"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini Questioni tecniche, questioni critiche (e dei critici)
Pasolini la quotidiana eresia, di Ferdinando Di Giammatteo
Lo scandalo Pasolini
Rosso e Nero
gennaio/aprile 1976
( © Trascrizione da cartaceo, curata da Bruno Esposito )
Non ricordo il primo film che vidi perchè ero troppo giovane. Ma ricordo il primo contatto con il cinema. Avevo cinque anni. Contatto, diciamo. fatidico, con una sfaccettatura sicuramente erotico-sessuale, Ricordo che guardavo il manifesto di un film; si vedeva una tigre che sbranava un uomo. Naturalmente, la tigre stava sopra l'uomo, ma per qualche misteriosa ragione, mi sembrò, nella mia immaginazione infantile, che la tigre avesse per metà inghiottito l'uomo e che l'altra metà spuntasse ancora dalla sue fauci. Mi venne una voglia terribile di vedere il film. Ovviamente i miei genitori non mi ci portarono, e ancora oggi ne provo un forte dispiacere. Ecco. questa immagine della tigre che mangia l'uomo — immagine masochistica e, forse, cannibalica — è la prima cosa che mi è rimasta impressa, anche se naturalmente vidi altri film a quell'epoca, ma non me li ricordo.
Quando avevo sette-otto anni, e noi abitavamo a Sacile. andavo al cinema parrocchiale. Ricordo frammenti di qualche film muto, e ricordo anche il passaggio al cinema sonoro. II primo film sonoro che vidi era un film di guerra.
Questa è la mia preistoria cinematografica. Più tardi, a Bologna, mi iscrissi a un circolo del cinema e vidi alcuni classici: tutto René Clair, i primi Renoir, qualche Chaplin, ecc. Li cominciò il mio grande amore per il cinema. Ricordo che partecipai a una selezione locale per i "littoriali" e che scrissi un dramma dannunziano, barbarico e sensuale. La guerra, poi, bloccò tutto. Dopo la guerra venne il neorealismo. Ricordo in particolare che andai apposta da Casarsa a Udine per vedere Ladri di biciclette. Ricordo soprattutto Roma città aperta, che vidi in Friuli: fu un autentico trauma, lo ricordo ancora con emozione.
Pasolini on Pasolini 1969
Il tirocinio cinematografico di Pasolini non ha nulla di eccezionale. E' quello della sua generazione, passata dal cinema muto alle prime esperienze nei circoli del cinema universitari ( i Cineguf ), con la scoperta dei classici, al contatto con il neorealismo. A Roma Pasolini conosce quasi subito il cinema da professionista (grazie alla mediazione di Giorgio Bassani: nel '53, è sceneggiatore di La donna del fiume). Nasce, a poco a poco il bisogno di esprimersi in proprio. Delle sue insoddisfazioni di sceneggiatore ha parlato più volte. Del primo, vago progetto di regìa v'è traccia in questa intervista {trovata dattiloscritta fra le sue carte), che risale al 1959, quando lo scrittore stava sceneggiando Il bell'Antonio di Bolognini:
Amo il mondo del cinema, pur con tutti i suoi difetti: mi è più simpatico un lestofante cinematografico che un bacchettone letterato. Forse è perché una frattura ideologica ormai quasi insuperabile mi divide dalla media dei letterati italiani: è questa una cosa che non posso ignorare. Mentre la gente del cinema, produttori, attori, e anche registi, il rapporto è quasi esclusivamente sentimentale e tecnico: si possono ignorare le reciproche posizioni ideologiche. Comunque il qualunquismo "cinematografaro" è più avanzato e spregiudicato di quello letterario. A parte questo, mi sembra che il lavoro di sceneggiatore sia molto utile anche al lavoro letterario: è un apporto tecnico, comunque. Ricordo che ai primi tempi del mio lavoro cinematografico, gli amici mi consideravano transfuga, perduto, traditore, eautontimorùmenos: adesso constato con piacere che in due o tre critiche a Una vita violenta è stata notata un'influenza positiva del lavoro cinematografico nel mio testo. Aggiungo poi ( e si tratterà, come diranno subito gli speculatori feroci e idioti, di una mia mania sperimentalistica ) che vorrei addirittura preparare un film mio; debuttare, insomma, come regista: o, diciamo meglio, come autore cinematografico, dato che non fuoriuscirei certamente dal mio mondo ideologico e stilistico.
