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domenica 8 dicembre 2013

Teoria dei due paradisi - Appendice a Teorema

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Teoria dei due paradisi

C’era un’alleanza dei sensi
dovuta all’adorazione unica di qualcosa di eretto,
in quel mondo
che aveva un lineamento solo, come il deserto
in un colore leonino, caldo di un sesso sconosciuto
come una stella di cui sia rimasta la sola luce
– era era la stagione del sole.
In quella luce arancione e senza fine,
nel cerchio del deserto come un grembo potente,
all’oscuro delle erezioni paterne ma nel loro calore
(quasi di toro ingenuo, di uomo tosato come i giovani),
il bambino godeva il paradiso: la protezione
aveva un sorriso di coscritto, la pazienza di un re,
ed Egli stava lontano, o arrivava forse con un viso
lievemente ironico, com’è sempre chi protegge
il debole, il tenerino – ch’è quasi una donna.
L’odio sorse improvviso, e senza ragione.
Il bambino odiò forse quell’uomo
per la sua troppa innocenza.



Il grembo ch’era come un sole coperto da nuvole
dolci e potenti, il grembo di quell’uomo lontano,
divenne un oscuro fondo di calzoni,
forse s’immiserì, perdette l’innocenza equina,
non fu che umano. E il bambino obbedì.
Venne il giorno che cade fuori dalle lontananze
arancione del deserto,
si vedono i primi palmizi,
la prima pista che si perde muta fra le dune.
E il bambino perdette il paradiso.
Il padre lo cacciò, punendolo
per il suo desiderio di essere punito:
obbedì anch’egli dell’obbedienza del figlio
(anch’egli aveva un padre?).
Quel primo paradiso restò così nel deserto
di una verde regione,
o di una piccola città di provincia -
– nelle case dalle tende bianche di una nonna paterna,
ed altezze impossibili, dove per sempre fu perso
il calore della fecondità del padre ragazzo.
Il bambino cadde a capofitto sulla terra,
perdette il nome di Lucifero e prese, insieme,
quello di Abele e quello di Caino (così fu almeno
nelle terre
tra l’ultimo biancheggiare del mare
e il primo rosa dei deserti africani).
Era il nuovo paradiso, e in mezzo
a primule e viole
c’era la madre con la sua pelliccia povera
odorata di precoce primavera.
Com’era terrestre, dolcemente terrestre
la sua dolcezza di bambina, che non ha
orizzonte diverso da quello
che i genitori, o i fratelli, o il marito le assegnano:
e rassegnata, ma piena di fantasia,
sogna, oltre quell’orizzonte, terre solo più felici,
ed eroiche,
senza osare desiderarle per sé,
ma desiderandole solo per quel figlietto al suo fianco,
anche lui tutto imperlato del fresco delle primule.
Scorreva un fiume, in quel paradiso,
e ognuno può dargli il nome che vuole,
ognuno ha il suo, ch’è sempre lo stesso;
perché la casa dove la madre e il nuovo padre alloggiano
dopo il matrimonio, è sempre nei dintorni di un fiume.
Esso può scorrere tra una campagna potentemente verde
oppure tra le dune delle rive del mare:
o può essere pargolo
tra rocce sparse a caso al sole.
Non importa. Intorno a quel fiume profondo e verde,
oppure magro d’acqua tra i sassi asciutti,
crescono da soli i frutti, e hanno nomi di paradiso,
mele, uva, ciliegie. E i fiori, gli inutili fiori,
non montano meno di loro: e anche i loro nomi
sono meravigliosi, primule, appunto, o girasoli,
o le rose di macchia, con quei petali che si sfanno
tra le spine, o i bucaneve, o i fiori dei tigli...
Anche il sole è una creatura amica,
addolcita dall’indifesa idea che la madre
comunica al piccolo figlio coraggioso al suo fianco;
e come nasce al mattino, muore alla sera,
e lascia il posto a quelle stelle che il bambino
deve appena vedere, e lasciare ai loro silenzi.
Ma non tutte le madri sono innocenti!
E anche la più innocente delle madri
– e non si sa come possa averlo fatto –
è sottostata a ciò che per il figlio
è spaventoso scandalo.
Un usignolo cantava disperato
anche quando nessuno l’udiva
ai margini del paradiso.
E lo stesso odio senza ragione,
nato da solo, come un frutto o un fiore
del paradiso terrestre – rinacque.
La nostra vita è un folle identificarsi
con coloro che qualcosa di immensamente nostro
ci mette accanto.
Fummo, così, la madre che pecca davanti al frutto
del pianto senza perdono, al frutto
ignoto a noi, terrorizzati dal suo mistero
che resuscitava i giorni del padre
– anteriori a quelli del paradiso terrestre.
Risplendette di nuovo il sole del deserto
su quel piccolo pomo umano, meta di povera gola.
Ma era terrificante,
come appunto, il sole di un altro tempo,
di un altro mondo:
il solito sole di ogni giorno se ne stava
in disparte, segregato come in un improvviso dicembre,
e l’altro fiammeggiava; solleone e peste;
a creare un profondo silenzio,
e la mamma, ch’ era il suo bambino,
addentò con materna innocenza e figliale malizia
quel frutto estivo.
Subito il nuovo padre – che in confronto all’ antico
era come questo gramo sole d’inverno in confronto
a quello che fiammeggiava su lui, delle Prime Estati –
seguì il suo esempio, umile uomo della terra,
facilmente tentato e facilmente corrotto.
Anche con lui ci eravamo identificati
perché, in quanto noi stessi, non potevamo esistere:
potevamo esistere solo se eravamo il padre, la madre.
Peccammo con le loro bocche, con le loro mani.
E il Primo Padre ci cacciò.
Perdemmo così anche il secondo paradiso.
Due sono dunque i paradisi che noi abbiamo perduto!
Stretti per mano alla madre
prendemmo le strade del mondo.
Lucifero si staccò da Abele
e seguì il suo destino
finendo nel buio più profondo.
Abele morì
ucciso da se stesso col forne di Caino.
Insomma non restò che un figlio,
un figlio solo.
Questo almeno è avvenuto nelle terre
dove dodicimila anni fa si ebbe la prima seminagione,
e, dopo un millennio da questo avvenimento,
fu nominato un re padrone degli uomini moltiplicati,
tra l’ultimo biancheggiare del mare e il primo
rosa del deserto. Quanto vasellame colorato!
Dovemmo guadagnarci la vita:
questo ci tolse a noi, e fu ed è il primo inferno
– questo, questo, che tu visiti e ricordi.
Ma sotto all’inferno c’è un altro inferno,
come prima del paradiso c’era un altro paradiso.
E come non puoi avere che un’ombra di memoria
di quel paradiso, così non puoi avere che un vago
sospetto di questo secondo inferno: che vivi
e non sai,
e tolto a te stesso, povero figlio
con una falsa idea di sé,
con un insignificante ricordo
di genitori invecchiati o morti,
con una vita quotidiana dove il lavoro
(tranne i rari casi in cui è un ornamento del sesso)
è una necessità della vita che annienta la vita.



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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