, nel senso che essi sono ritratti come sono soliti pensare ed agire, e quindi a distinguere tra attori e comparse da un lato e personaggi divini o comunque sacri da essi rappresentati dall'altro.
La realtà è ben altra ed essa non sfugge, nonostante le abili elucubrazioni giustificative del prevenuto, al Collegio. Può convenirsi con Pasolini quanto egli afferma che la parte religiosa del film fa da cornice all'opera, giacchè in effetti la vicenda narrata è inquadrata nel fenomeno religioso in cui di volta in volta si rispecchia, con modalità però senz'altro vilipendiose per la religione.
E' un fatto che il cinema è stato il mezzo scelto da Pasolini per manifestare il proprio pensiero, per diffondere le proprie istanze e tutti sanno che il cinema è un mezzo efficacissimo di comunicazione di massa.
Ora, con la sua opera, Pasolini non si rivolge soltanto ad una élite di intellettuali, perché, nella loro sufficienza, traggono da essa motivo per disquisire e sofisticare su cose e sentimenti sacri, di cui magari, nella loro evoluta incredulità, hanno maturato il superamento. E neppure l'opera di Pasolini è destinata soltanto alla meditazione di chi, con la propria cultura e la propria educazione religiosa, non si sente affatto scalfito nella sua fede ragionata, dalla grossolana aggressione ai propri sentimenti religiosi.
L'opera di Pasolini è destinata a tutti e cioè anche alla massa compatta del popolo italiano, ancora sana e gelosa del proprio patrimonio spirituale, ma appunto per questo meno difesa e più soggetta a subire gli attacchi ideologici di chi, con disinvoltura ed abilità, riesca a mettere in ridicolo e a immiserire le componenti essenziali della sua credenza.
Di qui la indiscussa idoneità della pellicola a offendere, mediante il vilipendio della religione, quel patrimonio.
Ora, se è vero che la libertà di opinione e di creazione è garantita dalla Costituzione, per cui il Pasolini è liberissimo di pensarla come crede in materia religiosa, anche perché questo fatto della coscienza individuale è indifferente al mondo esterno, al medesimo è pero' assolutamente interdetto di vilipendere la religione cattolica. La libertà di pensiero incontra infatti dei limiti nella sua manifestazione e tra questi il diritto positivo ha posto in divieto di schernire e dileggiare la religione dello stato, proprio in quanto, quale patrimonio della maggioranza degli italiani, rispecchia un sentimento collettivo meritevole da parte di chicchessia del più alto e rilevante rispetto.
Che Pasolini abbia dunque dileggiato al religione non può revocarsi in dubbio, alla luce di quanto evidenziato.
Basterà qui aggiungere che è proprio lo spirito del film ad essere improntato a questa aperta quanto immotivata derisione della religione, ora schernita, ora disprezzata, ora insozzata.
Al riguardo, può concordarsi, circa il mistico quadro vivente del Rosso Fiorentino, la sequenza in cui una voce fuori campo ingiunge ad una comparsa che sulla croce raffigurava un santo, di togliere le dita dal naso. Gioverà pure ricordare i vari bivacchi delle comparse, durante le pause del lavoro, sulle croci poggiate a terra; che, pur pezzi di legno, strumenti di lavoro, rimangono tuttavia sacre espressioni della religione, destinate di lì a poco a far rivivere la Passione e Morte del Cristo; le sequenze in cui Stracci, in croce, contrapposto al vero Cristo, biascicherà voglioso: "ho fame"; e ancora lo striptease di una redenta peccatrice che finisce per mostrare discinta i seni nudi alle altre comparse inchiodate sulle croci, che attendono di essere innalzate.
Del pari indubbio significato vilipendioso, se logicamente inserite, come è doveroso, tra le scene più apertamente irriverenti della Passione e Morte di Cristo, hanno le sequenze che in primo piano ritraggono, in una successione di stacchi, i vari collaboratori del regista nell'atto di ripetere l'ordine di allontanare dal campo di ripresa le tre croci, stante la necessità di filmare altre scene.
Il regista dell'équipe aveva, è vero, con voce stanca e sommessa disposto: "via i crocifissi". Eppure tale legittimo desiderio, ripetuto di volta in volta da facce diverse, si trasforma, atteso il mdo come viene manifestato e l'atteggiamento di chi lo esprime, in un grido, in una istanza corale, in una imperiosa necessità; divenuta il grido e la volontà di una società imbestialita contro il Cristo degli Altari, che deve essere scacciato. Significativo al riguardo è soprattutto il viso arrabbiato e scomposto della donna, l'ultima in ordine di ripresa, che grida "via i crocifissi" e la cui presenza - si noti bene - è assolutamente ingiustificata, non facendo parte dell'équipe.
Ma Pasolini non si contenta di ciò e fa profferire il grido, ormai divenuto blasfemo, persino da un cane lupo, inquadrandone il muso in primo piano e fornendogli la voce arrochita di un uomo.
Questa sequenza, che l'imputato ha callidamente spiegato con la necessità di fare una gag, di dar vita cioè a un breve intermezzo comico (il che però - rileva il Collegio - si verifica, ogni qualvolta il regista si accosta alle cose sacre), richiama subito, ripreso in guisa tale che la sua corsa diventa una comica fuga alla Ridolini, si fa due volta segno della croce davanti ad una edicola sacra.
Il gesto è fugace, ma lo spettatore attento ben nota queste sequenze, che di per sé non irriverenti, lo diventano per il modo come sono state riprese.
Anche esse ad avviso di Pasolini, sono delle gag; sta di fatto però che l'imputato ha sentito il bisogno di servirsi di intermezzi comici del film, solo quando ha trattato di cose e simboli sacri.
Ora l'aspetto ridicolo e irridente della situazione è questo: che a un cane si fa esprimere un pensiero umano diventa irriverente e blasfemo, e all'uomo, soltanto quando è ritratto come una marionetta, si fa compiere il segno della croce.
E' dunque di tutta evidenza che tali scene sono assolutamente estranee all'economia del racconto, come estranee ad esso, attese le finalità sbandierate dal prevenuto, sono tutte le sequenze sopra illustrate e commentate. La loro presenza trova però una giustificazione logica, non certo sul piano artistico, che sostanzialmente in esse difetta, ma su quello contenutistico del film, che dunque è e vuole essere un'aperta totalitaria grossolana derisione (solo apparentemente occasionale) della religione, nelle sue fondamentali credenze, nei suoi mistici riti, nella sua essenza.
A questo punto non resta al Collegio che accertare la ricorrenza o meno, attesa la ritenuta materialità del vilipendio, dell'elemento morale del reato, in relazione all'atteggiamento psichico dell'agente. Ora, è noto che la più autorevole dottrina e la giurisprudenza del supremo Collegio, non richiedono per la sussistenza del delitto il dolo specifico, necessario e bastevole essendo la volontà cosciente del fatto, la volontà cioè dell'azione rivolta alla produzione dell'evento lesivo, con la piena consapevolezza della idoneità della condotta a produrre tale risultato.
(Cass. sez. III 5 novembre 1959, Cavallaro)
Nel caso di specie, pertanto, anche se si volesse escludere nel Pasolini il fine specifico di vilipendere la religione, devesi riconoscere per quanto fin qui esposto che egli ha avuto piena consapevolezza dell'offesa che alla religione derivava dagli atti di vilipendio deliberatemente commessi.
Già si e' accennato ai dedotti fini leciti e legittimi cui l'opera cinematografica si sarebbe ispirata; o il fine di cosentire al sottoproletariato nel tempo in cui la storia lo sta cancellando, di far testimonianza di sé, o quella di mettere in risalto l'empietà dei cineasti per trattare argomenti degni dalla massima pieta' e rispetto; o quello di denunciare, con la volgarità ironica, cinica, ridanciana nel mondo contemporaneo, la sua intima fondamentale incredulità verso una religione, che avrebbe fatto il suo tempo e che per sopravvivere dovrebbe adeguarsi alle nuove esigenze dell'uomo.
Tutti questi fini cui la condotta di Pasolini si sarebbe ispirata, escluderebbero a parere della difesa ed eliderebbero quello di vilipendere la religione cattolica.
Ora, il collegio non nega che specie nei delitti di vilipendio, gli atti, le parole, i gesti di per sé soli possono anche non rivestire il carattere vilipendioso seppur obiettivamente abbiamo "valenza" ad offendere, occorrendo la volontà oltraggiosa che dà calore e vita e significato alle parole, ai gesti, alle immagini.
E' esatto pertanto sostenere che la volontà' vilipendiosa del delitto ex art. 402 C. P, si pone come una particolare intenzionalità di circondare di scherno, di ridicolo, di disprezzo il bene prodotto. Questa particolare intenzionalità se è elemento essenziale e costitutivo del delitto e se assegna un ruolo decisivo sull'elemento psicologico del reato, non è però tale da fargli assumere qualifica diversa dal dolo generico, giacché, voluta la condotta vilipendiosa, si integra necessariamente anche l'elemento soggettivo del reato.
Ma nel caso di specie, l'intenzione di Pasolini di deridere e schernire la religione cattolica, che appunto conferisce alle parole, ai gesti, alle situazioni, alle musiche di una o più sequenze cinematografiche carattere vilipendioso, appare manifesta nelle varie scene sopra illustrate nel film incriminato, proprio avuto riguarda al tempo e alla modalità con cui determinate musiche sono state impiegate, alle situazioni in cui alcune scene sono state inquadrate, alla qualità dei destinatari di determinare espressioni ingiuriose, alla tecnica e ai toni con cui determinati fatti sono stati narrati e determinate persone sono state fatte agire e parlare.
Del resto si è detto ampiamente sopra.
Ritenuta quindi in Pasolini la manifesta intenzione di vilipendere, è del tutto irrilevante andare alla ricerca e all'analisi dei moventi (motivi e fini) della sua condotta, che restano del tutto ad di fuori della fattispecie di cui alla norma penale, e che anche se leciti, non possono discriminare l'azione vilipendiosa dell'imputato.
Ma da quanto fin qui esposto devesi pure escludere che Pasolini abbia esercitato il diritto di critica della religione. Si noti bene, Pasolini ha sempre negato di aver voluto fare della polemica religiosa e quindi di aver voluto criticare la religione; mentre è fuori dubbio, ad avviso del Collegio, che tutta la pellicola è articolata sul fenomeno religioso, considerato anche nel suo aspetto sociale, è principio pacifico che le eventuali cause di giustificazione dispiegano la loro efficacia scriminante, oggettivamente e quindi non possono restare precluse da un particolare scopo o motivo di offendere il bene tutelato.
Ora, non ignora in Collegio che le impugnative, motivate o non, di un valore e anche polemici rilievi di disconoscimento di merito dell'ente non costituiscono vilipendio, giacché chi pone seriamente in discussione un valore, non può avere l'intenzionalità di dileggiarlo, di schernirlo, di deriderlo.
Infatti, anche a proposito della religione cattolica è consentito dal nostro ordinamento giuridico la libera discussione e quindi la critica (naturale filiazione del diritto di opinione) e la censura e il biasimo anche se aspri e vivaci (art. 21 della Costituzione; art. 5 legge 24.6.29, n. 1159), sul presupposto appunto della libertà di culto (art. 1 c pav. Legge citata) e quindi della piena libertà di coscienza.
Ma nel film in esame, come si è visto, non c'è dibattito di idee, antitesi motivata di valori. C'è semplicemente una continua inopinata, gratuita messa in ridicolo di simboli e di soggetti sacri, costituenti l'intima essenza della religione, ai quali - ripetesi - l'imputato, con la sua opera, si accosta sempre con animo dispregevole e irriverente.
E il dileggio è istintivo, immediato, plateale soltanto all'apparenza superficiale, ma proprio perciò ancora più subdolamente efficace in quanto recepibbile con facilità dagli spettatori meno evoluti e provveduti, portati agevolmente a schernire a irridere alle cose sacre della religione, volutamente immiserite.
Ora, questo atteggiamento di scherno e di disprezzo che Pasolini ostenta verso la religione cattolica, dileggiandola nella sua divinità e nei suoi simboli che in sostanza vale a negare alla stessa la ragione di valore e di pregio riconosciutole invece nel corso dei secoli dalla comunità, esclude che egli abbia legittimamente esercitato il diritto di opinione e di critica. Questa infatti non costituisce vilipendio, coma ha ribadito il Supremo Collegio, quando, alimentandosi onestamente di dati o di rilievi già in precedenza raccolti ed enunciati, si traduca nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e anche antitetico, risultante da una indagine condotta con serietà di metodo, da persone fornite delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione.
Devesi dunque concludere osservando che il vilipendio di cui si fa carico Pasolini non può assurgere a dignità di libera manifestazione del pensiero, ma è una sua degenerazione, deviando da quella che è l'esposizione di un'opinione o di una tesi per divenire gratuita derisione, estranea pertanto alla sfera che in regime di libertà democratiche, è consentito discutere, criticare e magari combattere con la propaganda, ma mai schernire, deridere, oltraggiare.
Atteso il mezzo impiegato da Pasolini per l'attuazione della sua condotta criminosa, sussiste nella specie anche la richiesta condizione obiettiva di punibilità della pubblicità; va dunque affermata la penale responsabilità dell'imputato in ordine al delitto ascrittogli.
Tenendo presenti le circostanze di cui all'art. 133 CP ritiene il Collegio pena congrua alla gravità del fatto delittuoso, quella di mesi quattro di reclusione cui si perviene riducendo di un terzo la pena base, per effetto delle circostanze attenuanti generiche.
Queste, come altresì il beneficio della sospensione condizionale della esecuzione della pena inflitta, ritiene il Collegio di poter concedere al prevenuto, in considerazione del suo attuale stato di incesuratezza, quale risulta dal certificato penale, e giacché nutresi fondata fiducia che Pier Paolo Pasolini si asterrà nel futuro dal commettere ulteriori reati.
Quanto precede, avuto riguardo alla spiccata personalità dell'imputato come scrittore e come uomo di cultura, che più degli altri è in grado di comprendere il valore, il significato, la gravità delle proprie azioni e che certamente da questa condanna trarrà per il futuro, utile e meditato insegnamento e quindi sprone a bene operare nella società in cui vive e agisce, ispirando la propria condotta, nei confronti del patrimonio ideologico e religioso della maggioranza degli italiani a quello stesso profondo rispetto di cui meritano di essere circondate le sue opere; quali libere espressioni del pensiero umano, sempreché siano articolate nell'ambito del diritto della legge.
L'imputato è tenuto altresì al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M
IL TRIBUNALE

