"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
" MIO CARO LETTORE, PARTICOLARMENTE CARO PERCHÉ NUOVO..." :
SIAMO NOI
I NUOVI LETTORI DI PASOLINI
( di Maria Vittoria Chiarelli )
E poi, tu credi,
che si possa fare un sogno, non ricordarlo,
e avere da questo sogno, mutata la vita?
(P. P. Pasolini, Poeta delle Ceneri)
Pasolini pubblica nel 1970, per Garzanti, un'antologia delle sue poesie e ne cura la Prefazione intitolandola " Al lettore nuovo". Il Poeta si racconta : non era la prima volta, lo aveva fatto nelle interviste e nell'autobiografia in versi "Il poeta delle Ceneri", e a ritroso, risalendo alle pagine giovanili dei "Quaderni rossi", al romanzo "Atti impuri" , a Operetta marina e ad altri racconti friulani e romani. In verità, tutta l'opera pasoliniana è un racconto del sé, proiettato sulla realtà come in uno specchio che gli rimanda i suoi stessi sguardi, per cui soggettività e oggettività si sfumano in una perenne contaminazione poetico-figurativa in
tutte le espressioni artistiche, dalla letteratura al cinema, al teatro.
In questo frangente storico, Pasolini, reduce dalle combattute polemiche con la neoavanguardia in varie sedi, anche sulla rivista Nuovi Argomenti, ha bisogno di ritrovare nuove sintonie con i lettori che non lo conoscono, con i più giovani, che lo hanno incontrato come regista, ma ignorano le matrici poetiche della sua arte. La chiave interpretativa della realtà rappresentata attraverso il cinema diventa, pertanto, la poesia, che manifesta tutto il suo potenziale di contestazione partendo dalla natura umana, ripercorsa dal profondo, ricondotta ai miti primigeni in cui la vita rinasce sempre nuova, e dall'impatto con la storia.
Si tratta di un racconto personale che non si esaurisce nel biografismo autoreferenziale, anzi ne è lontano, ma coinvolge le vite di tutti noi, che vogliamo confrontarci con un intellettuale, come Pasolini, che è stato capace, di relazionarsi con i suoi lettori, cogliere le contraddizioni del suo tempo, denunciarne la deriva violenta, riportare la dimensione del Passato umanistico dal piano della memoria a quello di un vero Progresso. Negli anni Settanta non ha speranze Pasolini, ma lotta ancora su più fronti volendo a tutti i costi essere compreso.
Riporterò di seguito le parti dell'intero scritto:
AL LETTORE NUOVO
L' ultimo libro di versi che ho stampato è Poesia in forma di rosa, nel 1964. Sono passati sei anni. In questo periodo ho girato molti film ( dal Vangelo secondo Matteo, a cui stavo lavorando quando Poesia in forma di rosa è uscito, a Uccellacci e uccellini, Edipo re, Teorema, Porcile, Medea ) : tutti questi film io li ho girati <<come poeta >>.
Non è qui il caso di fare un'analisi sull'equivalenza del <<sentimento poetico>> suscitato da certe sequenze del mio cinema e di quello suscitato da certi passi dei miei volumi di versi. Il tentativo di definire una simile equivalenza non si è mai fatto, se non genericamente, richiamandosi ai contenuti. Tuttavia credo che non si possa negare che un certo modo di provare qualcosa si ripete identico di fronte ad alcuni miei versi ed alcune mie inquadrature.
Ma, dal '64 in poi, non ho scritto solo poesia attraverso il cinema: è solo per un anno o due che ho completamente taciuto come <<poeta in versi>> ( pur scrivendo delle cose che son rimaste inedite e incomplete ): nel '65 sono stato un mese a letto ammalato, e, durante la convalescenza, ho ripreso a lavorare - e - forse perché durante la malattia avevo riletto Platone, con una gioia che non so descrivere - mi son messo a scrivere del teatro: sei tragedie un versi, a cui ho lavorato per tutti questi cinque anni - tornandoci alle volte dopo un anno e più di abbandono - e che stanno per uscire col titolo di Calderón.
Evidentemente, in quel periodo, potevo scrivere versi solo attribuendoli a dei personaggi, che mi facessero da interposte persone.