Le avventure che condussero Pasolini alla realizzazione di Accattone (la difficile ricerca del produttore, l'esame impostogli da Fellini) sono note: se ne può leggere il resoconto in forma di diario in Accattone, edizioni FM, 1961, con una prefazione di Carlo Levi ( << Pasolini si servito di una tecnica diretta, asciutta, apparentemente ingenua. riprendendo - credo consapevolmente - alcuni dei modi di quella che fu l'avanguardia del grande periodo del cinematografo tra il '30 e il '35 >> ).
Il film nacque sotto il segno della facilità-felicità tecnica. Fra le molte testimonianze, scegliamo le più curiose, evitando di approfondire i problemi teorico-pratici di questo approccio al cinema ( per i quali vanno consultati i saggi e le interviste sulla semiologia ). Anzitutto, la sicurezza, il sentimento — profondo, ostentato — di << essere nato per il cinema >>.
La mia passione per il cinema è cosi strettamente legata alla mia evoluzione personale, ne fa cosi intimamente parte, che alcune mie opere letterarie dell'epoca [gli anni della guerra] erano scritte come fossero destinate a diventare sceneggiature, prima che avessi girato un solo metro di pellicola. Non ho mai avuto bisogno di alcuna specifica cognizione di tecnica cinematografica. La mia educazione cinematografica non si appoggiò ad alcun aiuto esterno. Quando finalmente cominciai a girare film, scoprii che giungevano a proposito le mie iniziali esperienze filmiche, prima di cominciare un film ho cosi chiara in mente la successione delle immagini che posso fare a meno d'una precisa conoscenza dei dettagli tecnici. Non ho bisogno di sapere che un certo tipo di ripresa si chiama panoramica per far muovere la macchina da presa in un certo modo su una certa realtà.
Der Taggsspiegal gennaio 1966
Sulla differenza tra << scrivere un romanzo >> e << girare un film >> due battute tratte da interviste con Adolfo Chiesa e Alberto Arbasino: la prima in coincidenza con l'uscita di Accattone, la seconda quando il regista lavorava a La terra Vista dalla luna, l'episodio delle Streghe.
Chi le ha detto che l'attività del regista sia febbrile, mentre quella dell'uomo di lettere sarebbe più calma e meditata? Tutta retorica, mi scusi. Non c'è niente di più febbrile che scrivere, in certi momenti, una pagina di romanzo; e di più dispendioso e disordinato della vita pratica che vortica attorno a quella pagina. Mentre ci sono certe mattine ( con quel sole, a via del Pigneto o a Casal Bertone...) con tutta la troupe efficiente e silenziosa, che si dà da fare intorno — ci sono delle mattine in cui nessun lavoro più calmo e meditato di quello del regista. Anzi. il lavoro del regista mi piace appunto per la sua calma, il suo distacco, il suo ordine.
Paese Sera luglio 1961
Fare un film è facile come fare un romanzo, oggi. Anzi, più facile: perché si fa più in fretta, sei mesi invece di due o tre anni. E oltre tutto, il linguaggio e la tecnica del cinema attualmente permettono di realizzare compiutamente una propria idea, anche senza ricorrere ai grossi mezzi commerciali. Il solo vero nemico è il sole: la luce che ti cambia mentre prepari l'inquadratura. Ma questo fa parte delle difficoltà obiettive, come le costruzioni della terza rima per Dante: la vera difficoltà è il dover esprimere un concetto complicato e preciso disponendo soltanto — mettiamo — delle possibilità di una rima in "occio".
Il Giorno, novembre 1966
Per i problemi tecnici complessi — uso e invenzione del linguaggio cinematografico — e per il significato che hanno avuto di volte in volta nella carriera dell'autore, si rimanda ai saggi (in Empirismo eretico) alle prefazioni e note nei volumi delle sceneggiature, al contributo di R. Turigliatto. Qui, invece, si può accennare a una questione specifica che investe la tecnica in modo, per cosi dire, esistenziale: il rapporto di Pasolini con il mezzo, il rapporto con gli attori.
