"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Pasolini
Insistenza della voce di Dio nella nuova poesia italiana
La Fiera letteraria
anno VI
numero 22
3 giugno 1951
in questa raccolta rischia più che mai di essere puro flatus vocis, di ... apparire del tutto gratuito, evidenziando l'ingranaggio della disperazione un po' abitudinaria del poeta a tavolino. L'esempio di poeti veramente religiosi - è meglio dirlo subito - come Eliot o Péguy o lo stesso Ungaretti, qui resta quasi del tutto inattivo. Dei cinque poeti perfettamente ligi al primo comandamento, tre, Budigna, Giglio e Guglielmi sono i più fermi al gusto ermetico Montale-Quasimodo, e il dopoguerra non ha registrato in loro l'affannosa corsa all'umano e al facile che caratterizza molta recente produzione poetica: e si capisce come in essi la «letteratura» serva a proteggerli da certe cadute, da certe effervescenze un po' disaccorte; gli altri due, Colli e Rindi, ci sembrano un po' degli stravaganti, degli isolati, e la loro aria crepuscolare spiega il disinteresse, lo scetticismo, l'adattamento al limite di un'esistenza appena credibile, rinunciataria. Citare a proposito di questo libro che in generale tende all'apertura, all'espansione, il Dolore ungarettiano, come esempio di un «ritorno degli elementi della vita dentro la poesia», di un superamento dell'essenzialità lirica (letteraria, e, nella specie, ermetica) ci sembra un po' uno sforzo di dimostrazione. Se mai, noi vorremmo citare l'Ungaretti religioso della Pietà o, più ancora, l'Ungaretti giovanissimo dell'Allegria, col suo turbamento religioso - e non certo cattolico come ora propone la lettura del Dolore -: il giovanissimo poeta che si limita a collocare Dio nel futuro, come una promessa ancora di essenzialità e di assoluto, dopo la morte: un Dio insomma da invocarsi come un beneficio, non da conquistarsi. Comunque l'Allegria registra non più di due o tre di questi appelli al Dio di dopo la morte, dell'assoluto: e con quale intensità (Dannazione, Preghiera) ! Tali da restare incisi nella memoria del lettore come tra i più alti movimenti ungarettiani, e da incapsulare, potenziali, tutti gli sviluppi del motivo religioso dell'Ungaretti, fino agli articolati e potenti sintagmi (niente affatto espansi) di Mio fiume anche tu.
Salva restando l'inimitabile grazia dell'Allegria, porremmo rintracciare delle interessanti analogie tra il «Dio» di questo libro, col «Dio» che compare, ad esempio, nella raccoltina di Morucchio, che tra i poeti di questa antologia ci sembra tra i due o tre più disincantati e accorti. Seguiamo rapidamente lo sviluppo del motivo divino: Preghiera:
«Fammi, o Signore, scordare
la roccia che frana,
le piaghe . ..
Toglimi, Iddio,
la memoria».
E il Dio ungarettiano rimandato a un futuro fatto coincidere con la perdita dei sensi (la memoria) e il profitto dell'assoluto. Poi vediamo citato ancora Dio in Esame
(«sperduto
a Dio il mio lagno drizzo a sera e il meglio attendo»),
ancora un «Dio» come ordine, contrastante con la congestione dei sentimenti contro cui sembra ormai inutile lottare: un Dio come salute, contrapposto alla malattia inguaribile del vivere («la mia solitudine è lebbrosa»). In una breve lirica intitolata tout court A Dio, il Dio rischia più ancora di essere puro flatus vocis, inattivo, mero oggetto di invocazione. Ma psicologicamente Morucchio, a giudicare da queste 23 poesie, è di una notevole complessità, se, a un poeta «buono» corrisponde sempre in lui una controfigura dotata di tutto il diabolico della coscienza letteraria: è spiegabile dunque come la sensualità che c'è sotto, quasi infranta e dissociata, lo spinga a una forma - se fosse possibile la terminologia - di cerebrale misticismo. Nel Poemetto i primi accenti di un simile linguaggio mistico affiorano:
«La rondine che sposta
la coda per l'equilibrio;
il pazzo imbucare dell'anitroccolo,
quando è mossa l'acqua da remi,
e il ridere, mio Dio,
tra risa luccicanti e spazzatura ... ».