Visti gli art. 483 - 487 - 488 C.P.P. dichiara Pasolini Pier Paolo colpevole del delitto ascrittogli e con le attenuanti generiche lo condanna alla pena di mesi quattro di reclusione e al pagamento delle spese processuali.

Ordina sospendersi l'esecuzione della pena inflitta per anni cinque alle condizioni di legge.


Seguono firme.



E' copia conforme al suo originale per uso ufficio.

Roma, lì 24/6/1963.


Il cancelliere




Richiesta del produttore
di dissequestro
parziale dell'episodio
La ricotta

. 22 Aprile - 1 giugno 1963
On.le TRIBUNALE DI ROMA
Sez. IV Penale


Io sottoscritto Dott. ALFREDO BINI, dom.to in Roma, via Paraguay n.2, espongo quanto segue:

La Procura della Repubblica di Roma disponeva, in relazione alla imputazione elevata nei confronti di Pier Paolo Pasolini per il reato di vilipendio alla religione, il sequestro del film La Ricotta episodio dell'opera RoGoPaG della quale sono il produttore.

Detto sequestro, richiesto da fini di giustizia, ha naturalmente impedito la programmazione del film stesso nella sua completezza, non essendo possibile né dal punto di vista legale né da quello artistico e commerciale metterlo in circolazione mutilato di uno dei suoi essenziali elementi.

Il danno subito dalla produzione é gravissimo.

Dopo la definizione del processo di primo grado, ritengo che sia possibile a codesto tribunale contemperare le esigenze della giustizia con l'interesse della produzione.

La sentenza del tribunale riconosce che in effetti la trama del film ha un contenuto sociale e umano legittimo e apprezzabile.

Tuttavia la sentenza stessa riscontra in talune sequenze gli estremi del reato di vilipendio, graduandone l'importanza.

Mi sono preoccupato per rendere possibile la programmazione dell'opera sequestrata, di eliminare dall'opera stessa quelle parti nelle quali in modo più significativo ed essenziale si è riscontrato da parte del Collegio il reato contestato a Pasolini.

Tali modifiche che si riferiscono sia alle immagini che al dialogo mi fanno sperare che il tribunale possa disporre la programmazione del film stesso, integrata nella versione attuale che il tribunale potrà visionare prima di emettere il provvedimento da me invocato.

Le variazioni apportate a mio avviso sono tali da eliminare le sequenze sulle quali la sentenza si è maggiormente soffermata, svuotando di ogni significato offensivo le residue.

Il Tribunale, per quanto potrà occorrere ai fini della procedura, manterrà il sequestro delle copie che attualmente costituisce corpo di reato.


Roma, 22 aprile 1963

Dott. Alfredo Bini

Depositata dal cancelliere
Roma lì 23/4/1963
Firmato il Cancelliere



Tagli e rifacimenti
al film La ricotta

.
ORIGINALE
Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di fare credere che l'oggetto della mia polemica sono quella Storia e quei Testi di cui essi ipocritamente si ritengono difensori. Niente affatto, a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e i Testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti.
Pier Paolo Pasolini

REVISIONE
Non è difficile prevedere per questo mio racconto dei giudizi interessati, ambigui, scandalizzati.
Ebbene io voglio qui dichiarare che, comunque si prenda La ricotta, la storia della Passione - che indirettamente La ricotta rievoca - è per me la più grande che sia mai accaduta, e i testi che la raccontano, i più sublimi che siano mai stati scritti.
Pier Paolo Pasolini
*
ORIGINALE
AIUTO REGISTA
A posto a posto, sbrigarsi. Siamo pronti.
Il disco, no, non quello idioti, incoscienti, ogni volta così cambiate il disco. Ahi idioti maledetti, il disco, il disco. Scarlatti.

REVISIONE
A posto, sbrigarsi. Siamo pronti. Il disco, no no quello, siete peggio di quelli che giocavano ai dadi ai piedi della croce. Ahi, pubblicani, blasfemi, il disco, il disco. Scarlatti.
*
ORIGINALE
AIUTO REGISTA
Via i crocefissi

REVISIONE
Fare l'altra scena
*
ORIGINALE
AIUTO REGISTA
Il disco mettete il disco... Ah... no no no non quello Gluck, non quello...

REVISIONE
Il disco mettete il disco... Ah... no no quello giocatore di dadi. Gluck no quello...
*
ORIGINALE
AIUTO REGISTA
Cornuti cornuti cornuti cornuti cornuti cornuti vi spacco l'ombrello sulla testa. Anche cadere adesso. Zozzi.

REVISIONE
Che peccato che peccato che peccato che peccato che peccato. Vi spacco l'ombrello sulla testa anche cadere adesso. Non avete proprio nessun rispetto, blasfemi.
*
ORIGINALE
REGISTA
Povero Stracci crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione

REVISIONE
Povero Stracci! Crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo.
*

Sono stati riportati i seguenti tagli:
1° Rullo - Taglio bivacco sulle croci Mt 7 e 11 Ftm
3° Rullo - Taglio spogliarello Mt 2 e 20 Ftm
4° Rullo - Taglio "ECCOLO ER TU PADRE" Mt 4 e 42 Ftm.
Sostituito Cristo che ride con altro personaggio che ride. "Rutto" dell'operaio.

Tribunale penale di Roma - Sez. IV




On.le Collegio,

Io sottoscritto ALFREDO BINI, quale legale rappresentante della Soc. ARCO film, in relazione e a chiarimento dell'istanza di restituzione proposta al tribunale, preso atto del parere espresso dal P.M, osservo:
La mia domanda non è diretta a chiedere che il Tribunale mi autorizzi a programmare l'episodio La ricotta del film ROGOPAG.
Evidentemente il PM quando parla di difetto di giurisdizione considera la mia richiesta sotto tale profilo.
Ho rivolto e rivolgo al tribunale una domanda il cui oggetto non esula certo dalla giurisdizione del Tribunale: la restituzione di quella parte del film che non può essere considerato corpo del reato.
Infatti non può sfuggire al tribunale che il sequestro disposto dal P.M. aveva lo scopo di fornire al Tribunale la prova del contestato reato. Questo tuttavia, pur nell'affermazione di responsabilità, non investe l'opera nel suo insieme, ma è limitato a talune sequenze. Queste soltanto, quindi, possono essere considerate corpo del reato.
Il film, dunque, eliminate quelle scene, non può non essere restituito a me che ne sono proprietario, per di più estraneo al reato.
Deve essere altresì valutato a favore della mia istanza il fatto che la parte del film della quale io chiedo la restituzione, non concretando alcuna ipotesi delittuosa non può né deve essere mantenuta in giudiziale sequestro perché non suscettibile nemmeno, ad esito sfavorevole del processo, di un provvedimento di confisca.
Debbo ricordare al Tribunale che la Magistratura ha risolto in senso conforme alla mia richiesta più di un caso del genere (Io amo, tu ami - Rocco e i suoi fratelli - Labbra rosse).
Per queste pellicole infatti l'autorità giudiziaria dopo averne disposto il sequestro, accertata la soppressione delle scene incriminate, ha restituito la pellicola.
La successiva programmazione presuppone naturalmente l'adempimento delle norme che in sede amministrativa regolano la materia ed ovviamente è suscettibile di eventuali ulteriori azioni giudiziarie ove se ne riscontrassero gli estremi.
La singolare natura del corpo del reato consente al tribunale di disporre la restituzione, senza privarsi della copia integrale già in possesso dell'Autorità Giudiziaria.
Ai fini del provvedimento il Tribunale, previa visione del film modificato, potrà disporne la restituzione stabilendo che i fotogrammi soppressi siano eliminati da tutte le copie in circolazione.