Nel lungo colloquio che Bernardo Bertolucci e Jean Louis Comolli ebbero con lui a Pesaro nel 1965 (alla mostra egli aveva letto la relazione sul << cinema di poesia >>) si trova un'osservazione sullo stato d'animo dell'autore:
Sono arrivato al cinema che ero sui quarant'anni, e questo fatto è fondamentale: il mio primo film l'ho fatto semplicemente per esprimermi in una tecnica diversa, di cui non sapevo nulla e che imparai in questo primo film. E per ogni altro film ho dovuto imparare una tecnica diversa, adatta al caso. Quando facevo letteratura, cambiavo continuamente tecnica letteraria. Ciò corrisponde al mio modo di comportarmi di fronte alla realtà. Sono un ossesso che adotta tuttavia diversi modi di espressione e cambia di volta in volta tecnica, dalla tecnica della poesia dialettale a quella del romanzo naturalistico o mimetico, o discorso libero indiretto, o saggio.
Cahiers du cinéma agosto 1965
Cambiare tecnica da film a film richiede rigore. E il rigore presuppone l'elaborazione approfondita dei materiali tematici, tecnici e stilistici.
Non improvviso mai. In Accattone e in Mamma noma, tutte le battute e tutte le azioni erano indicate nella sceneggiatura. Per gli attori, ho una mania. Non rifiuto gli attori professionisti, li ho utilizzati, ma non mi piace. Mi piace essere padrone del mio lavoro, come quando scrivo un libro o una poesia. L'attore invece, per sua formazione, aggiunge sempre qualcosa di propria. E io preferisco avere l'intera responsabilità del lavoro.
Las Lettres françaises settembre 1965
Il mio modo di girare rifiuta l'insegnamento del neorealismo. [...] Il neorealismo usa, per imitare le vita, inquadrature lunghe e sequenze che tentano di riprodurre il ritmo della vita quotidiana, reale. [...] Per parte mia, cerco di ricostruire tutto, di non riprodurre naturalmente ciò che accade nella vita, uso la tecnica del campo-controcampo appunto per evitare la narrazione a tempi lunghi. E' evidente che in questo caso la recitazione dell'attore finisce per essere mutilata, o, meglio, spezzettata. E l'attore non può più ricorrere in alcun modo agli "effetti" di cui abitualmente si serve. Inoltre, é tale l'importanza che attribuisco al montaggio che della sua personale "abilità" di attore resta ben poco. In effetti. gli attori mi interessano solo quando gli faccio recitare parti di attori.
Entretien avec Pasolini, (J. Duflot), 1970
Se la regola della ricostruzione, é rimasta fissa per l'intera filmografia, quella dell'impiego dei non attori ha resistito — con eccezioni — per Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, ha ceduto parzialmente in Uccellacci e uccellini, è stata rinnegata in Edipo re, Teorema, Porcile e Medea ed è stata ripresa con la trilogia della Vita e Salò. Vediamo come l'ha applicata, poi vedremo come ha trattato le eccezioni.