Misticismo senza ancora vero oggetto comunque, se Morucchio in definitiva non vuole cercare l'Altro:
«Cristo e Padre:
"Sei l'Impossibile Ermafrodito"».
E più avanti, detto ancor più chiaramente:
« ... oltre il corpo non è la mia vita;
né so compiere in me le giustificazioni»
(dove il «non so») corrisponde moralmente a («non voglio»): e addirittura, con uno spostamento di persona, nel verso:
«figlio di un Padre che non sa svelarsi»
egli vorrà dire:
Io sono il .figlio di un Padre che non so (non voglio) capire.
Non ci meraviglieremo così, quando, alla fine della raccolta (in Principio e limite) avremo una specie di esplosione del linguaggio che genericamente abbiamo chiamato mistico:
« . . . (e tutto questo sia ciò che non è),
quello che è slancio
sia l'essenza e non volto del singolo;
perché tutto sia
perché tutto sia, ed io non resti solo,
la parola non è sufficiente per il principio .
Morucchio politicamente è a sinistra; e non è il solo che pur essendo razionalmente «irreligioso» si riappelli a Dio, non rompa i rapporti con Dio, instauri anzi con Dio un dialogo innovatore, almeno nell'intenzione. Sarebbe allora il caso di nominare alcuni degli aspetti della religiosità contemporanea, molto curiosi nel loro ibridismo mistico-laico, come per esempio il fenomeno dei comunisti cattolici del movimento religioso di Aldo Capitini, ecc.; ma il discorso, se iniziato, ci porterebbe troppo lontano: e basti l'accenno.
Danilo Dolci, altro caso di linguaggio mistico, sembra piuttosto decisamente orientato a una vita anche in pratica religiosa: ed è infatti uno scorcio, o meglio una traduzione riassuntiva della sua vita, che egli ci dà in queste intense Parole nel giorno: bisognerà scavare sotto il morbido della sua sensualità, che compare alla superficie dei suoi versi, per attingere a un fondo di allucinazione rigorosa, di purezza disperata, di ricerca assillante del divino (anche se Dio non è nominato neppure una volta); è un testo ancora giovanile, questo, ma non nel senso di sperimentale o inespresso, bensì in virtù del tono emanante, attraverso un'efficace, del resto, mediazione letteraria, dall'urgenza sentimentale di un giovane del '24 che ha vissuto per intero i traumi e le nevrosi dell'anteguerra, della guerra e del dopoguerra, ma vissuto, intendiamo dire, interiormente, facendoli coincidere col grande trauma della propria sensibilità davanti all'oggettivo che fin dall'infanzia richiede un'ossessiva interpretazione, e che, come nel suo caso, è un nume che si placa solo se identificato col Tu divino.
Dei due poeti che più dovrebbero interessare a questo nostro discorso, Corsaro, sinceramente, non lo comprendiamo: o meglio, la sua sensualità (in termini letterari . .. il suo dannunzianesimo) ci sembra incomprensibilmente usata come materiale per una glorificazione del creato che in pratica ha ben poco di sacro: c'è in questi versi floridi un ottimismo magari invidiabile, ma su cui pesa un sospetto quasi di dilettantismo. Paolo Wenzel invece si presenta forse come il poeta più maturo dell'antologia: maturo umanamente; il mezzo letterario resta infatti in lui spesse volte ingiustificato, soprattutto in relazione con l'impegno così seriamente dichiarato di voler obbedire al «silenzio di Dio»
(«O silenzio di Dio, devi portarmi
laggiù fin dove i timidi non sanno»).