Ma, cominciando con poesie d'occasione o addirittura scritte su commissione - dopo un primo prodotto piuttosto poco lavorato - Il Pci ai giovani! - scritto ai primi di marzo del 1968 e uscito poco dopo, proditoriamente, a mia insaputa, su un rotocalco ( se fosse uscito nella rivista specializzata <<Nuovi Argomenti>> cui era destinato, sarebbe stato 'altro' da quello che è stato)- nell'autunno di quell'anno ho <<ricominciato>> a essere un facitore di versi nel senso corrente del termine : e ora ho pronto un nuovo volume Trasumanar e organizzar, che uscirà ben oresto, presso questo stesso editore, che mi prega ora di scrivere la presente introduzione alle mie poesie <<vecchie>>.
Sei anni sono pochi: ma se si pensa che il primo di questi volumi che qui sono antologizzati è uscito nel giugno del '57 ( e la poesia Le ceneri di Gramsci che gli dà il titolo, è del maggio 1954 ), allora l'intervallo di sei anni diventa l'intervallo di un'intera epoca letteraria e politica ( anche se in parte, con le ultime poesie, vissuta nella transizione ).
Suppongo quindi di rivolgermi ad un <<lettore nuovo>>. E ad esso non so e non voglio dare altro che informazioni.
Io non ho cominciato a scrivere versi con Le ceneri di Gramsci: ho cominciato molto prima, ed esattamente nel 1929 a Sacile, quando avevo sette anni appena compiuti, e frequentavo la seconda elementare.
È stata mia madre che mi ha mostrato come la poesia possa essere materialmente scritta, e non solo letta a scuola ( <<Vitrea è l'aria...>> ). Misteriosamente, un bel giorno, mia madre infatti mi presentò un sonetto, composto da lei, in cui esprimeva il suo amore per me ( non so per quali costrizioni di rima la poesia finiva con le parole <<di bene te ne voglio un sacco >> ). Qualche giorno dopo scrissi i miei primi versi: dove si parlava di <<rosignolo>> e di <<verzura>>. Credo che non avrei saputo distinguere allora un rosignolo da un fringuello, come del resto un pioppo da un olmo: e del resto a scuola ( ad opera della signora Ada Costella, toscana, mia maestra in quella indimenticabile seconda elementare ) Petrarca certo non si leggeva. Dunque non so dove avessi imparato il codice classicistico dell'elezione e della selezione linguistica. Fatto sta che non tenedo conto dell' abundantia cordis di mia mamma, ho cominciato come rigidamente <<selettivo>> ed <<eletto>>.
Ho scritto da allora in poi intere collezioni di volumi di versi: a tredici anni sono stato poeta epico ( dall'Iliade ai Lusiadi ). Non ho trascurato il dramma in versi, non evitato, con l'adolescenza, l'inevitabile incontro con Carducci, Pascoli e D'Annunzio, fase incominciata a Scandiano - il ginnasio, frequentato da <<pendolare>>, era quello di Reggio Emilia - e concluso a Bologna, al Liceo Galvani, nel '37: anno in cui un professore supplente - Antonio Rinaldi - lesse in classe una poesia di Rimbaud.
Dal '37 al '42, '43, vissi il grande periodo dell'ermetismo, studiando con Longhi all'università, e vivendo ingenue relazioni letterarie coi miei coetanei che si interessavano di queste cose: due di essi sono Francesco Leonetti e Roberto Roversi; ma benché di qualche anno più vecchio era tra noi anche Francesco Arcangeli, e poi Alfonso Gatto. Ero un ragazzino precocemente universitario; ma non vissi quell'esperienza da apprendista soltanto, bensì da iniziato. Nel 1942, infatti, uscì a mie spese, presso la Libreria Antiquaria del signor Landi, il mio primo volumetto di versi, Poesie a Casarsa: avevo esattamente vent'anni; ma le poesie lì raccolte le avevo cominciate a scrivere circa tre anni prima - a Casarsa, il paese di mia madre - dove si andava ogni estate nella povera villeggiatura presso i parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva ecc.
Erano poesie in dialetto friulano: <<hésitation prolongée entre le sens et le son>> ( Valéry, citato da Jakobson ) aveva avuto un'apparente definitiva opzione per il suono; e la dilatazione semantica operata dal suono si era spinta fino a trasferire i semantemi in un altro dominio linguistico, donde ritornare gloriosamente indecifrabili.
Una quindicina di giorni dopoche il libro era uscito ho ricevuto una cartolina postale di Gianfranco Contini, che mi diceva che il libro gli era tanto piaciuto che l'avrebbe immediatamente recensito.