Roma, 7 maggio 1963
Alfredo Bini

Depositata in cancelleria
Roma lì 8/5/1963
Firmato il cancelliere


Al PM (Sost. Di Gennaro) per il parere in merito alla nuova istanza
Firmato Il Presidente


PARERE DEL PM
Il PM letta l'istanza del dott. Alfredo Bini con la quale si chiede che il Tribunale disponga la programmazione dell'episodio La ricotta del film "ROGOPAG" previa modificazione di alcune sequenze

Omissis

il sequestro delle pellicole dell'episodio La ricotta è stato a suo tempo disposto dal PM perché trattasi di "cose pertinenti al reato di vilipendio della religione". Il provvedimento di sequestro deve rimanere operante fino a che non si provvederà, all'esito del giudizio, alla confisca e alla restituzione.
Il tribunale non ha poteri in ordine a quanto richiesto che esula dall'ambito della giurisdizione.
Si è del parere, pertanto, che l'istanza debba essere dichiarata inammissibile.

Roma 30/5/1963

Sost. Procuratore Repubblica
Firmato Dott. Giuseppe Di Gennaro

Tribunale di Roma
SEZIONE IV PENALE

IL TRIBUNALE

Letta l'istanza con cui Alfredo Bini, produttore del film "ROGOPAG" ha chiesto il dissequestro parziale della pellicola La ricotta, costituente uno dei quattro episodi del film di cui sopra:

visto il parere contrario del PM;

rilevato che Pasolini Pier Paolo, soggettista e regista di quell'episodio, è stato con sentenza di questo Tribunale del 7/3/1963 condannato alla pena di mesi quattro di reclusione in ordine al delitto di vilipendio alla religione cattolica (art. 402 C.P.), commesso a mezzo del film da lui appunto ideato e diretto:

rilevato che avverso a tale sentenza è stato proposto tempestivo gravame;

ritenuto che a parte il contenuto della impugnata sentenza, per quanto concerne l'entità vilipendiosa della pellicola, non sembra che questo Tribunale, in pendenza del giudizio in appello, sia competente a decidere sull'istanza, o comunque a provvedere in genere sul corpo di reato (restituzione o confisca), né come organo giudicante, essendosi spogliato del processo con la sentenza, né come giudice della esecuzione, non essendo questa passata in giudicato;

ritenuto pertanto che la domanda, in ordine alla quale potrà eventualmente pronunciarsi il giudice di appello, competente a decidere nel merito del processo, va allo stato respinta

P.Q.M

rigetta l'istanza presentata da Bini Alfredo
Roma lì 1/6/1963



Il ricorso in Appello
della difesa
30 maggio 1963

Corte di appello di Roma

MOTIVI dell'appello interposto dal sig. PIER PAOLO PASOLINI contro la sentenza pronunziata il 7/3/1963 dal Tribunale di Roma (sezione IV Penale) che lo dichiarò colpevole del reato di cui all'art. 402 C.P. condannandolo alla pena di mesi quattro di reclusione, in concorso delle circostanze attenuanti generiche.

I

Un film, come ogni opera d'arte, deve essere osservato col metro che la cultura appresta all'interpretazione evitando di isolare dal contesto intero dell'opera particolari sequenze o brani di dialogo che, rescisso ogni rapporto col dramma, possono suggerire considerazioni aliene dallo spirito del dramma medesimo e da questo stesso.

La prima osservazione, dunque che si deve fare a proposito della sentenza impugnata è che essa anziché considerare il film nella sua interezza ne ha enucleato alcune sequenze e le ha considerate come a sé stanti.

Questo modo di impostare e di risolvere il problema giudiziario costituito dall'accusa mossa al Pasolini si manifesta anche nella contraddittorietà che si coglie nella sentenza. La quale, infatti, presenta tutta una prima parte in cui la ricostruzione della storia narrata dal film e dello spirito che la sostiene è svolta in maniera aderente alla realtà, mentre nella seconda parte si procede indipendentemente dalle premesse e si perviene a conclusioni le quali contrastano con la prima.

La sentenza, infatti, dopo aver osservato che "questa, per sommi capi, la trama del film che di per sé non appare vilipendiosa della religione cattolica, cui del resto è estranea, pur se è dato cogliere un significato vagamente religioso della morte del protagonista, il quale con le sue sofferenze induce facilmente a pensare alla morte di Cristo, pure condannato da una società ottusa e sorda ad una fine ignominiosa", afferma che "nulla dunque, è da osservare e da eccepire nella trama del film e in definitiva sul significato del messaggio sociale in esso contenuto, così come lo ha inteso profilare e materializzare Pasolini dando vita al suo personaggio protestatario".

In un secondo momento, poi, afferma che: "allo spettatore non sfugge, davvero, la mistica sacralità delle scene che inquadrano Stracci che mangia, i suoi familiari che mangiano, Stracci che è alla ricerca disperata di cibo: mistica della fame, del bisogno, accentuata da una particolare musica sacra (il Dies Irae), mistica mai dileggiata, mai derisa, mai ridicolizzata, come purtroppo accadrà invece ogni qual volta che il regista tratterà le parti veramente sacre del film, ogni qual volta egli si accosterà a Cristo e ai personaggi della tradizione cristiana".

E' in questa linea di partizione tra il "sacro" di Stracci e le parti "veramente sacre" che la sentenza continuerà ad esporre le considerazioni critiche dalle quali deriva la conclusione della affermazione di colpevolezza.

Ma proprio su questa linea si appunta la prima doglianza che muoviamo.

Questa linea, infatti, scinde l'opera e la frazione snaturandone per ciò stesso il contenuto e significato, mentre non tiene conto della realtà obiettiva della narrazione cinematografica nella quale appare chiarissimo che colui che tratta i soggetti sacri non è Pasolini ma il regista della finzione, il regista cioè dell'opera sulla Passione.

La sentenza, cioè, non ha considerato che il film offre per tutta la sua durata, in parallelo, due modi di accostarsi ai drammi sacri: quello delle comparse e del regista della finzione e quello proprio di Pasolini. Proprio l'illustrazione della viltà dei primi col porre in evidenza la riprovazione dell'autore della Ricotta, suscita sdegno nello spettatore.

Ci pare, dunque, di poter affermare che quando la sentenza formula il quesito a chi le sconvenienze dovessero attribuirsi e pone a base della propria scelta l'argomento fallace della evidenza, trascura in realtà l'indagine prima di vedere, cioè, in quale dei due campi le sconvenienze erano rappresentate: se, cioè, nel campo di Orson Welles o se in quello del Pasolini.

Vogliamo dire con ciò che l'affermazione della sentenza secondo cui in questa o in quella scena i vari attori concorrenti a rappresentare la nobiltà delle rappresentazioni sacre terrebbero, con parole, gesti o musiche od esclamazioni, un contegno plebeo contraddicente o disdicevole alla elevatezza artistica del compito ad essi spettante nel concetto dell'autore del film sacro, si sarebbe potuta esprimere solo nel caso in cui gli attori medesimi nell'atto di comporsi a formare e realizzare i quadri sacri avessero recato nel campo dell'obiettivo della macchina da ripresa la variante, ad esempio, di un Cristo con la pipa in bocca (come sarebbe potuto avvenire nella composizione dei quadri del Pontormo e del Rosso Fiorentino).

Queste considerazioni di ordine generale ci esimerebbero dal riferirci alla casistica dettagliata delle sequenze sulle quali il Tribunale si è soffermato in modo particolare, tuttavia per ragioni di completezza, riteniamo utile far capo a qualcuna di queste.

Così è evidente che non è Cristo che sbotta a ridere, ma il meschino attore che lo interpreta, anzi il meschino attore che interpreta vilmente il Cristo profanamente raffigurato dal Pontormo, mentre "i vari bivacchi delle comparse - come rileva la sentenza - durante le pause di lavoro, sulle croci poggiate a terra; che, pur pezzi di legno, strumenti di lavoro, rimangono tuttavia sacre espressioni della religione destinate di lì a poco a far rivivere la Passione e Morte di Cristo" non sono che atteggiamenti di cialtroneria picara della troupe in ozio.

Così, anche, il grido di "via i crocefissi" non è un motivo insieme a tutti gli altri simili ("la corona", "portate su le croci", "il ladrone buono" ecc.), non sono che motivi ricorrenti usualmente sui set che - nel caso di specie - sottolineano quasi musicalmente i passaggi o risvolti dell'azione con effetti che volevano essere semplicemente o innocentemente comici, di una comicità di stile charlottiano.

Motivo di comicità che si ripresenta nella scena dello Stracci che corre verso la ricotta e ne ritorna, sempre con ritmo charlottiano determinato dalla necessità di descrivere le ansietà di estinguere la fame, interrotto però due volte, da un'indiscutibile manifestazione di religiosità offerta da quel personaggio candido e umile che si segna nel passare davanti ad una icona.

In ogni momento c'è qualcosa che ricorda la finzione: quando si inchiodano le croci, ed una comparsa avverte per burla: "mo' ti inchiodo davvero", quando alla minaccia: "ti scomunico" corrisponde una risata, quando alla corona evocata sul set col tono ambiguo dell'ironia popolare romanesca segue la sequenza in cui la corona appare sola, e solenne sullo sfondo di Roma: quando le musiche si scompongono e si ricompongono in concomitanza con lo scomporsi o il comporsi delle comparse che impersonano quella della fantasia dei due pittori; quando le tre croci spariscono all'inzio della striptease.

Lo "stacco", d'altra parte, tra la finzione e la verità del regista più che da questi fatta o da quelle immagini nasce dalla polemica che il regista medesimo sostiene con coloro che respingono la validità della tradizione religiosa.

II

Non indugiamo in questa analisi, per il timore di cadere anche noi nell'errore di far opera che nella sua frammentarietà sminuirebbe la interezza del film e del racconto contenuto in esso, che ha un fine particolare che la sentenza riconosce allorché afferma "La Ricotta è, dunque, la storia di Stracci, un uomo disgraziato, indifeso, abbandonato a se stesso, ma fondamentalmente buono e generoso, che è costretto a lavorare anche quando è malato; che cede il cibo datogli da chi lo ha precariamente ingaggiato come comparsa, alla sua numerosa povera famiglia; che sopporta il duro lavoro sotto i morsi feroci della fame della quale mai è riuscito a riscattarsi e se un espediente escogitato e attuato fra una pausa e l'altra di lavoro, gli consente di disporre di mille lire, egli non esiterà ad impiegarle interamente nell'acquisto di ricotta".

Se, dunque, la Ricotta è la storia di Stracci, della sua umanità sventurata, non vi è possibilità di scorgere nel film una chiamata in causa della religione. Tanto è vero che i primi giudici stessi riconoscono che "può convenirsi con Pasolini quando egli afferma che la parte religiosa del film fa da cornice all'opera".

