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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 27 agosto 2014

ACCATTONE - Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


ACCATTONE - Pier Paolo Pasolini


ACCATTONE

Scritto e diretto da: Pier Paolo Pasolini

Collaborazione ai dialoghi: Sergio Citti

Fo­tografia: Tonino Delli Colli

Scenografia: Flavio Mogherini

Coordina­mento musicale: Carlo Rustichelli

Montaggio: Nino Baragli

Aiuto re­gia: Bernardo Bertolucci

Assistente alla regia: Leopoldo Savona



Inter­preti e personaggi

Franco Citti (Cataldi Vittorio, detto Accattone, doppiato da Paolo Ferrari); Franca Pasut (Stella); Silvana Corsini (Maddalena); Paola Guidi (Ascenza, doppiata da Monica Vitti); Adriana Asti (Amore); Adriano Mazzelli (il cliente di Amore); Ro­molo Orazi (suocero di Accattone); Massimo Cacciafeste (cognato di Accattone); Francesco Orazi (il Burino); Mario Guerani (il commis­sario); Stefano D'Arrigo (il giudice istruttore); Enrico Fioravanti (primo agente); Nino Russo (secondo agente); Emanuele Di Bari (Sor Pietro); Franco Marucci (Franco); Carlo Sardoni (Carlo); Adria­na Moneta (Margheritona); Polidor (becchino); Danilo Alleva (Iaio); Sergio Citti (il cameriere); Elsa Morante (una detenuta); Gli amici di Accattone: Luciano Conti (il moicano); Luciano Gonini (Piede d'oro); Renato Capogna (il Capogna); Alfredo Leggi (Pupo Biondo); Galeazzo Riccardi (il cipolla); Leonardo Muraglia (Mommoletto); Giuseppe Ristagno (Peppe il Folle); Roberta Giovannoni (il tede­sco); Mario Cipriani (Balilla); Roberto Scaringella (Cartagine); Silvio Citti (Sabino); Giovanni Orgitano (lo Scucchia); Piero Morgia (Pio); I napoletani (doppiati da attori della compagni di Eduardo De Filip­po); Umberto Bevilacqua (Salvatore); Franco Bevilacqua (Franco); Amerigo Bevilacqua (Amerigo); Sergio Fioravanti (Gennarino); Ade­le Cambria (Nannina); Mario Castiglione (Mario); Dino Frondi (Dino); Tommaso Nuovo (Tommaso); i farlocchi: Edagardo Siroli, Renato Terra

Produzione: Arco Film (Roma) / Cino Del Duca (Ro­ma)
Produttore: Alfredo Bini
Pellicola: Ferrania P 30
Formato: 35 mm., b/n, 1:1.33
Macchine da presa: Arriflex
Sviluppo e stampa: Isti­tuto Nazionale Luce
Doppiaggio e sincronizzazione: Stabilimenti Tita­nus
Distribuzione: Cino Del Duca
Riprese: Aprile-luglio 1961, Teatri di posa Incir De Paolis, Roma
Esterni: Roma, Subiaco
Durata: 116' (3188 m.)
Prima proiezione: XXII mostra di Venezia sezione "infor­mativa", 31 agosto 1961
Premi: Festival di Karlovy Vary, 1962, pri­ma premio per la regia.
Un sottoproletario romano, Accattone, vive sfruttando Maddalena, una prostituta strappata ad un napoletano in carcere. L'uomo evita la vendetta degli amici del carcerato, incolpando Maddalena di tutto ed abbandonandola nelle mani dei guappi. Rimasto senza soldi, Accattone cerca di tornare da sua moglie, che però lo respinge, poi incontra Stella, una ragazza che lui cerca di convincere a prostituirsi. Colpito dal rifiuto di Stella, cerca di guadagnarsi da vivere onestamente, ma sarà tutto inutile...