Chi potrà mai descrivere la mia gioia? Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno. La recensione di Contini non è poi uscita su <<Primato>> come egli aveva programmato, ma sul <<Corriere di Lugano>>, all'estero, in Svizzera, terra per definizione dei fuorusciti. Perché ? Perché il fascismo - con mia grande sorpresa - non ammetteva che in Italia ci fossero dei particolarismi locali, e degli idiomi di ostinati imbelli. Così...la mia <<lingua pura per poesia>> era stata scambiata per un documento realistico provante l'esistenza obiettiva di poveri contadini eccentrici o, per lo meno, ignari dell'esigenza idealistica del Centro...È vero che io non ero più fascista <<naturale>> da quel giorno del '37 in cui avevo letto la poesia di Rimbaud: ma ormai l'antifascismo cessava di essere puramente culturale: sì, poiché il Male, lo sperimentavo nel mio caso.
Sfollammo a Casarsa proprio quell'inverno, e il '43 resta uno degli anni più belli della mia vita: <<mi joventud, veinte años en tierra de Castilla!>> ( Machado ).
Continuai a scrivere poesie friulane, ma cominciai a scriverne anche di analoghe in italiano. Il friulano delle poesie adesso era diventato esattamente quello parlato a Casarsa ( e non un friulano inventato sul Pirona, dizionario friulano-italiano ); mentre l'italiano, a causa del calco sul dialetto, aveva acquistato un'aria romanza e ingenua. L'italiano letterario - il nuovo latino, che in quegli anni si chiamava, attraverso gli ermetici, soprattutto Leopardi - continuava tuttavia a impormi la sua tradizione elettiva e selettiva, a cui non si sfugge; dunque scrivevo versi ( Diari ) e tenevo un giornale ( Scartafaccio per analogia con Zibaldone ), che continuavano a seguire un <<filone centrale>>iniziato da sempre per privilegio ( e destinato a non estinguersi mai ), precedente a quelle poesie friulane che dicevo, uscite nel '42: le quali ultime erano dunque, rispetto alla produzione ambiziosamente letteraria, quasi delle nugae, per l'appunto volgari. Solo che, nel caso specifico, non so in che modo, ma certamente in qualche modo, io sapevo, pur forse non dicendomelo, che erano proprio quelle nugae che contavano.
Le poesie friulane le avrei poi raccolte in un'edizione Sansoni nel 1954; mentre le nugae italiane che avevo cominciato a scrivere in quel periodo avrebbero costituito L'Usignolo della Chiesa Cattolica ( Longanesi, 1958 ). Ero andato nel frattempo sotto le armi, per pochi giorni, dal 1° settembre all'8 settembre 1943. Ritornai da Pisa a Casarsa, lacero con una scarpa diversa dall'altra, dopo aver disobbedito all'ordine datomi dai miei ufficiali di consegnare le armi ai tedeschi ( su un canale presso Livorno ); dopo aver fatto un centinaio di chilometri a piedi; e dopo aver rischiato mille volte di finire in un treno per la Germania. Ricominciai subito a scrivere versi in friulano e in italiano, i fasti campestri della Meglio gioventù e dell'Usignolo. Ciò che non mi impedì di andare a scrivere VIVA LA LIBERTÀ sui muri, e di finire per la prima volta in vita mia in camera di sicurezza , esperimentando ciò che sono gli uomini dell'ordine. Da allora passai la vita nascosto e braccato - e molto terrorizzato, perché allora avevo una paura decisamente patologica della morte - continuamente ossessionato dall'idea di finire uncinato: ché così finivano nel Litorale Adriatico i giovani renitenti alla leva o dichiaratamente antifascisti. Mio fratello - di tre anni più giovane e di leva lui, ora - partì per la montagna a fare il partigiano armato: lo accompagnai alla stazione ( aveva la pistola nascosta in un libro ). Partiva come comunista; poi, per mio consiglio ( essere vissuto tre anni di più in periodo fascista doveva pur aver contato qualcosa ) era passato al Partito d'Azione e alla divisione Osoppo: dei comunisti legati ai reparti di Tito, che in quel momento intendevano annettersi parte del Friuli, l'avrebbero ucciso. La guerra finì e cominciò per me il periodo più tragico della mia vita ( continuavo a svrivere La meglio gioventù e L'Usignolo ): la morte di mio fratello e il dolore sovrumano di mia madre; il ritorno di mio padre dalla prigionia: reduce malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo, in patria, e, in famiglia, della lingua italiana; distrutto, feroce, tiranno senza più potere, reso folle dal cattivo vino, sempre più innamorato di mia madre che non l'aveva mai altrettanto amato e ora era, per di più, solo intenta al suo dolore; e a questo si aggiunga il problema della mia vita e della mia carne. Nell'inverno del '49, mio caro lettore, particolarmente caro perché nuovo, e perché utente di semplici antologie in edizione non costosa, fuggi con mia madre a Roma, come in un romanzo.