Vogliamo rilevare, a questo punto, che ogni qual volta la sentenza si pone il problema se possa "seriamente attendersi la giustificazione per quanto concerne le musiche, che trattasi di incresciosi ma non voluti errori di esecuzione, per quanto concerne la sguaiata risata del Cristo, che non questi ma la comparsa che lo interpreta intende irridere ai suoi compagni di lavoro, ecc.", opera una scelta che risulta, però, sempre immotivata, basata soltanto cioè su una pura affermazione o su una conclusione non preceduta da alcuna richiesta
.
Eccone un esempio: "invero, con il ripetuto oltraggio della musica, con la risata sguaiata del Cristo-comparsa, con gli insulti rivolti ai personaggi sacri della Passione del Pontormo, è in realtà il Cristo degli Altari, il Cristo della tradizione a essere dileggiato, schernito, deriso".

Eccone un altro: "la religiosità che Pasolini connatura al personaggio è, dunque, una religiosità che rispetto alla entità cui è stata volutamente contrapposta è in verità chiaramente antireligiosa, in quanto concretatasi in azioni vilipendiose del bene tutelato al quale si pone col suo racconto in antitesi". Laddove, a proposito del primo esempio, si può rilevare che non vi è una iconografia religiosa ufficiale e che né religione o spirito religioso si compendiano nelle immagini di maniera da chiunque disegnate; mentre a proposito del secondo esempio si può rilevare che non vi è nel film contrapposizione antitetica fra la religione di Stracci e religione del Cristo, ma solo empietà delle comparse e religiosità evangelica di Stracci.

Ma la sentenza non solo opera questa scelta immotivatamente, quando anche, nel commentare le singole scene criticamente, perde di vista, l'essenza dell'obiettivo del film che era quello di indicare e fustigare l'assenza di umanità di cui è impregnato il mondo cinematografico, solo preoccupato di realizzare incassi colossali ed insensibile, invece, fino alla empietà, anche nelle opere di argomento religioso.

La sentenza non considera a questo proposito che far ciò era indispensabile che il regista descrivesse - in una parte che fa da cornice al film - gli atteggiamenti disdicevoli del regista e degli interpreti del film sacro.

Cio tanto più, in quanto la sentenza riconosce che "l'attenzione dello spettatore è polarizzata sul personaggio principale dell'episodio, rappresentato da un certa Stracci, povero, misero individuo che nel film è destinato formalmente a impersonare il buon ladrone e che nella vita reale costituisce il simbolo cristallino di quel sottoproletariato senza mezzi e senza educazione che la società costringe ai margini del vivere civile e lo stato non aiuta e non tutela; di quel sottoproletariato, cioè, che campa alla giornata, è totalmente privo di mezzi necessari per la propria elevazione fisica e spirituale e che lavora, suo malgrado, solo quando sporadicamente ne ha l'occasione".

E riconosce altresì che "tale religiosità il regista ha evidenziato quando mano a mano, sequenza per sequenza, ha innalzato Stracci, che pur nel film doveva impersonare il buon ladrone, alla dignità di Cristo terreno, dell'uomo simbolo che, morendo in croce dileggiato e deriso, soltanto nella morte trova il mezzo di dimostrare la propria esistenza".

Queste ultime considerazioni e ciò che diremo in seguito muovono la nostra lagnanza relativa al problema del dolo, secondo noi trascurato completamente nella sentenza.

Questa non si è resa conto della contraddizione insita nell'accusa formulata a carico di Pasolini: da un lato, il riconoscimento giuridico che nell'opera incriminata non si offendono persone o cose della religione cattolica; dall'altra l'accusa o almeno una delle accuse che si dileggiano, tenendoli per vili, simboli e persone della religione cattolica.

Questa contraddizione era ed è sintomatica di una incertezza di concetti su cui si confondono persone con personaggi, dogmi, sacramenti e riti con le rappresentazioni pittoriche prese a modello da alcuni dei molti dipinti ispirati a figure e fatti delle sacre storie.

Ciò che, unitamente alla caratteristica che il reato di vilipendio riveste nel caso in specie come fatto di coscienza, di cultura e di arte, rendeva necessario un esame approfondito del dolo, della manifestazione inequivoca cioè di coscienza e di volontà dirette a produrre l'evento.

Recensioni numerose avevano seguito immediatamente la programmazione del film, in nessuna delle quali vi erano accenni che potessero far supporre che il film stesso avesse destato non diciamo "certezze" ma "supposizioni" di elementi vilipendiosi della religione.

Sono in atti le copie fotostatiche dei maggiori quotidiani nazionali, compresa la stampa più propriamente qualificata per una valutazione dell'opera sul piano del rispetto verso la religione cattolica, mentre è in atti anche la qualifica che il Centro Cattolico Cinematografico assegnò al film, nella quale ogni ipotesi persino di irriverenza nei confronti della religione è esclusa espressamente. Non vogliamo dire, con ciò, che questi pareri dovessero condizionare il giudizio del Tribunale, ma soltanto che essi dovevano essere tenuti presenti e discussi, non fosse altro che come manifestazione di "intelligenze critiche" da parte di persone versate in modo particolare nella valutazione delle opere d'ingegno.

D'altra parte, il mondo di Pasolini, poeta, scrittore, critico, filologo, regista, non poteva non costituire uno degli elementi-base da valutare in relazione a quella coscienza ed a quella volontà di cui abbiamo fatto cenno.

III

Una delle tesi affacciate dalla difesa era relativa al problema se il film, a considerarlo secondo le tesi accusatorie, fosse trasceso davvero da un contenuto genericamente blasfemo a quello sempre generico ma di grado superiore del vilipendio.

Nessun accenno vi è nella sentenza a questo problema, né all'altro relativo all'evento diverso da quello voluto dall'agente mentre appare esagerata la pena comminata in relazione alla "fondata fiducia" che la sentenza nutre nella certezza che Pasolini "si asterra' nel futuro dal commettere ulteriori reati" ed alla considerazione che comunque sia non è negabile che questo problema giudiziario si presenta in termini di cultura e poesia, insomma, di arte e libertà.

IV

Si sottopone alla Corte l'esame della necessità di accogliere la richiesta di rinnovazione almeno parziale del dibattimento, al fine di esibire ulteriori pareri critici sul film e di dar modo a persone particolarmente qualificate, quali tra gli altri, Don Francesco Angelicchio del Centro Cattolico Cinematografico e Padre Grasso, professore di teologia nell'Università Gregoriana di esprimere il loro pensiero in proposito e soprattutto sui sentimenti di religiosità che animano il regista e sui motivi che hanno indotto i padri francescani di Assisi a commettere al Pasolini la regia di un film dal titolo Il Vangelo secondo S. Matteo".

Roma 30 maggio 1963

Avv. Ferdinando Giovannini - Firmato
Avv. Giuseppe Berlingieri - Firmato

Depositata in cancelleria
Roma lì 30/5/1963
Il Cancelliere - Firmato



Verbale di dibattimento
in Appello
6 maggio 1964

N. 1534/63 Reg- Appelli
Corte di appello di Roma
I SEZIONE PENALE
PROCESSO VERBALE DI DIBATTIMENTO
(art. 518, 521 Cod. proc. pen.)

Il 6 maggio 1964 nella sede dell'Istituto Luce ad ore 9.

La Corte d'Appello di Roma sezione I Appelli penali, composta dai signori:

Mazza Dott. Felice - Presidente, Schifalacqua Dott. Giuseppe - Trecapelli Dott. Andrea, Lener Dott. Raffaele, De Biase Dott. Federico, Consiglieri.

Coll'intervento del Pubblico Ministero Generale Battiati Dott. Giuseppe coll'assistenza del Cancelliere Russo Antonio.

Si è radunata nella sala della pubbliche udienze aperta al pubblico per procedere alla discussione della causa

A CARICO DI

Pasolini Pier Paolo, libero contumace

SULL'APPELLO

proposto da come in atti

Per ordine del Presidente, l'Ufficiale giudiziario di servizio dichiara aperta l'udienza.

Chiamata la causa è contumace l'imputato, assistito dal difensore di fiducia Avv.to Berlingieri Giuseppe.

Si dà atto che a seguito dell'ordinanza di cui alla precedente udienza al Corte si è trasferita nella sede dell'Istituto Luce ove si è presentato l'agente di P.S. del commissariato di Campo Marzio che ha esibito la pellicola in sequestro, per cui è processo.

Dopo di che a mezzo di un operatore dell'Istituto Luce è stata girata la pellicola medesima e la Corte ne ha preso visione.
Quindi alle ore 10,30 la Corte ha fatto ritorno al Palazzo di Giustizia, nella sua sede, per il prosieguo del Processo.

Nell'aula della I sezione penale, avanti la stessa Corte alle ore 11, sono presenti gli Avv.ti Berlingeri, difensori di fiducia dell'imputato. Pasolini non è presente.

Quindi il consigliere Lener Dott. Raffaele fa la relazione del procedimento e dei fatti che lo hanno determinato.

L'avv.to Berlingieri presenta una lettera del Padre Grasso della Pontificia Università Gregoriana ed il giornale "Corriere della Sera" in data 22/3/1963 ove è riportato un articolo sul film "ROGOPAG" datato Londra 21/3 notte.

Il P.G. chiede che sia confermata l'appellata sentenza.

Dopo di che il presidente dà per primo la parola all'avv.to Berlingieri il quale chiede che siano accolti i motivi di appello.

Assoluzione con formula piena.

L'avv.to Giovannini chiede che siano accolti i motivi d'appello.




Memoria presentata
dalla difesa in Appello
20 aprile 1964
Corte di appello di Roma
SEZ. I


Memoria

per PIER PAOLO PASOLINI (udienza 28 aprile 1964)

I

La pellicola di Pasolini ci descrive la lavorazione di un film sulla Passione di Cristo.
La boria del regista, la cameratesca sguaiataggine e bruta incoscienza degli attori e comparse di quel film in lavorazione fanno contrasto con la santità del tema.
Il Pasolini ammonisce la superbia del regista e il materialismo della troupe con lo scatenare sulla scena un tonante Dies Irae.
Contemporaneamente, il Pasolini centra un personaggio che per essere nella vita persona umile tanto da serenamente accettare la derisione dei compagni di scena, altruista tanto da cedere il proprio cestino alla affamata famiglia, generoso tanto da perdonare il cagnolino che gli ha rubato il cibo, timorato tanto da segnarsi dinanzi alle immagini sacre, è l'unico degno di accostarsi con questa sua ingenua e primitiva umanità all'oggetto di quel film in lavorazione, e fa di lui il protagonista della propria pellicola.
Contemporaneamente ancora, riscatta la vanagloriosa anima dell'immaginato regista della Passione coll'attribuirgli la paternità di sacre scene di mirabile effetto, in cui domina una religiosa umiltà, quale solo poteva raggiungere un artista capace di attingere ispirazione a pure sorgenti come la primordiale poesia di Jacopone da Todi, e le oneste pitture del Pontormo e di un Rosso Fiorentino.