All'attore (l'attore non professionista) non dico nulla. Non gli spiego nemmeno il personaggio che deve interpretare. Perché io non scelgo un attore che interpreta. Io scelgo per quello che è. Ossia, non ho mai chiesto a nessuno di trasformarsi in qualcosa di diverso da quel che è. Naturalmente. la faccenda è un po' più complicata quando si tratta dei protagonisti. Per esempio, il giovane che impersonava Cristo nel Vangelo era uno studente di Barcellona. A lui dissi che stava recitando la parte di Cristo e niente altro. Non ho mai discusso con lui prima di girare. Non gli ho mai chiesto di trasformarsi in qualcosaltro, di sentirsi "Cristo". Gli ho sempre detto di essere quel che era. […] In realtà. il mio metodo consiste semplicemente nell'essere sincero, onesto, acuto e preciso nello scegliere uomini che abbiano un'essenza psicologica autentica e genuina. Una volta scelti, il mio lavoro ne risulta enormemente semplificato. Con loro non devo fare quel che faccio con gli attori professionisti: dirgli quel che devono e quel che non devono fare, che personaggi sono. ecc. Gli chiedo semplicemente di dire queste o quelle parole con un certo stato d'animo, e basta. […] Per Cristo, scelta la persona con una psicologia che era più o meno quella che mi serviva per la parte, non l'ho mai costretta a fare cose specifiche. Gli davo suggerimenti di volta in volta, momento per momento, scena scena, azione per azione. Gli dicevo: << fà questo >> o << arrabbiati >>. Non gli dicevo nemmeno come. Gli dicevo semplicemente: adesso ti arrabbi e lui si arrabbiava nel modo che gli era consueto. Tutto ciò è facilitato dal fatto che non giro mai scene intere. Sono un regista << non professionista >> ho dovuto << inventarmi >> una tecnica che consiste nel girare frammenti molto brevi di azione. [...] Per questo, anche se impiego un non-attore privo di tecnica, costui sarà sempre in grado di sostenere la parte — l'illusione — perché la ripresa è brevissima. Non avrà l'abilità tecnica dell'attore, ma non si sentirà mai perduto, non si irrigidirà mai. Gli altri registi fanno provini, io non li faccio mai. Dovetti farne uno per il Cristo, non per me, ma per il produttore che voleva una certa garanzia. Quando scelgo gli attori. istintivamente scelgo sempre gente che sa recitare. E' un istinto che non mi ha mai tradito, tranne in qualche caso minimo e specialissimo. Cosi ho scelto Franco Citti per Accattone, Ettore Garofoli per Mamma Roma, un giovane delle baracche per La ricotta. […] Allo studente che faceva Cristo davo indicazioni molto vaghe su quel che doveva fare. Giro muto, quindi posso parlare con l'attore durante la ripresa. Gli dicevo: << Ora guarda me... a ora guarda in terra con un'espressione arrabbiata.., ora con un pò meno di rabbia... guarda verso di me, attenua la rabbia, lentamente, molto lentamente. Ora guarda me! E la macchina girava >>. Talvolta usavo la sorpresa. D'improvviso gli dicevo: << Adesso guarda me con una espressione dolce >>. E mentre lui lo faceva, gli dicevo di colpo: << Adesso arrabbiati! >>. E lui obbediva […] In altri film, se dovevo far pronunciare una battuta che non corrispondeva al senso che essa aveva nel testo, usavo questo sistema. Supponiamo dovesse dire: << Ti odio >>. Gli facevo dire: << Buon giorno >>. Secondo logica, avrei dovuto dirgli: << Ecco ora dì Ti Odio come se di dicessi Buon giorno >>. Ma è un ragionamento piuttosto complicato per uno che non è un attore. Cosi gli chiedevo Semplicemente di dire << Buon giorno >>. In doppiaggio, poi, gli avrei messo in bocca << Ti odio >> […] I gesti. Non ho mai fatto fare ai miei non-attori gesti che non fossero loro naturali. Gli dico quel che devono fare — per esempio, dare uno schiaffo a qualcuno, prendere un bicchiere — e li lascio fare come vogliono. Non intervengo mai. Se ho bisogno di sottolineare qualche azione, lo faccio con i mezzi miei, con mezzi tecnici: con la macchina da presa, con l'inquadratura, con il montaggio, Non glielo faccio fare a loro. Sto sempre molto attento a non indicare le << intenzioni >>, perché le << intenzioni >> sono la parte più artificiosa della recitazione. […] (Per ottenere particolari reazioni emotive) non ho mai dovuto ricorrere (a trucchi). Se fosse necessario, lo farei. Ma non mi è mai accaduto perché i miei attori non hanno inibizioni piccolo-borghesi. Non gliene importa niente. Fanno quel che gli dico, generosamente, Non hanno il convenzionalismo o la falsa modestia degli ipocriti.