Il periodo friulano era finito; i volumi mi sarebbero a lungo rimasti nel cassetto, per poi uscire alle date che ho detto; ma subito , a Roma, ripresi a scrivere quei diarii, in versi, assai meno eccentrici, di matrice letteraria e post-ermetica, che come ho detto, non avevo mai smesso di scrivere neanche nel Friuli romanzo, tra le sue viti e i suoi gelsi. Ne raccolsi più tardi un gruppo sotto il titolo appunto di Roma 1950 ( e avrei continuato fino al Sonetto primaverile, Scheiwiller, 1960 ). Ma subito, pochi mesi dopo il mio arrivo a Roma, se da una parte continuavo in chiave barocca e gaddiana le mie ricerche anti-italiane, che avevo cominciato in chiave romanza e alloglotta in Friuli - cominciai a scrivere quella <<cosa>>narrativa che poi avrebbe dovuto intitolarsi Ragazzi di vita (1955 ).
A Roma dapprima vissi a piazza Costaguti, vicino al Portico D'Ottavia ( il ghetto! ), poi andai nel ghetto delle borgate, vicino all prigione di Rebibbia, in una casa restata definitivamente senza tetto ( tredicimila lire al mese di affitto ). Per due anni fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese. Nella casa di Rebibbia, nella fascia delle borgate, ho cominciato - in una lenta trasformazione e fusione del contingente anti-italiano, spesso in falsetto ( che aveva dato i versi dialettali e affini ) e del contingente classicistico dei diarii - la mia <<opera poetica>> vera e propria, quella che ora mi pare la mia <<vecchia poesia>>, dalle Ceneri di Gramsci alla Poesia in forma di rosa.
L'ho già detto tante volte, in tante interviste, che la cosa è divenuta quasi un meccanismo per far scattare il discorso che voglio ( per piegare la realtà al mio disegno ): ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra ( "I giorni del lodo De Gasperi" doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato invece nel 1962 col titolo "Il sogno di una cosa" ). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci.
La trasformazione e la fusione, di cui dicevo, dei miei due filoni poetici, l'anti-italiano in falsetto, e l'italiano eletto, avviene sotto il segno del mio marxismo mai ortodosso. È lentamente che arrivo al <<poema civile >> sulle ceneri di Gramsci : tutta la prima parte del volume, da "L'Appennino" a "L'umile Italia", è preistorica rispetto ad esso: nelle borgate del sottoproletariato romano permane lo spirito Prealpino, delle terre pulite, dei boschi cedui, che si accumula formalmente soprattutto negli spazi obbligati dalla necessità di rima ( delle terzine ), sotto forma di elementi ritardanti. Mi accorgo del resto ora che, dal tempo della lotta dei braccianti a oggi, ben poco è sostanzialmente cambiato, in me e fuori di me. Proprio mentre scrivo questa introduzione per un lettore non specializzato, sto lavorando a un documentario sullo sciopero degli scopini romani ( Appunti per un romanzo sull'immondezza ), e non mi pare affatto che siano passati quasi trent'anni. Può darsi che il sentimento della lotta di classe che hanno i giovani del 1968-70 abbia riportato indietro, a quei grandi giorni: e non importa se ciò è un'illusione. Del resto la lotta di classe è un fenomeno che non si risolve in trent'anni, e le cui caratteristiche sono sempre le stesse.