II

Dov'è, dunque, una volontà di vilipendere?
La sentenza, che pur dà atto al Pasolini di avere creato scene sacre di assoluta bellezza, ritiene di rinvenire la prova di una volontà di vilipendere nella rappresentazione che il Pasolini stesso porge del comportamento triviale del regista degli attori e delle comparse durante la descritta ripresa della passione.
Consapevole, però, che elementi di vilipendio non possono rinvenirsi nella descrizione di un comportamento altrui se non a condizione che l'autore manifesti la volontà di approvarlo, essa afferma - per configurare il reato - che il Pasolini avrebbe artificiosamente creato quell'atmosfera di religiosità pura per meglio sfogarvi la propria derisione.

III

Senonché, la sentenza non si avvede che nell'opera di Pasolini vi è uno scontro fra il bene e il male e che lo spirito di bassa lega e la trivialità che egli fotografa da obiettivo cronista, appartengono soltanto ai personaggi "cattivi" che tutte posano a vile, mentre il protagonista di Pasolini, l'eroe, di Pasolini, è il tradizionale personaggio "buono".
Questi, infatti, domina la scena e conquista l'anima dello spettatore con la sua natura semplice e buona che passa indenne attraverso le prove cui è sottoposta.
Alla fine trionfa: coloro che avevano impersonato indifferenza, vanagloria e matta bestialità sono ridotti al silenzio della sua morte; negli attimi di sgomento che seguono tutti i presenti sul set, come in sala, sono tratti a riflettere i significati della Passione.
E' in questo momento di cristiano accostamento dell'umano al divino attraverso la morte di un misero, che le suggestive scene sacre poco innanzi realizzate da Pasolini manifestano la loro ragione d'essere nella trama del suo racconto.
Non si può affermare, dunque, senza cadere nella contraddizione e nell'arbitrio, che l'atmosfera di religiosità di quelle scene sacre fosse stato un maligno artificio.
Non sarebbe stato possibile, invero, di realizzare l'accostamento dell'umano al divino che la sentenza vede nel messaggio di Pasolini, senza la volontà di esaltare, e non di deridere, entrambi i valori.

IV

La volontà di Pasolini e lo scopo del suo film non era, dunque, di vilipendere, ma di esaltare il drammatico suggestivo contrasto.
Del resto l'intiera opera letteraria del Pasolini non è in chiave con l'interpretazione della sentenza, confermandone, così, l'errore.
E' notorio, infatti, che il Pasolini ha posto la propria indiscussa capacità artistica al servizio delle legittime aspirazioni sociali degli oppressi, appoggiando il proprio pensiero sullo spirito evangelico. L'interpretazione della sentenza è infine contraddetta dal comportamento di Pasolini nel processo, perché egli negò di aver commesso e di aver voluto commettere il delittuoso fatto imputatogli: la spregiudicatezza dell'opera e della vita del Pasolini rendono evidente che egli sarebbe stato pronto a bruciare sul rogo piuttosto che rinnegare il proprio pensiero e le proprie azioni.

Roma, 20 aprile 1964

Avv. Ferdinando Giovannini
Avv. Celso Tabet
Avv. Giuseppe Berlingieri


La sentenza di
assoluzione in Appello
6 maggio 1964

Dispositivo di sentenza
(art. 472, 473 C.p.p. - art. 27 Regolam. esec.
C.p.p. 28 maggio 1931, n. 603)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

alla pubblica udienza del 6 maggio 1964 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo seguente

SENTENZA

V. gli artt. 523, 479 C.p.p.;

In riforma della sentenza 7 marzo 1963 del Tribunale di Roma, appellata da Pasolini Pier Paolo, assolve lo stesso dal reato ascrittogli perché il fatto non costituisce reato.

Il Presidente


Udienza 6 maggio 1964
Corte di appello di Roma
SEZIONE I PENALE

N. 1534/63 Reg. Appelli N. 1059/64 Reg. ins. sent.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO SOVRANO

La prima sezione penale della Corte di Appello di Roma, composta dai signori;

MAZZA Dott. Giuseppe - Presidente, SCHIFALACQUA Dott. Giuseppe, TRECAPELLI Dott. Andrea, LENER Dott. Raffaele, DE BIASE Dott. Federico - Consiglieri.
con l'intervento del Pubblico Ministero rappresentato dal sostituto procuratore Generale della Repubblica Sig. BATTIATI Dott. Giuseppe e con l'assistenza del cancelliere Russo Antonio ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa penale a carico di:

PASOLINI Pier Paolo di Carlo e di Colussi Susanna, nato a Bologna il 5/3/1922, domiciliato in Roma, Via Giacinto Carini n. 45 - ora in Via Eufrate n.9 - EUR, libero contumace

appellante

contro la sentenza del Tribunale di Roma, in data 7/3/1963 con la quale il Pasolini fu dichiarato colpevole della imputazione di vilipendio della religione dello Stato (art. 402 C.P.) e, con la concessione delle attenuanti generiche, condannato alla pena di mesi 4 di reclusione. Pena sospesa per anni 5.
Reato commesso in Roma nel febbraio 1963.
Udita la relazione del consigliere LENER Dott. Raffaele, osserva:

IN DIRITTO E IN FATTO

Il 19/2/1963 del cinema Tor Lupara sito in Mentana di Roma venne proiettato per la prima volta in Italia, il film ROGOPAG, un episodio del quale, intitolato La Ricotta aveva per soggettista e regista Pasolini Pier Paolo.
L'episodio in questione si inizia con un appello scritto e letto dallo stesso autore del seguente tenore: "coloro che si sentiranno colpiti cercheranno di far credere che l'oggetto della mia polemica sono quella storia e quei testi di cui ipocritamente si ritengono difensori.
Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e i testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti".
La trama dell'episodio La Ricotta è la seguente:
Alla periferia di Roma si gira un film storico-biblico. Mentre il regista - Orson Welles - se ne sta sulla sua poltrona e impartisce gli ordini per la scena della crocifissione, un povero lavorante, che nel film ha il nome di Stracci, cerca, fra una pausa e l'altra della lavorazione, di mangiare la sua ricotta. Deriso da tutti, famelico, si riempie la pancia, altrochè della ricotta, che ha potuto acquistare, vendendo per mille lire il cagnetto di un'attrice, di tutto quello che gli altri gli danno. Crocifisso quale buon ladrone per la scena del Golgota, al momento dell'inizio dell'azione lo trovano morto.
L'episodio si chiude con il commento sul tragico fatto dal regista: "Povero Stracci, la sua morte è stata il suo modo di fare la rivoluzione".
Proiettatosi il film il 26 febbraio 1963 nel cinema Corso di Roma, dopo qualche giorno il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma promuoveva contro il Pasolini azione penale ai sensi dell'art. 402 C.P., e ordinava il sequestro della pellicola, ritenendo che l'autore, con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, avesse rappresentato alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale (twist e cha-cha-cha), la mimica (riso sguaiato del Cristo in risposta ai lamenti della Madonna); il dialogo (grido di "cornuti, cornuti" e di "via i crocifissi" ripetuti più volte, anche da parte di un cane) ed altre manifestazioni sonore. Tratto a giudizio per direttissima davanti al tribunale di Roma, al dibattimento l'imputato negava di avere mai avuto l'intenzione di offendere la religione cattolica e dichiarava che la parte religiosa del film rappresentava solo la cornice, indispensabile per far risaltare la religiosità semplice ed istintiva di uno Stracci, cioè di un individuo ai margini della società, nei confronti di altri atteggiantesi a superuomini, che a nulla credono, e per nulla hanno rispetto, all'infuori del proprio tornaconto personale.
Anche il produttore del film, Bini Alfredo, rendeva dichiarazioni analoghe, e spiegava che Pasolini aveva inteso trattare la posizione di quegli uomini che, vivendo ai margini della società, ancora non ne hanno subito il condizionamento.
Il Tribunale di Roma con sentenza 7 marzo 1963 riteneva l'imputato colpevole del reato ascrittogli e, in concorso di attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi quattro di reclusione, condizionalmente sospesa.
Appello dei difensori:
Rilevano che si è compiuto un arbitrario sezionamento del film, e se ne è giudicata una parte avulsa dall'intero contesto, e soprattutto dal significato generale; che è mancato un adeguato approfondimento del problema del dolo, trascurando di accertare la vera intenzione espressa nel film dall'autore, che sempre arbitrariamente il giudizio avrebbe trasceso dal significato "genericamente blasfemo" a un supposto contenuto di vilipendio; che, trattandosi di simboli occasionalmente allestiti per il film (i legni, la corona e i vari personaggi) e non per il cult, non avrebbesi in essi dovuto ravvisare i vari simboli della religione cattolica. Chiedono gli appellanti l'assoluzione con formula piena ed in subordine la rinnovazione del dibattimento per sentire il parere di esperti e competenti. Tanto premesso quale narrazione dello svolgimento processuale, ritiene la Corte che l'appello sia fondato.
Invero, dal capo di imputazione si rileva che al Pasolini è stato contestato il reato di cui all'art. 402 C.P., per avere vilipeso la religione dello Stato, "rappresentando, con il pretesto di descrivere detta religione, alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo, e le altre manifestazioni sonore, nonche' é tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica.
Talché deve desumersene che il vilipendio della religione cattolica, imputato a Pasolini, non è stato concretato in atti, e parole che offendessero la religione cattolica, considerata in sé stessa, come credenza in qualcosa di superumano, nella propria essenza, nelle sue finalità, nelle sue affermazioni dogmatiche, nelle sue manifestazioni rituali, sibbene nel dileggiare la figura di Cristo e dei suoi valori, e nel tenere per vili simboli e persone della religione stessa.
Più precisamente la impugnata sentenza ha ravvisato gli estremi del reato contestato: nelle scene in cui accoppia al quadro vivente, che rappresenta La Deposizione del Rosso Fiorentino, in commento musicale a base di twist e di cha-cha-cha (moderni ballabili in voga); nelle scene in cui il volto del Cristo si contrae inopinatamente in una risata sguaiata, non appena la Madonna ha finito di profferire le parole della cantica di Fra Jacopone da Todi; nelle scene che riproducono, in un quadro vivente, La Passione del Pontormo, allorché, ancora una volta irrompe, quale commento musicale, un ballabile, è il Cristo, che doveva essere ritratto nell'atto di essere deposto sulla croce, malauguratamente rovina a terra, fra le risate delle comparse, che raffigurano gli altri personaggi del quadro, mentre sul crocifisso, sulla Madonna, sui Santi, ritratti di volta in volta in primo piano, si alza il grido di una voce fuori campo, di "cornuti, cornuti, cornuti"; nelle scene che rappresentano comparse sedute per mangiare sulle tre croci distese a terra; lo Stracci in croce che biascica voglioso: "ho fame"; lo striptease della comparsa che interpreta il personaggio della Maddalena, la quale finisce per mostrare discinta i seni nudi alle tre comparse inchiodate sulla croce; nelle scene in cui l'ordine pronunciato, con voce stanca e sommessa, dal regista, il quale deve interrompere la ripresa di una scena per soddisfare le esigenze di un'attrice "raccomandatissima"; "via i crocifissi", viene ripetuto più volte, da facce diverse, e sembra trasformarsi nell'istanza di una società imbestialita contro il Cristo degli Altari, specialmente quando è ripetuta dal viso scomposto e arrabbiato di una donna, e perfino da un cane-lupo, inquadrandone il viso in primo piano, e fornendogli la voce arrochita di un uomo; infine, nella scena in cui lo Stracci, che viene ripreso in modo che una sua corsa si trasformi in una comica fuga alla Ridolini, si fa due volte il segno della croce, passando davanti a un'edicola sacra.
Come, dunque, appare chiaro, il vilipendio è stato riscontrato nella descrizione di ciò che avviene durante la ripresa di un film a soggetto sacro, e, più precisamente, nell'aver riprodotto le irriverenze, le sconcezze, gli atteggiamenti blasfemi, il turpiloquio a cui si abbandonano i registi, i loro aiutanti a dirigere e a interpretare le scene di un film in cui viene rappresentata "La Passione di Cristo", partendo dal presupposto, come hanno ritenuto l'accusa e la sentenza impugnata, che tali scene non sarebbero state necessarie all'economia del film, e che il Pasolini avrebbe presto il "pretesto" di produrre un film, dal quale facesse parte la rappresentazione della Passione di Cristo, al solo scopo di potere irridere alla religione cattolica.
Senonché, la stessa sentenza impugnata ha rilevato: "nulla, dunque, da eccepire sulla trama del film, e, in definitiva, sul messaggio sociale in esso contenuto, così come lo ha inteso profilare e materializzare Pasolini, dando vita al suo personaggio protestatario". Ciò posto, sembra alla Corte sia facile osservare che, una volta riconosciute quali fossero le intenzioni che muovevano il Pasolini, e le finalità che lo stesso si proponeva di raggiungere con la realizzazione del film; e, cioè, una volta riconosciuto che egli volesse rappresentare, a mezzo di un film, alcuni squarci di vita contemporanea; come essa viene vissuta in particolari e qualificati ambienti; nonché l'eterno contrasto sempre in atto, tra i ricchi e i poveri, tra i fortunati e i diseredati, tra i dotti (o che si credono tali), tra quanti trascorrono il tempo fra le effimere soddisfazioni della cosiddetta "dolce vita", e quanti trascinano la loro grama esistenza tra la dura realtà della fame e della miseria, in istato di abiezione fisica e morale, non si possa, poi, negare all'autore (o allo sceneggiatore, o al regista del film), la possibilità, anzi la necessità (per quella specia di vita autonoma che assumono i personaggi di un'opera di fantasia, non appena siano stati concepiti dall'autore) di rappresentare scenicamente quanto esso autore aveva intenzione di esprimere e che ciò egli faccia servendosi di quei gesti, di quelle immagini, di quelle parole, che meglio traducono, visivamente e audiovisivamente, il proprio pensiero, le proprie idee, le proprie fantasie; e, conseguentemente, di servirsi di quelle parole, di quei gesti, di quei suoni, che sono peculiari di quei personaggi, che egli ha voluto rappresentare.
Talché, nel caso in esame, quando il Pasolini ha voluto descrivere la primitiva rozzezza, la insensibilità morale, il grossolano umorismo delle incolte, ineducate, incoscienti comparse; il trionfo pseudointellettualistico di certi registi; le bizze isteriche di certe dive; la faciloneria e l'assenza di ogni di ogni senso di umanità di un certo mondo cinematografico, che è mosso solo dal desiderio di speculazione, egli non poteva che far agire e far parlare dette persone, se non nel modo che e' loro abituale.
In sostanza, se si vuole rappresentare qualcosa di profondamente abietto, qualcosa di profondamente immorale, qualcosa che nel linguaggio religioso si chiama "peccato" è ovvio che non ci possa servire se non di quelle immagini, di quei suoni, di quelle parole, che meglio lo rappresentino, o che meglio diano la sensazione dell'abiezione, dell'immoralità, del "peccato".
Questo, del resto, è sempre stato il procedimento seguito da tutti gli artisti, più o meno grandi, allorché si siano trovati nella necessità, al fine della esteriorizzazione del loro pensiero, di rappresentare peccati e peccatori. Così i Sonetti del poeta romanesco G.G. Belli (che qui si cita per certe analogie che si riscontrano nelle sue opere con il caso in esame; perché è nota la sua profonda fede cattolica; e, perché, appena lo scorso anno, se ne è celebrato il centenario della morte con la partecipazione alle cerimonie delle pubbliche autorità) sono in libera circolazione, e non risulta siano stati accusati di vilipendio alla religione cattolica, nonostante che molti di essi, se avulsi dal complesso dell'opera e dall'idea ispiratrice, potrebbero, veramente, apparire vilipendiosi di detta religione, dei suoi sacerdoti (compresi i Papi, che sono tra i più bersagliati), dei suoi Santi, dei suoi riti, ritratti con grandissimo scurrilità di linguaggio, e con supremamente oscene.
Perché? Perché apparve evidente che in quei sonetti il Poeta non ha voluto offendere la religione cattolica, sibbene ritrarre l'abiezione morale in cui vivevano i popolani di Roma ("Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma"), nonché la corrosiva, proterva, pesante arguzia di quell'infimo strato sociale, che è il "profanum vulgus" di Orazio, "la populace" di Victor Hugo, e che il Pasolini ha chiamato, con marxistico neologismo, "il sottoproletariato", facendone il protagonista di molte sue opere.
Diceva il Belli: "il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare un'immagine di esso, già esistente, e più, abbandonata, senza miglioramento".
Ora sembra alla corte che nel caso in esame il Pasolini, con le musiche profane che inopportunamente appaiono a commento di sacre rappresentazioni (musiche, del resto, iniziate per errore, e subito interrotte); con le risate sguaiate a cui si abbandonano le comparse, mentre stanno rappresentando i personaggi della "Passione"; con i bivacchi approntati sulle stesse croci di legno distese a terra; con la malevola interpretazione dell'ordine dato dal regista di allontanare dal luogo delle riprese i Crocefissi (interpretazione subito ridicolizzata dall'essere la frase ripetuta anche da quella specie di megera - strega dei bassifondi, che è l'ultima donna che si vede e si sente pronunziarla, e, perfino, da un cane, al quale, non potendosi, certo, prestare sentimenti antireligiosi, si vede attribuire la funzione di dimostrare che si trattava di una richiesta... da cani!); con le altre scene irriverenti e blasfeme surricordate, non abbia voluto, come invece ha ritenuto l'impugnata sentenza, dileggiare i simboli della religione cattolica, ma solo rappresentare il modo di comportarsi del "sottoproletariato" delle borgate romane, massimo fornitore delle comparse cinematografiche, di molti registi, e di molti attori, anche durante le riprese di quei colossali film, a soggetto tratto dal vecchio e dal nuovo testamento, rivelandone e mettendone a nudo la assoluta insensibilità morale di fronte alle cose più sacre e degne di venerazione. Il Pasolini, inoltre, ha voluto rappresentare e presentare lo stato di grandissima miseria materiale (che, secondo la concezione filosofica del materialismo storico da lui professato, sarebbe la generatrice della miseria morale) in cui versa il suddetto "sottoproletariato", il quale sarebbe invece, originariamente e fondamentalmente buono, spinto al male dallo sfruttamento al quale è sottoposto dai detentori delle ricchezze, e dalla necessità primordiale di procurarsi i mezzi di sussistenza.
Questo è il mondo che egli voleva far conoscere, presentando sullo schermo il personaggio che risponde al nome di Stracci, il quale, se da un lato rileva l'innata bontà del suo animo, allorché nasconde i morsi della fame per alleviare, quelli della propria moglie e dei propri figli; dall'altro mostra la elasticità della sua coscienza, non esitando a vendere ad altri cose non sue, per crepare letteralmente di indigestione non appena abbia potuto con tale mezzo fraudolento, procurarsi del cibo in abbondanza. Che, poi, il Pasolini, sia riuscito a realizzare in pieno il suo disegno di dar vita artistica alle sue istanze di polemica sociale, che il grezzo materiale della trama del suo soggetto cinematografico si sia decantato nella poetica sintesi dell'opera d'arte, non è questa la sede per giudicare.
Del valore artistico dell'opera del Pasolini si sono occupati i critici cinematografici della stampa periodica nelle loro recensioni del film; qui interessa solo rilevare che nessuno di essi, con particolare riferimento a quelli della stampa cattolica, ha riscontrato nell'opera di Pasolini offese alla religione cattolica.
Persino il Centro Cinematografico Cattolico, che veglia a segnalare al pubblico la moralità e l'ortodossia religiosa dei film, ha incluso il film in questione tra quelli "sconsigliati", e non tra quelli "esclusi", come era stato fatto per il film Viridiana, che, denunciato per vilipendio alla religione cattolica, era stato, poi, prosciolto il istruttoria. Così pure il Preside dell'Istituto d'Apologia della Religione, presso la Pontifica Università Gregoriana, si è espresso, in una lettera diretta al Pasolini, nei seguenti termini: "il suo film mi ha fatto una grande impressione. La purezza delle intenzioni per me non lascia dubbi. Dalla stessa realizzazione credo sinceramente non si possa tirare la conclusione di vilipendio della religione".
Ora, non sono certamente, osservava la Corte, né i criteri dei giornali, né i centri cattolici cinematografici, né gli stessi sacerdoti della religione cattolica, che possano sostituirsi ai giudici naturali nella interpretazione della legge penale italiana. Tuttavia di tali pareri, provenienti da esperti e da praticanti della religione cattolica, ritiene la corte che non si possa face a meno di tenerne in debito conto.
Come pure non si può fare a meno di rilevare che non vi furono, durante la proiezione del film nelle pubbliche sale cinematografiche, manifestazioni di protesta e di riprovazione da parte degli spettatori, il che dimostra che, pur essendo la stragrande maggioranza della popolazione italiana di religione cattolica, essa non si è sentita offesa nel suo sentimento religioso.
In base alle suesposte considerazioni, ritiene, pertanto, la Corte che nel film in oggetto, considerato nel suo organico complesso, e in quella inscindibilità che è propria di ogni opera d'arte, non sussistono gli estremi del reato di vilipendio della religione dello Stato, ai sensi dell.art. 402 C.P., e che di conseguenza il Pasolini debba essere assolto perché il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Visti gli artt. 523, 479 C.P.P.; in riforma della sentenza del 7/3/1963 del Tribunale di Roma, appellata da Pasolini Pier Paolo, assolve lo stesso dal reato ascrittogli, perché il fatto non costituisce reato.