PREMESSA - Le traversìe subite da Pasolini per giungere alla realizzazione del film si moltiplicarono enormemente al momento della sua distribuzione. L'ostracismo perpetrato da autorità e opinione pubblica nei confronti del regista rasentò il linciaggio, e il risultato finale fu che “Accattone” divenne il primo film nella storia della cinematografia italiana a essere vietato, con apposito decreto, ai minori di diciotto anni.
Il film, montato in fretta e furia per la presentazione a Venezia, non ottenne il visto di censura per le sale, ma fu comunque proiettato fuori concorso al Festival il 31 agosto del 1961. Alla sua proiezione seguirono violente polemiche, durate circa due mesi, che si conclusero solo con l'intervento dell'allora Ministro per il Turismo e lo Spettacolo Folchi il quale impose al film, prima ancora che vi fosse una normativa definitiva in materia, il divieto ai minori di diciotto anziché di sedici anni. La proiezione nelle sale romane, avvenuta il giorno stesso della concessione del visto ministeriale, fu coronata dal boicottaggio prima, dal linciaggio materiale di Pasolini poi, ad opera di un gruppo di giovani neofascisti. Le accuse generalmente e genericamente mosse al film, rivolte con un accanimento indecifrabile e ridicolo se viste con gli occhi delle presenti generazioni, erano in realtà tremendamente serie nel torbido clima da dittatura della mediocrità "perbene" dell'epoca, tanto da meritare di essere espresse dal pulpito delle aule parlamentari da indignatissimi "rappresentanti del popolo", da orde di disgustati giornalisti e da una massa consensuale addestrata al rifiuto della diversità dall'ossessiva pressione esercitata dalle prime due categorie. Il punto di queste accuse, a parte una inconsistente patina moralistica di disprezzo nei confronti della crudezza, considerata "pornografica", del mondo della prostituzione e del suo sfruttamento che faceva da sfondo al film, era soprattutto l'incomprensibile solidarietà e la simpatia che Pasolini, un intellettuale borghese "libero di parlare", dimostrava di provare nei confronti di quei miserabili piccoli delinquenti, i sottoproletari romani protagonisti del suo film. E, nonostante la risibile foga con cui tali accuse vennero espresse, esse coglievano in pieno l'aperta provocazione intentata dal regista: mettere in scena ciò che la sua società, quella che gli aveva consentito la posizione di privilegio di realizzare un film, aveva volutamente rimosso da secoli: la vita degli "scarti", di quegli uomini latori di una preborghese miseria condannati a sopravvivere ai margini più remoti delle istituzioni vigenti nella società. In una società che ha strumenti di persuasione ricattatoria tutti "morali" come lo "scandalo", l'isolamento sociale, fondata sulla necessità di dimostrazione rituale di potere, dover ,riconoscere l'esistenza di un mondo che vive al di fuori del potere dei codici morali, non importa se perché gettato fuori con violenza dal corpo sociale dalla classe dominante, significa dover contraddire l'inesorabilità di tali codici, mettere in discussione l'universalità dei propri assiomi di forzata convivenza "etica".
Ma l'etica borghese non ha dialettica, o si è colpevoli o non lo si è, e neppure la pietà religiosa sulla quale tale etica dichiara di essersi costituita può soppiantare il razzistico senso di lesione che proviene dal fatto di dover riconoscere l'esistenza di un mondo recluso nel suo male, un "male" di cui tale classe storicamente dedita all'accaparramento è la diretta responsabile.
Pasolini, dunque, nel girare “Accattone”, metteva le mani in una ferita aperta nella pseuda-coscienza borghese, quella dell'esistenza di due Italie, una ufficiale, l'Italia
da esportazione, onesta, né povera né ricca ma allegra e sincera, quella oleografica dell'antica nobiltà e dei mangiatori di maccheroni, e un'Italia miserrima, in cui tutto, dalla lingua ai codici morali, era fermo ad un passato mai risolto di carognesca vitalità senza scampo, in cui neppure un debole riflesso della prima poteva filtrare attraversa il duro codice pre-borghese della sopravvivenza, della vita alla giornata.
Ma chi erano queste pietre dello scandalo, questa umanità dotata di una purezza astorica, questi "estranei" nella propria terra per cui la storia che si svolge nella società "vera" è vista solo come costante minaccia poliziesca o irraggiungibile mito di benessere, quando non è addirittura ignorata, con un comprensibile meccanismo di compensazione, come inesistente?