La trasformazione e la fusione, di cui dicevo, dei miei due filoni poetici, l'anti-italiano in falsetto, e l'italiano eletto, avviene sotto il segno del mio marxismo mai ortodosso. È lentamente che arrivo al <<poema civile >> sulle ceneri di Gramsci : tutta la prima parte del volume, da "L'Appennino" a "L'umile Italia", è preistorica rispetto ad esso: nelle borgate del sottoproletariato romano permane lo spirito Prealpino, delle terre pulite, dei boschi cedui, che si accumula formalmente soprattutto negli spazi obbligati dalla necessità di rima ( delle terzine ), sotto forma di elementi ritardanti. Mi accorgo del resto ora che, dal tempo della lotta dei braccianti a oggi, ben poco è sostanzialmente cambiato, in me e fuori di me. Proprio mentre scrivo questa introduzione per un lettore non specializzato, sto lavorando a un documentario sullo sciopero degli scopini romani ( Appunti per un romanzo sull'immondezza ), e non mi pare affatto che siano passati quasi trent'anni. Può darsi che il sentimento della lotta di classe che hanno i giovani del 1968-70 abbia riportato indietro, a quei grandi giorni: e non importa se ciò è un'illusione. Del resto la lotta di classe è un fenomeno che non si risolve in trent'anni, e le cui caratteristiche sono sempre le stesse.
A questo proposito vorrei indicare soprattutto al lettore giovane il poema "Una polemica in versi" e l'ultimo dell'antologia, "Vittoria": sarei contento se egli vi trovasse prefigurato lo spirito politico e idealistico che oggi lo anima.
Quanto al resto, le poesie qui antologizzate dai volumi che comprendono i tredici anni che vanno dal '51 al '64, formano un blocco coerente e compatto. Ciò che in esso mi colpisce - come se me ne fossi estraniato, ma non è vero - è un diffuso senso di scoraggiante infelicità: un'infelicità facente parte della lingua stessa, come un suo dato riducibile in quantità e quasi in fisicità. Questo senso ( quasi un diritto ) di essere infelice, è talmente predominante, che la stessa felicità sensuale ( di cui del resto il libro è pieno, ma come una colpa ) ne è offuscata; e così l'idealismo civile. Ciò che mi colpisce ancora, rileggendo questi versi, è rendermi conto di quanta fosse ingenua l'espansività con cui li scrivevo: proprio come se scrivessi per chi non potesse volermi che un gran bene. Adesso capisco perché sono stato tanto sospetto e odiato.
Concludo aggiungendo, come in appendice, una fonte di luce che abbia valore retroattivo: cioè una poesia, di questi ultimi mesi, intitolata Charta (sporca) non contribuirà certo a una sistemazione di questa mia antologia di poesie vecchie, né ad attirarmi simpatie; tenderà anzi a rimettere in discussione tutto, ché in definitiva mi rifiuto, sia inconsapevolmente che consapevolmente, a ogni forma di pacificazione...
Charta ( sporca )
Bisogna assentarsi ogni tanto dai luoghi dei Doveri,
per il mondo Occidentale - tornare ricoperti
degli allori della Integrazione
allora si è utili alla Riv...
altrimenti se egli fa il monaco ( per protesta, rigore e
[ così via )
lo buttano ( parole illeggibili per macchie di sporcizia )
Deve preoccuparsi della sua carriera
solo se arr...egli è <<utile>> alla ...
- grondare di colpe per rapporti ( parola illeggibile c.s. )
( così piace all'operaio che ha il culto della famiglia )
- persone perbene per dar credito alla lotta!
- migliaia di piccoli atti di quotidiano disonore
per salire agli onori che son utili a un Partito realistico!
Queste sono cose che ricadono sulla testa di chi le dice.
- rendendolo sempre più miserabile e quindi
[ inutilizzabile.
Ma bisogna pure che qualcuno porti sulle miserabili
[ spalle
una croce ( <<merda>> e altre parole illeggibili c.s. )
Perdere la reputazione per una santità equivoca: mah!
Ma bisogna pure che ci sia qualcuno pieno di croste,
l'Intoccabile
Chi punta poco per perdere o vincere poco
vuole contemplare lo spettacolo di chi vince o perde
[ molto
possibilmente di chi perde molto, horror mundi.
- alludiamo a Noi stessi, tanto per cambiare,
e per screditarci ancora un po', se ce ne fosse bisogno
- non abbiamo fatto infatti in tempo a esser cattivi figli
che siamo già cattivi padri ( parole illeggibili c.s. )
- ottenendo una paterna disapprovazione da quelle
[ carogne dei figli
Questo dovrebbe dar gran soddisfazione al desiderio di
[ morte
che taluni Ci attribuiscono per non preoccuparsi per Noi
Ancora una volta la serietà è presa per un aspetto della
[ virilità
- virile non è più il giovanotto senza problemi e
[obbediente ( armato )
virile è invece lo studioso spec...il giovane organizz...