Roma, li' 6/5/1964
Seguono firme
Depositata in Cancelleria il 15 giugno 1964
Il Cancelliere F.to Giuliani
La presente copia è conforme al suo originale
Roma, lì 17/12/1964
F.to il Cancelliere



Il ricorso in Cassazione
del Procuratore
generale di
Corte d'Appello
21 luglio 1964

Procura Generale della Repubblica
presso la
CORTE DI APPELLO DI ROMA

Motivi a sostegno del ricorso per cassazione proposto dal P.M. il 6 maggio 1964 avverso la sentenza della Corte di appello di Roma - I sezione - dello stesso giorno, con la quale, in riforma di quella del Tribunale di Roma del 7/3/1963, PASOLINI Pier Paolo veniva assolto dal delitto di vilipendio della religione dello Stato perché il fatto non costituisce reato.

FATTO E SENTENZE

Pier Paolo Pasolini veniva tratto a giudizio del Tribunale di Roma per avere, nel febbraio 1963 in Roma, pubblicamente, vilipeso la religione dello Stato, in quanto, quale soggettista e regista dell'episodio La ricotta del film RoGoPaG, col pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, aveva rappresentato alcune scene della passione di Cristo, dileggiandone la figura ed i valori, sia col commento musicale che con la mimica, il dialogo e le altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica.

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 7/3/1963, condannava il Pasolini a mesi 4 di reclusione con i benefici di legge, per il delitto ascrittogli, e su appello dell'imputato, la Corte di appello in Roma, con sentenza del 6 maggio u.s., lo assolveva perché il fatto non costituisce reato.

Contro la detta sentenza viene proposto ricorso per cassazione per il seguente motivo

VIOLAZIONE DELL'ART. 402 C.P.

La corte di appello, dopo di avere considerato che la sentenza impugnata aveva riscontrato esservi vilipendio alla religione dello Stato perché il Pasolini nel suo film, aveva riprodotto con irriverenze, le sconcezze, gli atteggiamenti blasfemi, il turpiloquio a cui si erano abbandonati tutti coloro che avevano partecipato come registi, attori, comparse ecc., durante la produzione di un film in cui veniva rappresentata la Passione di Cristo, nel presupposto che il Pasolini per poter deridere la religione dello Stato aveva preso il pretesto della produzione di un film, alcuni squarci di vita contemporanea come viene vissuta nell'ambiente cinematografico durante la produzione di un film, nonché l'eterno contrasto tra i ricchi e i poveri, tra i fortunati e i diseredati, tra i dotti (o che si credono tali) e gli ignoranti (ma che non vogliono essere riconosciuti come tali) non poteva negarsi all'autore la esigenza di rappresentare secondo la sua manifestazione d'arte, quanto aveva intenzione di esprimere ed il Pasolini per tradurre scenicamente il suo pensiero, con tutte le sue idealità ed immaginazioni, aveva dovuto servirsi di quelle parole, di quei gesti, di quei suoni, peculiari ai personaggi che aveva voluto rappresentare.

In altri termini, secondo la Corte di appello, se si vuole rappresentare qualcosa di profondamente abbietto, qualcosa di profondamente immorale, qualcosa che nel linguaggio religioso si chiama "peccato" è ovvio che non si possa non servirsi di quelle immagini, di quei suoni, di quelle parole che meglio diano la sensazione dell'abiezione, dell'immoralità, del "peccato", così che Pasolini con le scene irriverenti, blasfeme, che appaiono nel film non ha voluto dileggiare i simboli della religione cattolica ma solo rappresentare il modo di comportarsi del sottoproletariato delle borgate romane, da cui vengono scelte di solito le comparse cinematografiche, di molti registi, di molti attori anche durante la ripresa di film tratti dalla storia sacra, facendo risaltare l'assoluta insensibilità morale di fronte alle cose oggetto delle più profonda venerazione, ed ha voluto rappresentare lo stato di miseria in cui vive il sottoproletariato che, per origine buona, viene spinto al male per lo sfruttamento che su di esso esercita la classe capitalista e per la necessità di procurarsi i mezzi necessari per sua esistenza. Evidentemente la Corte di appello è incorsa in errore nell'affermare che, se molte scene del film in parola erano da considerarsi irriverenti, blasfeme e, quindi, vilipendiose, pure il fine dell'imputato non era quello di vilipendere la religione cattolica ed ha ancora omesso di dare una qualsiasi motivazione sull'esistenza del fine asserito dal Pasolini.

L'art. 402 C.P., punisce chi pubblicamente vilipende la religione dello Stato ed oggetto specifico della tutela penale è il pubblico interesse di proteggere la religione cattolica-apostolica-romana, considerata (in se stessa) nelle sue credenze fondamentali, quali l'idea di Dio, i dogmi della Chiesa, i suoi sacramenti, i suoi riti ed i suoi simboli, ed indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori. La tutela penale della religione cattolica-apostolica-romana viene ricondotta sotto quella del sentimento religioso come patrimonio morale di un popolo, come forza spirituale operante nella nostra società e concorrente al perseguimento dei fini dello Stato. Il sentimento religioso è inteso come una entità che trascende i limiti del patrimonio morale e individuale, per assurgere ad interesse generale. Non tanto fenomeno della coscienza collettiva quanto vero e proprio fenomeno sociale, onde i delitti contro il sentimento religioso sono, nel sistema del codice penale vigente, considerati come offesa ad un interesse collettivo.

L'elemento materiale del delitto è, pertanto, il mostrare di tenere a vile e più precisamente esporre con manifestazioni di disprezzo, di ingiuria grossolana e volgare, di contumelia, di dileggio la religione dello Stato, che è la religione cattolica-apostolica-romana, perché professata dalla stragrande maggioranza del popolo italiano. Qualunque forma di manifestazione del pensiero e del sentimento (atti, gesti, parole, disegni, immagini, suoni) assume il carattere della derisione, del disprezzo, del dileggio, dello scherno quando l'agente mostri di tenere a vile la religione cattolica-apostolica-romana, specificatamente tutelata dalla legge.
Il vilipendio, per aversi la figura criminosa di cui all'art. 402 C.P., sussiste non solo quando l'offesa investe tutta la materia che forma oggetto della fede cattolica, - l'idea di Dio, i dogmi della Chiesa, i suoi sacramenti, i suoi riti, i suoi simboli - ma altresì quando ne siano investiti uno o più punti. L'elemento psichico, come si evince dalla relativa disposizione di legge, consiste nel dolo generico e questo sussiste quando sia accertata la commissione cosciente e volontaria di atti, di parole, di scritti, o di altra forma di manifestazione del pensiero e del sentimento oggettivamente vilipendiosi contro la religione cattolica, che è la religione dello Stato. Non dolo specifico, quindi, essendo sufficiente la coscienza e la volontà del fatto, la volontà cioè dell'azione rivolta alla produzione dell'evento lesivo con la piena consapevolezza della idoneità della condotta a produrre il risultato. Il motivo, lo scopo, che spinge all'azione, nella formazione dell'intenzione, è il fine che il soggetto si propone di raggiungere con l'azione e costituisce la ragione del delinquere. Il motivo aderisce all'elemento subiettivo del reato, ma non è parte costitutivo di esso: precede e genera il dolo, ma non è il dolo, che, qualunque sia il motivo dell'azione, è uguale sempre non potendo che risultare dagli elementi che la legge richiede per la sussistenza di esso. In altri termini, non deve confondersi sul piano giuridico il movente psicologico o motivazione dell'azione ed il dolo. Il movente o il fine del reato è motivo normalmente irrilevante, mentre il dolo è la causa, cioè l'elemento psichico, volitivo che determina immediatamente l'azione.

Se tali principi giuridici sono esatti l'affermazione di responsabilità di Pier Paolo Pasolini da parte della Corte di appello doveva essere confermata.

Non vi è dubbio che il film La ricotta nel suo complesso, e in alcune particolari sequenze, come del resto ha ritenuto la stessa Corte d'appello, sia obiettivamente vilipendioso della religione cattolica-apostolica-romana.

Il film rappresenta una giornata di lavoro di una équipe di attori e comparse per la ripresa cinematografica in esterno di alcune scene della passione e morte di Gesù Cristo. Il personaggio principale è un tale Stracci, povero ed affamato, che dovrebbe rappresentare il buon ladrone, ma secondo l'immaginazione dell'autore rappresenta il sottoproletariato che è costretto per la sua miseria a vivere ai margini della vita sociale e che lavora solo quando ne ha l'occasione. Lo Stracci viene raffigurato come un semplice e un istintivo, ma buono e generoso tanto da essere costretto a lavorare seppur ammalato, che cede il cibo a lui spettante come comparsa ai membri della sua famiglia, che sopporta il lavoro sotto i morsi della fame e, quando una fortuita circostanza, la vendita di un cane non suo, gli consente di avere mille lire, egli le impiegherà senza esitazione, nell'acquisto di ricotta: la mangerà avidamente insieme ad altri cibi che in abbondanza, per scherzo o per derisione, gli offrono i compagni di lavoro. L'assurdo e spasmodico ingoiamento della ricotta e degli altri cibi lo condurrà subito dopo a morte, quando inchiodato sulla croce ed innalzata con le altre sulle colline che dovrebbero significare il Calvario, sta per dare vita alla scena finale della passione e morte di Cristo e dei ladroni. Il film si chiude con la seguente considerazione del regista: "povero Stracci, la sua morte è stato il solo suo modo di fare la rivoluzione".

La trama del film non è in alcun modo vilipendiosa per la religione dello Stato e nessuna osservazione penalmente rilevante può farsi sul contenuto sociale del messaggio, creandosi un personaggio protestatario, ma tutto il film si svolge nelle sue scene, nelle sue inquadrature, nelle sue sequenze e nei suoi commenti musicali e verbali in maniera tale che la religione cattolica risulta dileggiata e derisa nei suoi simboli e nelle sue manifestazioni più toccanti ed essenziali.

Basti pensare ai due quadri viventi, realizzati a colori perfettamente limpidi, e riproducenti due opere pittoriche rinascimentali del Rosso Fiorentino e del Pontormo. Essi rappresentano due deposizioni che, per la purezza dei colori, per l'ascetismo promanante dalle immagini e per il contenuto altamente religioso riferitesi al momento della deposizione del Cristo, che viene staccato dalla croce e mestamente composto dalle pie donne, suscitano un indescrivibile senso di venerazione e di misticismo, per cui lo spettatore è tutto preso da questa religiosa atmosfera partecipando alla scena della passione che rivive sullo schermo.

L'atmosfera religiosa attraente creata viene distrutta con una irrisione tanto grave quanto immotivata.

Al quadro vivente della deposizione del Rosso Fiorentino viene accoppiato come commento musicale un "twist" e poi un "cha-cha-cha" e il serafico volto del Cristo, serenamente composto nell'immagine della morte, proprio nel momento di più profondo e mesta religiosità della scena, si contrae in un riso sguaiato, appena la Madonna ha finito di ripetere i toccanti versi di Jacopone da Todi: "Figlio, l'alme ti è uscita...".