Film Comment autunno 1965
Questa esposizione tecnica (ricavata da una preziose intervista di James Blue) è un vero e proprio trattato di recitazione, o di non recitazione. Pasolini, come ogni regista che << si. inventa >> la propria tecnica, costrui il metodo empiricamente, film dopo film. E' lo stesso metodo di Rossellini, quando impiegava, e impiega, i non attori; e di altri registi del neorealismo, che pure partivano da premesse teoriche diverse. Non è quello che fu di De Sica, il quale, attore egli stesso, usava << recitare >> la parte dell'attore — ogni gesto, ogni parola, ogni sfumatura — e all'attore chiedere una mimesi il più possibile accurata. Come si conciliava questa tecnica con quella degli attori professionisti, che più volte Pasolini utilizzò, dapprima quali eccezioni (Anna Magnani, Orson Welles, Totò) e più tardi a pieno titolo, per poi tornare (e finire) ai non attori? Occorre distinguere, appunto, tra la prima e la seconda fase. Per la prima vale l'esempio della Magnani.
Con la Magnani fu difficile. Perché è un'attrice nel vero senso della parola, possiede un completo bagaglio di nozioni tecniche ed espressive, in cui io non ero capace di entrare: era la prima volta che mi trovavo davanti un attore. Ora (1965) che ho un po' più di esperienza saprei affrontare il problema, almeno. […] E credo che lo si affronti sfruttando il fatto che si tratta di attori. Come con i non-attori uso tutta una serie di mosse inattese e impreviste (per esempio. quando gli chiedo di dire << Buon giorno >> invece di << Ti Odio >> lasciandoli vivere nella ambiguità del loro essere, cosi con gli attori mi devo comportare usandoli specificamente per il loro bagaglio di attori. Se usassi un attore come se non fosse un attore, sbaglierei. Nel cinema — nel mio cinema, quanto meno— la verità presto o tardi viene fuori. D'altra parte, se uso un attore che sa di essere un attore, e perciò lo uso per quello che è e non per quello che non è, ho la speranza di riuscire. Naturalmente, il personaggio che egli interpreta deve adattarsi all'idea che l'attore ne ha.
I criteri con cui scelgo gli attori dei miei film sono sempre gli stessi: scelgo un attore per quello che è e non per quello che ha l'abilità di sembrare. Non sempre ci si riesce perché alle volte cosi come sono non corrispondono al personaggio; quindi ci si deve fatalmente accontentare, in questo senso, di approssimazioni, soprattutto per i film di ambiente e di carattere borghese, per i film proletari basta andare per la strada e si trova subito uno disposto a dare se stesso veramente, totalmente, senza mediazioni, senza paure, senza pudori, senza il senso del ridicolo, generosamente insomma. Mentrel'idea di prendere un industriale milanese che facesse un industriale milanese in un film praticamente irrealizzabile e cosi la moglie di un industriale, cosi i figli di un industriale; quindi c'è fatalmente, nella scelta degli attori, un certo compromesso. [...] Nei miei film non faccio mai dei piani-sequenza appunto perché i piani-sequenza permettono l'abilità dell'attore. Se io punto la macchina da presa su un uomo dal popolo, su un ragazzo del popolo, su una vecchia contadina, allora il piano-sequenza andrebbe benissimo ugualmente, soprattutto se loro non se ne accorgono. Ma se io là metto un attore, allora viene fuori l'attore e si perde la sua realtà. In Teorema ho fatto dei piani-sequenza più lunghi del solito per certe situazioni particolari. Però, tutto sommato anche questo film l'ho girato a rapidissimi frammenti, in cui cogliere l'espressione essenziale, di volta in volta, e non permettere all'attore di sfoggiare sfumature e abilità, al di fuori della sua natura reale.
