"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
PIER PAOIO PASOLINI
DA VENEZIA SUI FESTIVAL
Lugubri come night club e utili come i «caroselli»
L'Avanti, 5 settembre 1968
(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
VENEZIA LIDO. 4.
Da Alexander Kluge, che abbiamo sentito ieri, a Pier Paolo Pasolini, che sentiamo oggi, il salto e notevole. Non tanto o non solo perchè Kluge rappresenta una posizione rispetto alla mostra veneziana e Pasolini ne rappresenta un'altra. Quanto proprio per ragioni di temperamento, per differenza di personalità, umana e poetica: se non proprio due differenti concezioni del mondo, Kluge e Pasolini rappresentano due diversi modi di vivere la propria avventura esistenziale. E tanto e sicuro, logico, razionalmente freddo il tedesco, quanto l'italiano è emotivamente perentorio, istintivamente ribelle, aperto nelle proprie contraddizioni, tutto "Passione e ideologia", come appunto si intitola un suo libro. Nella polemica, a volte furiosa, sulla contestazione alla mostra veneziana, ha assunto per settimane una posizione contraria a quella degli altri autori dell’ANAC, poi ha finito per attestarsi su una linea mediana (e a tratti mediatrice).
Ma, se << in medio stai virtus >>, tale virtù non significa per Pasolini ne pacificazione, ne distacco. Per questo la nostra conversazione inizia subito con un acceso paradosso: una risposta en poeta al tema il festival e il cinema.
<< Cosi come oggi sono — esordisce Pasolini — i festival mi ricordano i "night club” che sono appunto noiosi, volgari, mortuari; lugubri. Si potrebbe paradossalmente dire che coloro che vogliono, organizzano, i festival sono gli stessi che vogliono, organizzano e fanno il "night club". Spesso c'è addirittura uno stesso pubblico. Se dovessi fare delle parziali eccezioni potrei parlare dei Festival di New York e di Londra: certo essi hanno tutti i limiti e le distorsioni che caratterizzano le istituzioni culturali della società capitalistica; ma almeno non indicono "concorsi", non nascono da ragioni turistiche o di bottega. Hanno tanti difetti, ma non la "puzza” da night club che c'è altrove. Sono eccezioni anche incontri come quelli di Porretta o di Pesaro. Con una battuta alla Carmelo Bene si potrebbe tuttavia dire che, se in essi non c'è "puzza” da night club, c'è in compenso troppo odore da "tavola rotonda”>>
Si può essere anche d’accordo con Pier Paolo Pasolini: tuttavia rispetto alla identificazione etico-culturale tra festival e "night club” c’è una differenza sostanziale; i film. Spesso, a Venezia o altrove, si tratta di buoni film, quando non addirittura di opere che riflettono i temi della ribellione e della contestazione alla << civiltà >> contemporanea.
≪ I buoni film non c’entrano — risponde Pasolini — e non e questo il problema. Per continuare sul filo del paradosso potrei dire che i buoni film non possono modificare un "night club", ma che invece un "night club” modifica e a volte distorce totalmente i "buoni" film ≫.
La battuta tocca indirettamente un altro dei temi di dibattito di questi giorni, cioè la manipolazione - che obbiettivamente le strutture compiono sulle opere deformandone l’uso e dunque il senso; ma non elimina un altrettanto obbiettivo. I festival in certo modo hanno una funzione: fanno conoscere e aiutano a diffondere opere che, spesso, senza i festival resterebbero sconosciute.
≪ Una funzione di questo genere i festival, soprattutto i buoni festival, l’hanno ancora e l'assolvono. Tuttavia il discorso culturale a tale proposito e ormai più ampio. Per molti anni — afferma Pasolini — e rimasta indiscussa una codificata certezza: quella che i nostri problemi, per il fatto stesso di essere "culturali" fossero anche "politici". Ciò è fondamentalmente vero, ma in senso del tutto diverso da quello settario, massimalistico e oggettivamente procrastinante che aveva. Se per esempio diciamo a un operaio che noi cineasti abbiamo il problema dei film "culturali” da fare circolare e conoscere, l'operaio capirà subito, poichè per lui problema culturale e problema politico coincidono. Ma, se ci fermiamo solo a questo punto, vuol dire che ci limitiamo ad affermare dei principi. Infatti per venti anni abbiamo affermato questo principio senza trovare alcuna soluzione. Oggi invece — soprattutto grazie alle lotte studentesche e operaie — abbiamo ritrovato la fiducia in una soluzione immediata; "paradise now". Abbiamo cioè capito che il problema culturale, pur essendo, già in se, un problema politico, si distingue nei suoi momenti precipuamente e precisamente politici, tanto che per la prima volta siamo in grado di analizzarlo e di porlo "politicamente” per esempio affermando il principio che un festival può essere "culturale" solo se "politicamente” e gestito da autori e critici ≫.
In altre parole Pasolini esalta la priorità puramente politica del problemi culturali. Ciò significa negare l'impegno ≪ culturale ≫ di taluni festival?