Alla deposizione del Pontormo viene accoppiato, come commento musicale, pure un ballabile e l'atmosfera religiosa già così turbata viene definitivamente diradata per l'ilarità provocata dalla caduta del Cristo a terra tra le sguaiate risate delle altre comparse, a cui segue sferzante ed ingiurioso sul Crocefisso, sulla Madonna, sui Santi ritratti di volta in volta in primo piano il grido di "cornuti, cornuti, cornuti".

Altre sequenze debbono essere considerate vilipendiose: i vari bivacchi delle comparse, durante le pause di lavoro sulle croci poggiate a terra che, pur pezzi di legno, rimangono tuttavia sacre espressioni della religione; i figli di Stracci, seduti sul prato a mangiare, vengono invitati da un Santo con veste lunga ed aureola - un santo pederesta - a seguirlo; il regista che chiede la corona di spine gridando "la corona" ed il grido passa di bocca in bocca fino a quando la parola "corona" sara' ripetuta col tono di chi parla di cosa che ormai ha fatto il suo tempo e arreca fastidio e seccature; il regista, pretestuosamente, griderà "via i crocefissi", il grido è ripetuto da figure in primo piano che appaiono in una successione di stacchi, così che non risulta la trasmissione di un ordine, ma il diffondersi di un grido unanime "via i crocefissi" ed il grido blasfemo viene ripetuto financo da un cane lupo, dando al suo abbaiare la voce cupa di un uomo, il segno della croce, che lo Stracci ripete per due volte nella sua corsa comica alla Ridolini per l'acquisto della ricotta, è un segno irriverente e blasfemo per la religione dello Stato; infine una non redenta Maddalena effettua lo spogliarello fino a denudarsi mentre l'uomo, che è inchiodato sulla croce e che rappresenta il crocefisso, ritmicamente e lubricamente sussulta per poi abbandonarsi sulla Croce nell'estasi dell'eiaculazione.

Da tutto ciò si evince in modo chiaro che l'opera di Pasolini è una grossolana derisione della religione nella sua fondamentale credenza, nei suoi mistici riti, nella sua essenza e se si esclude un fine specifico di vilipendere la religione - fine non richiesto per la configurabilità del reato previsto dall'art. 402 C.P. - non si può non riconoscere che egli ha avuto piena consapevolezza dell'offesa che alla religione derivava dagli atti di vilipendio volontariamente commesso.

I fini leciti o legittimi, cui secondo la sentenza impugnata si sarebbe ispirata l'opera di Pasolini, cioè di aver voluto rappresentare il modo di comportarsi del sottoproletariato delle borgate romane, di molti attori e registi durante la lavorazione di un film a soggetto sacro ovvero di aver voluto rappresentare lo stato di miseria del sottoproletariato, non escludono né elidono la coscienza e la volontà di offendere la religione cattolica, giacché, voluta la condotta vilipendiosa si integra necessariamente anche l'elemento soggettivo del reato.

La legittimità e liceità del fine non può avere efficacia discriminante quando esso è perseguito a mezzo di dolose azioni penalmente illecite. Pertanto, anche se Pasolini avesse avuto il fine ritenuto dalla Corte di appello egli, avendolo realizzato attraverso il vilipendio della religione cattolica, avrebbe dovuto essere condannato.

Omissione di motivazione sull'esistenza del fine proclamato dal Pasolini è la seconda censura che si muove alla sentenza impugnata.

La Corte di appello si è limitata ad affermare apoditticamente - sic et simpliciter - che il fine che il Pasolini si era ripromesso di raggiungere con il suo film era quello di consentire al sottoproletariato, da tutti ignorato, di dare testimonianza di sé nella più eclatante e luttuosa maniera protestataria, cioè la morte e di raffigurare la insensibilità morale dei cineasti nel trattare argomenti del massimo rispetto e venerazione. Al di là di questi fini apparenti e proclamati dall'imputato e per conto dello stesso dal testa Bini la Corte avrebbe dovuto accertare l'esistenza di un altro fine che, se tenuto nascosto, appare, però, manifesto in tutta la sua fraudolenza.
La volonta' di Pasolini di dileggiare direttamente la religione cattolica risulta chiaro e preciso avuto riguardo a tutte le situazioni artatamente create, alla scelta delle musiche, al tono di determinate espressioni, all'inquadratura di alcune scene. Può darsi che il fine reale di Pasolini sia stato quello del dileggio della religione cattolica, specialmente nei confronti del Cristo, dell'uomo che si è sacrificato per la redenzione del mondo e che costituisce la figura più alta della religione cattolica.
Ogni altro fine proclamato e dichiarato deve considerarsi pretestuoso, servendo a nascondere quello che è stato il reale fine di Pasolini: il dileggio della religione cattolica-apostolica-romana.

P.Q.M.

chiede che la Corte Suprema di Cassazione annulli con rinvio la sentenza impugnata.

Roma, 21 luglio 1964

Il Sost. Procuratore Generale
Dr. Giuseppe Battiati



Sentenza della Corte
di Cassazione
24 febbraio 1967

Sentenza n. 328 - Registro Generale n. 22775/64
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte Suprema di Cassazione
SEZIONE 3 PENALE

Composta degli Ill.mi Signori: BACCIGALUPI Mario - Presidente, MUSCOLO Domenico, LEOGOTTI Giovanni, ODORISIO Casimiro, PERNIGOTTI Pio, DE MICHELI Vincenzo, MARTINELLI Carlo - Consiglieri
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso proposto dal P.M. contro Pasolini Pier Paolo avverso la sentenza 6/5/1964 della Corte di Appello di Roma che, riformando quella del 7/3/1963 del Tribunale di Roma, assolveva Pasolini Pier Paolo dall'imputazione di vilipendio alla Religione dello Stato, perché il fatto non costituisce reato. Visti gli atti, la sentenza pronunciata ed il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Giovanni Leone.
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. Vaccaro che ha concluso per annullamento senza rinvio per amnistia.
Uditi i difensori dell'imputato Avv.ti Giuseppe Berlingeri e Ferdinando Giovannini, che hanno concluso per il rigetto del ricorso

In fatto e in Diritto

Il Procuratore Generale della Repubblica in Roma ricorre avverso la sentenza dle 6/5/1964 di quella Corte di Appello che, riformando quella del 7/3/1963 del Tribunale della stessa sede, assolveva Pasolini Pier Paolo perché il fatto non costituisce reato all'imputazione di vilipendio della religione dello Stato (art. 402 C.P.), per avere nella sua qualità di soggettista e regista dell'episodio La ricotta del film "ROGOPAG", pubblicamente vilipeso la religione dello Stato, rappresentando, con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene della passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e le altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili i simboli e persone della religione Cattolica.

Deduce:

1) Erronea applicazione della legge.
2) Vizio della motivazione.
Va premesso: la trama ha per oggetto la riproduzione di una giornata di lavoro di un'équipe di attori e comparse, intenta a riprodurre alcune scene della passione di Cristo, in cui la figura del buon ladrone è rappresentata da un certo "Stracci", uomo miserabile e fondamentalmente buono, che, deriso e famelico, tra una pausa e l'altra, si sazia di una ricotta, acquistata con il ricavato della vendita di un cagnolino rubato ad un'attrice, e di quant'altro gli viene offerto, e che all'inizio della ripresa dell'azione, viene trovato morto sulla croce.
Oggetto dell'incriminazione non è la trama, ora precisata, bensì: il commento musicale, costituito da ballabili moderni (twist e cha-cha-cha); la mimica (risata sguaiata di Cristo, in risposta ai lamenti strazianti della Madonna; lo spogliarello compiuto dalla comparsa che rappresenta la Maddalena, mentre il crocefisso sussulta ritmicamente sulla croce); il dialogo (costituito da grida di "Cornuti, cornuti" all'indirizzo della Madonna e di tutti i santi e di "via i Crocefissi", ripetuto più volte come ad una società imbestialita e perfino da un cane).
La Corte di Appello ha giustificato la sua decisione ritenendo che l'imputato sostanzialmente ha inteso rappresentare alcuni squarci di vita contemporanea del mondo del cinema, rilevandone l'insensibilità morale di fronte alle cose più sacre e degne di venerazione, e l'eterno contrasto tra i ricchi e i poveri ; che l'imputato non poteva non servirsi di quelle immagini, di quei suoni, di quelle parole e che perciò egli non ha voluto dileggiare i simboli della religione cattolica.
Ciò premesso, si osserva che le censure del ricorrente P.M. appaiono fondate.
Egli lamenta che il secondo giudice, pur avendo ritenuto molte scene del film irriverenti e blasfeme, e quindi oggettivamente vilipendiose, ad esse ha poi negato contenuto criminoso, perché il fine non era quello di vilipendere la religione.
E questa suprema corte non può non convenire che sussistano sia il vizio della motivazione, sia l'erronea applicazione della legge, nel suo ricorso denunciati.
Invero, l'oggettività giuridica del reato è il vilipendio della religione, che, per il suo contenuto squisitamente etico, è patrimonio altamente sociale, meritevole della particolare tutela di cui all'art. 402 C.P.. Vilipendere, com'è noto, significa nella comune accezione del verbo, "tenere a vile": il vilipendio perciò si ravvisa nell'offesa volgare e grossolana, che si concreta in atti che assumono caratteri evidenti di dileggio, derisione, disprezzo.
L'elemento psicologico è costituito soltanto dal dolo generico, ossia dalla volontà di commettere il fatto con la consapevolezza della sua idoneità a vilipendere, onde e' irrilevante il movente dell'azione (politico o sociale) che non vale perciò ad escluderlo.
Pertanto errata è la decisione impugnata, fondata sulla ricerca di un fine specifico non richiesto e peraltro nella fattispecie confuso con il movente. Conseguentemente errata è la motivazione di essa, che articolandosi e snodandosi su tale errata schematica giuridica, ne nega la sussistenza, con considerazioni, soltanto apoditticamente affermate, ma non dimostrate, come quella che l'istanza sociale a carattere protestatario, perseguita dall'episodio incriminato, non potesse altrimenti raggiungersi se non servendosi delle immagini irriverenti, dei suoni, delle parole blasfeme, obiettivamente vilipendiose, e che il fine sociale escludesse necessariamente il fine di vilipendere, mentre nella realtà e nella logica, i due fini sono concettualmente compatibili, e quindi possono coesistere.
L'errore di diritto in cui la decisione è incorsa, e i relativi vizi della motivazione sono evidenti cause di annullamento di essa, ma tale annullamento va pronunciato senza rinvio, essendo il reato estinto dalla recente amnistia del 1966.

P.Q.M.

Visto l'art. 539 c.p.p.
Annulla l'impugnata sentenza senza rinvio, perché il reato è estinto per amnistia (1966)Roma, 24/2/1967

Baccigalupi - Firmato
Muscolo - Firmato
Leone - Firmato
Odorisio - Firmato
Pernigotti - Firmato
De Micheli - Firmato
Martinelli - Firmato

Depositata in Cancelleria il 19/5/1967


*****

I Documenti relativi al processo a Pasolini, reo di vilipendio alla religione di Stato  per il film La ricotta, sono stati presi dal sito di Angela Molteni.

 
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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