Io (come tutti i registi) per una decina d'anni ho cosi violentato la gente, << adoperandola >>: e ho tacitato la mia coscienza con la scusa dell'arte (o del cinema d'autore). Ma guai invocare l'arte, tu lo sai! E' il peggiore dei delitti spiritualistici. Solo col Decameron ho fatto tutto questo come un << gioco >>. Ho fatto << giocare >> gli attori. […] Dire al bibitaro di Mergellina; Ueeh, guagliô, vieni qui. indossa questi bei panni di feltra e d'oro, recita, presta il tuo usignolo, cosi vivo, a un certo Riccardo, morto da tanti secoli, facciamo insieme questo bel gioco Non chi non veda come il cinema, inteso cosi, venga a rassomigliare in modo straordinario a quel rito sublime che è stato nei secoli il teatro. Non ho preteso nel Decameron di esprimere la realtà con la realtà, gli uomini con gli uomini, le cose con le cose, per farne un'opera d'arte, ma semplicemente per giocare appunto, con la realtà che scherza con se stessa. Malgrado la violenza non effabile della realtà, che passa a palate sullo schermo, il Decameron si presenta, credo per la prima volta nella mia carriera, come un film recitato. […] Strano a dirsi, << giocare >> al cinema vuol dire essere professionisti e... fare del realismo. Tutto ciò che ho ricostruito nel Decameron, costumi e ambienti, l'ho voluto ricostruire il più realisticamente possibile. […] L'elemento innaturale nel gioco nell'accezione francese del termine, non nella ricostruzione dell'ambiente in cui si gioca. […] Io e gli attori […] abbiamo fatto amicizia sul set come compagni di viaggio in un vagone di seconda, dopo aver bevuto insieme un bicchiere di vino.
<< Non sto facendo della poetica. Siamo ancora alla linguistica, a una fase appassionatamente grammaticale. Siamo agli inizi di tutto: occorre ricercare le leggi >>.
( << Essere per apriori fedeli alla Resistenza è un atto anti-storico, quando della 'Resistenza e del suo alone letterario si tende a fare un mito, una cristallizzazione sentimentale e stilistica >> ),
Non credo che la mia poesia si possa chiamare << civile >> non lo è per definizione, in quanto è poesia di opposizione, continua, quasi aprioristica: mentre la poesia << civile >>, come si è intesa e fatta finora, è sempre stata poesia consenziente alle istituzioni, o in opposizione riformistica. Nei confronti della poesia del Novecento la mia poesia è certo diversa: sostituisce il logico all'analogico, il problema alla grazia.
Per tacitare le loro coscienze, di cui nessuno sa niente, i fascisti di sinistra impongono un rigore che è quasi una santità, deboli hanno ceduto al ricatto e ora è in atto una specie di psicosi per la quale bisogna far della politica a tutti i costi. Non Ci si accorge che cosi questi fascisti di sinistra propongono una specie di neo-stalinismo, richiedono una nuova specie di realismo socialista. E' chiaro invece che un'opera d'arte dev'essere meditata, pensata, strutturata. E' puro romanticismo credere di poter cogliere la realtà cosi, con le penna a sfera. Si prendono gli appunti, con la penna a sfera. Dopo di che si lavora.
Solo in apparenza manca ai miei ultimi film uno spessore politico. Il mondo che in essi si agita è quello che prediligo, le idee che circolano sono quelle cui ho improntato tutta la mia vita, la scelta che getto in faccia al pubblico è quella autentica, contrapposta alla irrealtà cui il cinema consumistico e la televisione hanno assuefatto gli spettatori. Avere scelto un diverso tipo di espressione credo sia un mio diritto. Gli elementi che hanno concorso a farmi compiere questa scelta sono molteplici. La polemica contro un cinema facilmente politico. che volgarizza e semplifica i problemi. e serve soprattutto a tacitare la cattiva coscienza della borghesia; la voglia di tentare qualcosa di nuovo e di provare piacere nel farla; la trasformazione psicologica e la evoluzione biologica di un uomo connessa con il passare degli anni, la caduta delle illusioni, quelle di chi — a vent'anni — crede di poter rifare il mondo: adesso ho imparato che occorre continuare a lottare per ciò in cui si crede senza sperare di vincere.