La loro storia si intreccia a quella degli interpreti, tutti attori rigorosamente non-professionisti, reclutati da Pasolini negli stessi luoghi in cui la vicenda del film si svolge, tanto che a tratti diventa quasi impossibile distinguere lo spirito della trasfigurazione poetica da quello dell'inchiesta sociologica. Vediamone la vicenda nel film.
TRAMA - Cataldi Vittorio, detto Accattone, (Franco Citti), è un "pappone", lo sfruttatore di una prostituta di nome Maddalena, mestiere che ha "ereditato" da un delinquente napoletano, Ciccio, denunciandolo anonimamente e raccogliendone la piccola "industria". Accattone vive in una borgata fatta di baracche senza tempo, ai margini della periferia romana, in una casa diroccata presumibilmente anche questa di Ciccio, insieme alla sua donna-prostituta e alla moglie-chioccia di Ciccio, Nannina, una donna disoccupata con cinque bambini a carico, di quelle che nel Sud Italia dell'epoca si sposavano a quindici anni. La vita di Accattone si svolge per lo più fuori del "baretto" assieme a un gruppo di amici tra i quali vige il codice non scritto di un fraterno antagonismo, tutti stoicamente fieri del loro non lavorare: ladruncoli, ricettatori, mantenuti dai genitori, adolescenti spiantati e violenti che dileggiano sarcasticamente chiunque lavori (come Sabino il fratello di Accattone). Accattone ha una moglie, Ascenza, dalla quale é separato, che gli ha dato un figlio. Ascenza lavora l'intera giornata per un salario da miseria in una officina di riciclaggio di bottiglie usate. L'apparente staticità della sua vita si interrompe quando quattro mariuoli napoletani compiono una spedizione per conto di Ciccio, scopo della quale è accertare le responsabilità di Accattone nell'arresto di Ciccio, e, nel caso, farsi giustizia. Accattone capisce le loro intenzioni e scarica tutta la colpa su Maddalena, la quale, una notte, nella squallida penombra di una discarica, viene malmenata dai quattro vendicatori di Ciccio e lasciata malconcia sul terreno. Portata in questura, Maddalena non denuncia i veri assalitori ma alcuni ragazzi che l'avevano insultata qualche sera prima. Accertata però la falsa testimonianza della donna, la polizia ne stabilisce la reclusione. Così Accattone resta all'improvviso "senza lavoro", ma rinuncia spavaldamente alle "offerte di lavoro" dei ladro Balilla, il quale, con una serenità millenaria, cerca di convincerlo spiegandogli che da quando il mondo è mondo un ladro non è mai stato disoccupato. Depresso e digiuno da giorni, Accattone torna all'officina in cui lavora la moglie per chiederle un prestito. Qui incontra Stella, una ragazza mite e ingenua, poverissima, della quale si innamora. Stella accetta l'amore di Accattone con una sorta di timida rassegnazione, vincendo un'inibizione nei confronti degli uomini derivata dal suo vissuto familiare: Stella è infatti figlia di una prostituta. L'esperienza dell'innamoramento provoca in Accattone una crisi di coscienza tutta istintiva, un'insoddisfazione di sè fino ad allora sconosciuta; ma i suoi propositi di cambiamento sono costantemente minati dalla spinta alla continuità proveniente dai suoi amici. Accattone porta Stella a vivere da Nannina, e, addirittura, decide, tramite una "raccomandazione" del fratello, di andare a lavorare da un fabbro. Lo spirito "malandro" di Accattone riaffiora di continuo, come quando, per comprare delle scarpe a Stella deruba il figlioletto della catenina d'oro, con una rassegnazione amara che è tutto un presagio del futuro. Infatti. l'apparente rinascita di Accattone è di breve durata, appena un giorno: il tempo di scontrarsi con la durissima realtà del lavoro materiale, con la paura feroce del giudizio degli amici, con l'incapacità di tenere fermo un proposito positivo senza farsi toccare dalla disperazione della propria condizione, e Accattone crolla miseramente in una cupa e feroce depressione. Così, dilacerato, Accattone sogna il proprio funerale, la sua morte rituale di fronte agli amici di sempre, in un paradiso-cimitero pezzente e squinternato gestito da un imperturbabile becchino. Accattone rinuncia al lavoro con rabbia, e decide, non senza tormento, di sfruttare la prostituzione della rassegnata e benevola Stella. Ma il tentativo non riesce, Stella crolla di fronte al primo cliente e torna in lacrime da Accattone. Per di più, Amore, una prostituta che ben conosce Accattone, viene arrestata in una retata e portata nella cella di Maddalena, dove fa la spia sui cambiamenti intercorsi nella vita del suo ex-protettore. Maddalena, ferita nell'orgoglio, decide di denunciare Accattone. La polizia comincia a controllarne i movimenti. Così, mentre Accattone, alla ricerca di cibo per sè e per Stella, accetta l'offerta di Balilla di partecipare a qualche furto, la polizia è pronta a intervenire. Durante il furto di alcuni salumi, infatti, Accattone, Balilla e il giovane Cartagine vengono colti in flagrante dalla polizia. Accattone però riesce a fuggire rubando una motocicletta: ma la fuga, come ogni altro tentativo di riscatto di Accattone, è di breve durata. Fuori campo sentiamo i rumori di un incidente stradale. La polizia e gli amici accorrono, mentre con la testa sanguinante sul selciato scuro, poco prima di morire, Accattone dichiara la sua avvenuta liberazione, il compimento del suo tragico destino, dicendo semplicemente...“Ah. mo' sto bbene”.
Il film si chiude sul segno della croce fatto meccanicamente e senza emozione dal ladro Balilla in manette, sulle note della Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach.