Invece una fondamentale timidezza resta ancora in lui: mancano nel suo misticismo le bestemmie e le paurose confidenze con Dio dei mistici. Cosa sia questo Dio di Wenzel, semanticamente, non è ancora ben chiaro: ogni tanto si penserebbe al Dio dell'Allegria, per capirci, rimesso a un «dopo», col predicato verbale al futuro; oppure a un Dio da nirvana, non ancora cristiano o cattolico: oppure a un Dio negativo
(«a te, silenzio, resterò fedele»,
«Rinuncia ai gesti, lascia le parole ... »,
«Portarti voglio in me come un segreto:
Tu avrai tanta pietà da non parlarmi»).
Ciò che resta assodato invece, al di qua di tutte le contraddizioni non risolte nella lingua, è l'attività di questo Dio nella vita quotidiana, e non meramente poetica, di Wenzel: è da notarsi infatti come in tutta questa Inquietudine armoniosa, il contrasto umano-divino non sia posto nei termini abituali di imperfetto-perfetto, con tutti i presupposti moralistici che l'antinomia comporta, e tutte le vigliaccherie, i procrastinamenti, i rimorsi, ma piuttosto nei termini di incompiuto-compiuto, e non con un'ipoteca di negatività nel primo dei due termini. Di qui proviene il fatto che in quei versi di Wenzel manca la disperazione, o il disagio, e ci si ritrovi invece abbondantemente la serenità, quasi una forma di sensuale benessere (concretato in certi endecasillabi dolcemente vigorosi); l'inquietudine armoniosa, insomma. Del resto, rimane da dire che il Wenzel ha indubbiamente trovato una terminologia in molte parti nuova per esprimere la vecchia situazione mistica, dotata in certi momenti di impressionanti freschezze.
A proposito della religiosità «naturale» degli altri undici poeti, sinotticamente: Costantini: poesia molto angosciata; febbrile: la voce «Dio» vi torna come una nota più alta, una registrazione più accesa di affanno
(«Dio, Dio, pietà ti prenda
di me, di noi che il mattino
ritrova trasognati
senza speranza»).
Del Colle: è tipico il fatto che non usi «Dio» ma «Signore», variazione, per così dire, più confidenziale e primitiva: infatti qua e là, questa Lamentazione ricorda la poesia negra; «Signore», semanticamente, è il Dio di tutti, di una collettività, di cui il poeta può farsi interprete con un minimo di personalizzazione, e può prestarsi a preghiere con sfondo sociale.
Diana: in questa poesia morbidamente dedicata all'infanzia e alla memoria, Dio ha un suono tenue, attonito
(«Quante volte, mio Dio,
sono morto e rinato?»).
In Diddi, Fontanelli, Landi, Melloni (per Fabbri il caso è particolare), il problema, la presenza di Dio non è che accennata, motivo di fiancheggiamento, .ma, per così dire, sempre pronto a invadere il testo, nella perentorietà di una citazione, nell'abbandono di una esclamazione: pensiero che accompagna segreto e urgente, che matura.
Una conclusione? Noi non la possiamo dare in sede critica, né, moralmente, ci sentiamo in grado di pronunciare qualsiasi giudizio. Attendiamo che questi poeti sotto la trentina giungano al loro «Dolore» dopo questa «Allegria». Ciò che a noi resta da fare sono semplicemente delle constatazioni: per es., quella a cui abbiamo accennato nel corso della divagazione, l'incredibile attualità del problema religioso, sia nel campo dei dissidenti o addirittura eretici, sia nel grembo stesso della Chiesa. Ma se questa attualità, questa freschezza, questa urgenza siano indice di un ricomporsi dell'umano dopo la crisi dell'uomo moderno o degli strascichi, disperati, di questa crisi, non è certamente facile calcolare.
Pier Paolo Pasolini
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
alla fiera letteraria lavorava mio padre faceva il tipografo, impaginatore. ha conosciuto tanti intellettuali. Mi è rimasto un disegno un ritratto di mio padre di E. Dragutesco, mentre lavora al bancone dell'impostazione della pagina a piombo. bellissimo e verissimo! che bel giornale "La Fiera letteraria" la scorrevo da bambino senza capire tanto.
RispondiEliminaCiao Alessandro e grazie del bellissimo commento. La Fiera letteraria è stata un punto di riferimento importante.
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