I giovani gettano, sì, il loro corpo nella lotta,
ma non prendono in reale considerazione la sua
[ debolezza
si direbbe che lo considerano indesiderato e superfluo
- quando essi ( parola illeggibile ) della debolezza
[ corporale
lo fanno dandosi manate sulle spalle, non senza
lanciarsi spiritosaggini di vecchi parlamentari!
- sono esclusivamente, o meglio dichiaratamente, politici
e ciò non può essere senza conseguenze.
Il corpo ( ogni corpo ), coperto di croste, ed eternamente
[ crocifisso,
( non c'é niente da fare! ) è preso per scherzo;
è una cosa privata su cui è bene sorvolare, tacere
- o, appunto, solo scherzarci su, nelle more.
Dunque la massima vergogna non consiste
nell'autoesclusione o sete di santità
bensì nel restare ambigui o almeno contraddittori
tra la tentazione di escludersi e la ricerca del successo.
- essere presenti male, senza chiarezza, intendo dire,
è, come un tempo, presso la buona borghesia,
[ inammissibile
allorché UNO era il mondo, e UNO il futuro umano
dispensatore di gloria al piccolo apprendista poeta -
e ciò che quanto a Rivoluzione ha sognato lo stesso
[ ragazzo...
Si tratta, tutto sommato, di una Confusione dei Sogni
cosa che nessuno non solo non ha voglia di giudicare
ma nemmeno di considerare come un fatto reale ( parola
[ illeggibile )
- è vero che tutti ( parola illeggibile ) questa Confusione
[ dei Sogni,
ma c'é chi lo dice e chi no, chi lo realizza e chi non se lo
sogna nemmeno
- c'é qualcuno infine che getta nel tavolo di gioco ( per
[ perdere )
l'ammissione di questo
- i giovani, quei figli di puttana, non hanno il più
[ lontano sospetto
di tale Confusione dei Sogni, peraltro attuale ancor oggi
[ ( 1969 )
- essi sono ( parola illeggibile in quella idea di virilità
[ come serietà
e le persone serie, certe, non hanno né hanno avuto sogni!
- Che miracolo! La Borghesia mi mette in testa la
[ corona di quercia,
e la Classe Operaia usa tale testa incoronata contro la
[ Borghesia.
Ciò è evidentemente folle e indegno: ma ha una funzione:
popolare il mondo di uomini deboli anziché di santi.
- <<Potrei parlare di un uomo rapito al Terzo Cielo
e invece parlo di un uomo debole>>, infatti.
- Questo lo dico per vantarmi della mia forza:
di tutti quei sogni non mi è rimasta che la forza.
- Non so perché decido che questa debba essere
[ l'ultima poesia
di questo libro di poesie nato durante la farsa,
a cui appunto in quanto poeta partecipo. Non c'è alcuna
[ ragione
di scrivere in calce a questi versi la parola
FINE
In questa introduzione all'Antologia di poesie da lui stesso scelte, Pasolini ripercorre tutte le tappe fondamentali del suo percorso culturale di poeta, fino al 1970, non tralasciando nulla, in una mirabile sintesi. Il suo excursus poetico è conosciuto dai molti colleghi e amici intellettuali: dalla rivolta anti-italiana della poesia lirica in lingua friulana fino alla poesia civile de Le Ceneri che, dalla precedente, non si è in realtà mai discosta, considerando soprattutto la parte seconda de "La meglio gioventù", dal "El testament coran" ( 1947-52 ) a "Romancero" (1953 ), fino al gruppo delle poesie italo-friulane di "Tetro entusiasmo" (1973-74 ), che sembrano chiudere una lunga stagione di lotta, ma per riaprirne un'altra, animata da un fortissimo "sentimento della vita" e dalla sua tanto sofferta "rabbia" socratica, i cui destinatari sono soprattutto i giovani, delle cui facce nessuno si accorge, perché non si ha alcun interesse per i ragazzi. Nell'ultima poesia in friulano si rivolge persino ad un giovane fascista prima che entrambi siano "troppo lontani" : lui , il Poeta che veniva dai "ruderi" e dalle "pale d'altare" , da un mondo umanistico ormai in disfacimento, desideroso di allontanarlo da un vuoto ideologico del tutto simile a quello di tanti suoi coetanei, conformisti di sinistra, abbrutiti dal potere consumistico omologante, lo invita a "difendere, conservare, pregare", senza da parte sua abbandonare la partita, ma per camminare "leggero", "scegliendo per sempre la vita, la gioventù". Quasi un testamento. Un testamento che però non chiude, ma riapre discorsi, come vecchie ferite, mai cicatrizzate, "pianti di scavatrici" che rompono l'aria, come urla improvvise, pazze di dolore. Del resto "piange ciò che ha/ fine e ricomincia"...