 

COMMENTO 

Il "mondo a parte" descritto da Pasolini nel film era come l'ultima scia di qualcosa di davvero preistorico, nel senso di precedente alla condizione borghese dell'essere-nella-Storia: un mondo assoluto, sciolto dai legacci della Ragione Dominante, in cui si sopravvive solo attraverso una ferina ingenuità senza spazio per i sensi di colpa, un mondo in cui aleggiava un polveroso senso di morte in vita, un'allucinata serenità non senza allegria, simile all'ultima sigaretta del condannato a morte. Pasolini, in strabiliante sintonia con i filosofi della scuola di Francoforte e in particolar modo con Theodor W. Adorno, dichiarava preistorica anche la società borghese a quel mondo contemporanea, ma preistorica in un senso del tutto differente: preistorica perché viaggiante verso la Nuova Barbarie capitalistica, quella tecnocratica, basata sul depauperamento della coscienza e sull'assimilazione e la digestione di ogni diversità, attraverso un'irresistibile estetizzazione della merce. Una società violentemente razzista, la cui apparente tolleranza viene in realtà usata come arma di ricatto per imporre la giustificazione delle tendenze più regressive e violentemente antidemocratiche, per lasciare spazio illimitato all'ottusa colonizzazione della cultura attraversa la sua illimitata mercificazione. E la vaga somiglianza percepibile all'epoca tra queste due preistorie parallele era, secondo Pasolini, "del tutto casuale".
La storia "astorica" del sottoproletariato è da sempre ferma alla rivolta individuale contro uno strapotere sovrastante quanto distante e sconosciuto: ma la rivolta non può trasformarsi in rivoluzione poiché il sottoproletariato non è mai stato una classe omogenea con una coscienza di sè, ma un gruppo eterogeneo la cui unica caratteristica comune è imposta dall'esterno, ed è l'indegnità sociale. Un gruppo in cui per di più vige la legge del più forte, e dove esiste a stento una solidarietà che confina con la pietà di sè e degli altri. Il dolore feroce del sottoproletariato per la propria condizione è infatti pieno di risentimento, ma del tutto estraneo alla sana rabbia della "coscienza" proletaria, perché senza speranza di riscatto: una condizione tragica, vitalisticamente disperata, per molti aspetti simile a quella dell'intellettuale borghese anti-borghese Pasolini.
Per Pasolini infatti quelle stesse leggi che un sottoproletario ignorava per furbizia, in base alle leggi della pigra sopravvivenza del succubo, o per semplice, terrorizzata incoscienza, sono ignorate per rifiuto, attraverso una precisa presa di coscienza contro il modello di sviluppo che da esse è sotteso. E la disperazione, che nell'animo sottoproletario nasce dall'impotenza, nella lucida analisi pasoliniana è la conseguenza di un'impotenza di secondo grado: quella di chi può parlare solo a patto di confondersi con l'altra merce, di diventare voce del coro e così scomparire. Ulteriore tratto in comune è, come conseguenza della disperazione, il non potersi rassegnare, il dovere scommettere su se stessi con il disincanto di chi sa che tutto probabilmente sarà vano.
Per questo ogni tentativo come quello di Accattone, di opporre una caparbia disobbedienza al tragico destino della propria condizione, somiglia a quello di Pasolini. E come per il destino che di lì a quattordici anni attendeva Pasolini, anche quello di Accattone non poteva che concludersi con la morte, unica vera libertà concessa dalla società eugenista agli uomini "senza dignità" che ignorano (come Accattone) o rifiutano (come Pasolini) le leggi della Ragione Dominante.