La mia ambizione nel fare film è fare film che siano politici in quanto profondamente << reali >> nella loro intenzioni, nella scelta dei personaggi, in quello che dicono e in quello che fanno. Da qui il mio rifiuto del film politico romanzato. La cosa meno gradevole di questi ultimi anni sono proprio i film di moda politica, questi film politico-romanzati che sono i film delle mezze verità, della realtà-irrealtà consolatoria e falsa. E' una moda che mette a posto le coscienze e che invece di suscitare polemiche le assopisce. Quando lo spettatore non ha dubbi e sa subito, secondo la propria ideologia, individuare da quale parte stare nel film, allora vuol dire che tutto è tranquillo: ma questa è finzione. Nei miei film evito la finzione. Non faccio niente di consolatorio. non cerco di abbellire la realtà, per rendere più appetibile la mercanzia.
I critici — nessuno mi pare — sono riusciti a capire il senso che ha per me — indipendentemente dai risultati — questa esperienza. questo entrare nel più misterioso degli ingranaggi del fare artistico, questo procedere nella ontologia del narrare, nel fare il cinema cinema, cinema come si vedeva daragazzi, senza con questo cedere nel commerciale o nel qualunquistico. […] Ma nessun critico mi pare ha avuto l'immaginazione di capire questo. Ed è perciò che io vado avanti su questa strada, malgrado tutti quanti non facciano altro che chiedermi quando tornerai a fare i film di una volta? Non hanno capito che se da me si aspettano lo scandalo, lo scandalo è questo.
Non so se ha notato come la critica cinematografica sia in posizione anciliare rispetto a quella letteraria: o è puro giornalismo, superficiale e semplicistico, o è pseudo-filologia da cine-club, o è dogma e apriorismo moralistico-politico. Non bastano sei o sette buoni critici per salvare una situazione dominata da critici paroliberi alta Marotta o da fattorini di partito. Io per me considero altrettanto nocivi al cinema questi critici dilettanti, spesso moralisti in malafede, degli stessi spregiati produttori, povera gente che, secondo il costume, cerca di guadagnare il maggior numero possibile di milioni, ma che è ansiosa, in fondo. smarrita e disorientata.
Vedere i giornali che avrebbero voluto distruggere Accattone costretti ad ammettere a denti stretti che non è brutto è una vittoria, come si dice. Ma a me — voglio essere sincero — questa malafede precostituita, divenuta canone di vita, dà sempre una profonda angoscia. Non è un mondo, questo. Come si fa a vivere, giorno per giorno, atto per atto, insieme e tanta gente che vuole come soluzione della propria vita l'essere servi?
Non si può pretendere rigore, intransigenza, amore della verità, onestà, infine, da dei mestieranti, che in fondo al loro cuore di piccoli borghesi, hanno per la cultura un profondo ideologico disprezzo.
Se la critica ha una funzione o no, non lo so. Potrebbe fare impressione sull'autore. Stimi o no chi l'ha fatta. Anche la peggior critica ha sempre una funzione per l'autore. La critica può essere molto utile per i processi. Può essere una pezza di appoggio, anche se non è entusiasta ma dice soltanto che il film è artigianalmente buono. […] critici, però, non hanno la più pallida idea di come si faccia un film. Nessuno che abbia avuto l'umiltà di seguire un film da capo a fondo. Vivono di vecchie idee che avevano da ragazzi al liceo. Non sanno come si dirige un attore, non sanno niente. La critica da noi è di tipo crociano, si capisce anche nelle recensioni brevi dei quotidiani. Magari funziona, non è detto. Però è vecchia, antica. Per esempio, i critici inglesi, che non hanno mai avuto Croce, fanno critiche migliori. Un direttore di giornale, o chi per lui, dovrebbe pretendere che un suo critico avesse una reale competenza, una competenza tecnico-filologica. Secondo me è bravo Casiraghi: ha un'ideologia ed è chiaro che tira acqua al suo mulino, però non fa un impressionismo vago. Anche Moravia è bravo, fa una critica molto ideologica. La peggiore è quella di Pietro Bianchi, è la più letteraria e la più impressionistica. Morandini? Difende battaglie già vinte. E' un ideologo del gauchisme, Non ha capito che L'ultimo tango è un film bruttissimo, una Love Story, che la figura di Brando non esiste ne a Parigi né in nessun posto, robaccia. Lui invece l'ha lodato molto.
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