≪ Il principio della "culturalità" dei festival e un principio in se bello e giusto: ma, da solo, esso — si veda il caso di Venezia negli ultimi anni — fa ottenere solo vittorie parziali. Bisogna sostituirlo dunque ormai con la richiesta "politica” dell’autogestione, poichè solo questa garanzia "politica" può assicurare l’impegno culturale in modo definitivo ≫.
Per Pasolini si tratta in altri termini di passare dalla fase delle scelte variabili (da Cannes a 'Venezia, per esempio) all’interno delle strutture esistenti, a quella delle scelte obbligate, determinate da nuove strutture di potere. Tuttavia il problema della ≪ autogestione ≫ e di difficile soluzione poichè investe, per lo Stato, una serie cospicua di questioni di principio.
≪ Per questo, non certo a caso, il "potere” e contrario alle nostre richieste. La parola "autogestione” infatti è neutra. Nel nostro caso riguarda il cinema, ma sottintende una problematica politica che va oltre il cinema e che esiste a vari livelli ≫.
Tuttavia e discutibile che la autogestione, anche se accolta, sia da sola sufficiente a risolvere i problemi dei festival: per esempio quello che essi, pur autogestiti, continuerebbero a esaltare situazioni di privilegio sul piano della informazione e della conoscenza, contribuendo solo alla lontana a modificare le cosiddette ≪ strutture ≫ del pubblico.
≪ Sono ordini di problemi diversi. Vedo i festival — dice Pasolini — un po' come erano la panatenee nella democrazia ateniese. In esse, quando si davano le tragedie, per esempio di Sofocle, tutta la "polis”, cioè tutto lo Stato, partecipava al "festival", nella piena coscienza che quello del teatro era un suo problema poetico, politico, sociale e religioso. La differenza tra i 40-50 mila membri della democrazia ateniese e i 50 milioni, per esempio, di italiani pone, pero, la questione in modo completamente diverso. E sarebbe illusorio pensare di potere instaurare tra un regista cinematografico e il suo pubblico potenziale (cioè tutta la collettività lo stesso rapporto immediatamente diretto, che allora aveva un trageda con la sua intera collettività. Per questo anzi il problema di fondo e quello del decentramento. E i festival debbono essere i luoghi deputati di tale decentramento; anche se vi è il rischio di creare un’aristocrazia della conoscenza ≫.
Tale rischio — afferma insomma P P.P. — va corso per evitare l’altro, quello tendenziale della società contemporanea, di confondere la equiparazione conoscitiva di tutti i membri della collettività con la massificazione dei mezzi conoscitivi.
≪ Solo dopo avere affrontato e codificato contemporaneamente il principi dell'autogestione (in contrasto col potere dominante) e del decentramento (in contrasto con la massificazione prevalente) — egli precisa — si potrà affrontare in termini nuovi il problema del grande numero, evitando di accettare le leggi della massificazione ≫.
Tuttavia ci sembra che la teoria per cui tutti i cittadini hanno teorico diritto essere presenti nel ≪ luogo deputato≫, ma solo una parte di essi e delegata a tale presenza abbia un aspetto classista non irrilevante. La delega di rappresentanza (ai critici, agli ≪ uomini di cultura ≫ - ecc.) e infatti data da un potere economico-politico che risponde a determinazioni di classe, a leggi sociali fondamentalmente inelinibili dal sistema in cui viviamo. Per cui, di fatto, non c'è un rapporto di delega tra rappresentanti e rappresentati, quanto piuttosto una selezione che risponde alle leggi generali del sistema.
≪ Me ne rendo ben conto, afferma il regista, infatti credo che il problemi esista e sia di fondo. Solo che non si può scavalcare questa prima fase. "Andare verso il popolo" e sempre un modo paternalistico di risolvere i problemi e le necessita del "popolo”. D’altronde c'è un legame diretto tra intellettuale e operaio. E nel momento in cui io eleggo a miei interlocutori i miei pari, in un luogo deputato e autogestito, implico in tale operazione anche la classe operaia. Nello stesso modo con cui essa, durante uno sciopero o un dibattito di una commissione interna, implica anche me, per quanto io ne sia assente. Questo, ordine di problemi, comunque, e successivo a quello della affermazione del "luogo di democrazia diretta decentrata" (decentrata soprattutto rispetto al centralismo dei potere burocratico appunto centralizzato). Nel senso stesso con cui Marx parla come prospettiva ultima dello Stato di un suo decentramento in tanti centri autogestiti e autonomi. Per anni questa e stata ritenuta un'utopia: ma gli studenti hanno dimostrato che può anche divenire una verità possibile. Comunque io non sono una rigida vestale. I festival come sono adesso, per me, possono anche esistere, essere utili e talora financo divertenti; servono ai lanci di prodotti, qualsiasi sia la loro qualità. Ne più ne meno di un "Carosello". Se li facciano, dunque, e se li paghino, i produttori. I soldi dello Stato, cioè della comunità, debbono invece andare a chi come noi faccia un altro discorso e si proponga di assolvere a diverse necessita collettive ≫.
LINO MICCICHE’
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
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