La sconfitta di Pasolini nella sfida aperta con la società benpensante era dunque già scritta fin dall'inizio. Infatti, quando Pasolini si accinse a descrivere questa "cultura altra" in seno a quella ufficiale, in Italia già serpeggiava il cambiamento da quella società politica della "ricostruzione" dei dopoguerra, che la scrittore definiva «in perfetta continuità col regime fascista», alla nuova barbarie del boom economico, quella dell'industria culturale di massa, che attraversa il miraggio dell'integrazione economica e sociale, avrebbe ottenuto di lì a poco la sua vittoria: l'omologazione a sè di tutte le "diversità" residue.
Quando il film fu trasmesso per la prima volta in TV, nel 1975, Pasolini scrisse in un celebre corsivo sul “Corriere della Sera” che ai suoi occhi “Accattone” non era più altro che un "prelievo di laboratorio" effettuato su una società che stava scomparendo, tanto nella sua classe dominante quanto nel suo sottoproletariato, oltre che nella lingua, nelle abitudini, nel modello di vita: l'Italia dell'estate del 1960, come tiene a specificare Pasolini, quella del governo Tambroni formato con l'ausilio di missini e monarchici, era in realtà il complesso residuo di un tempo che si stava autofagocitando definitivamente. Così il regista descrive questo processo:
“Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di una di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la grandiosa metropoli plebea, avrei avuto l'impressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. Le SS di Hitler, appunto. I giovani - svuotati dei loro valori e dei loro modelli come del loro sangue - e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere: quello piccola-borghese”.

Pasolini aveva dunque immortalato nel suo film gli ultimi latori di una "atroce condizione umana", dialetticamente contrapposti, nella "purezza" della loro ignoranza della storia borghese, alla società dell'apparenza, altrettanto caduca e transitoria, di quegli anni. Allora dunque era ancora passibile tentare di descrivere una vita intatta dalla morale borghese, anche se non in grado di contrapporle alcuna morale: uno di questi sottoproletari aveva infatti molto di più in comune con un uomo della sua condizione vivente nel medioevo che non con un suo contemporaneo appartenente alla classe ideologicamente dominante. L'ideologia del miserrimo Cataldi Vittorio detto Accattone è infatti un'ideologia negativa, religiosa alla rovescia, relegata al destino e ai suoi pagani, millenari valori assoluti, quelli del cieco accaparramento della propria sopravvivenza. Tutto ciò che oltrepassa la vita alla giornata, persino l'esperienza rinnovatrice dell'amore, non gli è concessa. Tutto può entusiasmarlo appena per un breve istante, ma quando esce dalla condizione di sogno irraggiungibile per diventare realtà, subito si confonde allo squallore della vita, si sporca, é troppo bello per durare. Per questo Accattone non vive che la morte dell'esperienza, e non può essere liberata che dall'esperienza della morte.
Ciò che all'epoca spingeva Pasolini a dipingere l'epos del sottoproletariato romano era l'utopia, di origine marxiana, del supporre in chi fosse intatto dalla logica dominante il germe di una storia futura, di là da venire, basata sui valori di una spontaneità anche vicina a quella predicata da Cristo nel Vangelo, ma soprattutto intesa come rottura di quella "seconda natura" sociale che è il modello comportamentale imposto dalla classe dirigente: se un proletario infatti corre sempre il rischio della corruzione proveniente dal miraggio del passaggio alla classe piccolo-borghese a contatto con la quale egli vive, il distacco definitivo del sottoproletario la pane al di fuori di questa rischio (ma anche al di fuori di qualsiasi altra forma di evoluzione). L'assoluta potenzialità rinnovatrice dell'essere completamente al di fuori del vincolo sociale si trasforma così nell'esserne completamente all'interno non appena 1a colonizzazione culturale da parte di chi possiede i mezzi di persuasione ha inizio. Il "genocidio" lamentato da Pasolini, dunque, per paradosso, non era che lo sviluppo di quell'etica senza morale sospesa nel tempo, di quell'estraneità incosciente che poteva essere l'unico punto di forza palingenetico di questo mondo.
La narrazione di “Accattone” è affidata ad uno stile del tutto simile a quello "bocciato" da Fellini: una fotografia nitida e contrastatissima che affida la sua forza espressiva ad un'alternanza poeticamente scomposta di primissimi piani statici, dettagli, controcampi panoramici e campi lunghi con un ritmo interno concitatissimo; i movimenti di macchina ridotti all'essenziale, anche quando, come nei due celebri carrelli su Accattone che cammina in strada, si tratta di sequenze molto lunghe. Un discorso a parte merita l'uso del suono nel film. L'aperta provocazione di utilizzare uno dei capisaldi della tradizione musicale religiosa, La passione secondo San Matteo di Bach, come leitmotiv per le gesta disperate dell'Accattone senza Dio, a enfatizzarne la condizione di povero Cristo che porta su dì sè i peccati di tutto un mondo senza neppure il beneficio religioso della redenzione, si alterna alle stornellate romanesche cantate con sarcasmo cattivo dai ragazzi della borgata e alle canzoni popolari con le parole storpiate in un'acre parodia del mondo. Ma fra tutte vi è una scena che merita senz'altro di essere ricordata per la sconvolgente efficacia della sua essenzialità: quella del sogno di Accattone. La scena sovraesposta e polverosa in cui si aggirano, tra detriti e calcinacci, vestiti a lutto e preceduti da angeli-chierichetti in processione, gli amici di Accattone che vanno al suo funerale, il senso di morte emanato dai corpi esanimi ricoperti di pietre dei mariuoli napoletani, l'angoscia di vedersi scavare la propria fossa all'ombra anziché al sole, sono sottolineati in maniera superlativa da un silenzio sordo, dall'assenza di qualsiasi rumore, un silenzio senza ampiezza, senza respiro, senza spazio. Solo, di tanto in tanto, qualche breve ed ellittico scambio di parole, e il respiro affannato di Accattone che sogna, fanno baluginare qualche germe di realtà in questo definitivo omaggio alla forza espressiva dell'immagine "muta", a questo silenzio vuoto che fa da contrappunto ai numerosi momenti di silenzio pieno di latrati, di motori', di urla e di vento in cui i passi sconsolati di Accattone si aggirano per tutto il corso del film.
In Accattone si addensa dunque già tutto il cinema futuro di Pasolini, per il quale non conoscere una tecnica "da specialista" ha comportato la possibilità di usarne i mezzi espressivi come se fossero sostanzialmente nuovi. Alla provocazione politica si univa dunque una vera e propria provocazione visiva, simile nello spirito a quella dell'eterno non professionista Duchamp: riuscire a guardare da una vista nuova la stessa, squallida realtà dell'osservazione quotidiana, in modo da rivelarne, pur senza cambiarne gli attributi, quell'intima drammaticità che fa corpo con una irraggiungibile, amara ironia.


Fonte:

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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