"Piange ciò che muta, anche/ per farsi migliore. La luce /del futuro non cessa un solo istante /di ferirci: è qui, che brucia/ in ogni nostro atto quotidiano, / angoscia anche nella fiducia/ che ci dà vita, nell'impeto gobettiano/verso questi operai, che muti innalzano,/ nel rione dell'altro fronte umano, /il loro rosso straccio di speranza"
( da Il pianto della scavatrice, in Le Ceneri di Gramsci ).
In quel rosso delle belle bandiere degli anni Quaranta si coagula l'autentico sentimento rivoluzionario che ha alimentato l'approccio politico di Pasolini sin dagli anni della gioventù, sin dalla "scoperta di Marx", in seguito alle lotte dei braccianti friulani da lui sostenute: la lotta di classe non si esaurisce in uno spazio di tempo determinato, le spinte ideali sono sempre quelle e al Poeta sembra di riviverle negli anni della cosiddetta contestazione, 1968-70, proprio nei movimenti più oppositivi, quelli più capaci di mettersi in discussione, di confrontarsi criticamente con gli eventi storici. Ecco perché Pasolini rimanda il giovane lettore a "Una polemica in versi" de "Le Ceneri di Gramsci e a "Vittoria" di "Poesia in forma di rosa", augurandosi che vi avrebbe visto prefigurato lo stesso spirito politico e realistico che lo animava. Temendo che "chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi", Pasolini vuole comunicare questa sua angoscia cercando consonanze di comprensione fra i giovani, mettendoli in guardia proprio da quelli che avrebbero dovuto proporsi come loro guide, gli intellettuali comunisti, di fronte alla cui paura " a essere anche un poco, o solo idealmente, disobbedienti", si sente "stringere il cuore". E non solo non si oppongono davvero ma
"guardano con uno spavento / misto di ammirazione o odio/ chi osi dire qualcosa di opposto / all'opposizione istituita".
( da "Versi buttati giù in fretta" in "Tetro entusiasmo" in "La Nuova gioventù" ).
Se "Una polemica in versi" e "Vittoria" focalizzano il sentimento della rivoluzione, sono d'altro canto pervase da una "scoraggiante infelicità", pur essendo scritte da una "ingenua espansività", come Pasolini stesso dichiara. Un 'infelicità dettata probabilmente dalla coscienza dell'illusione, del fallimento di quel "puro stile", di quella luce che fu la Resistenza italiana. Ci ha creduto con tutte le sue forze Pasolini, anche se "l'ora è confusa , e noi come perduti la viviamo...". Il Poeta ha voluto che la sua vita fosse una lotta...ma "eccola ora sui binari morti, ecco cascare le rosse bandiere, senza vento". A quarant'anni Pasolini ha "sorrisi e mosse" giovanili, "come quelle di chi non spegne mai il vecchio fuoco".
È sempre un ragazzo " eternamente indifeso" che si appassiona, che forse dovrebbe tacere e non offrire il fianco. Se il popolo di una grande e misera città, le cui mille allegrie sono un unico dolore, è attaccato alle sue strade di fango, il poeta coglie ogni minimo sentore confuso di vita che vuole rinnovarsi. "È già vecchio il piano di lotta di ieri, cade a pezzi sui muri il più fresco manifesto". Mai una rivoluzione può fossilizzarsi, irrigidirsi in schemi consolidati, attenersi ad una sorta di misticismo retorico, il cuore del popolo per contro deve sanguinare in ogni istituzione, cioè farsi vivo e continuo il dolore della creazione. "È all'errore che io vi spingo , al religioso errore..."
In sintonia di continuità con la poesia civile delle Ceneri, "Vittoria" apre a nuovi interventi di rigore logico per organizzare azioni di lotta che non sono e non saranno mai scevre da dolore. Per Pasolini, che non ha altre armi che quelle della ragione, nella sua violenza non c'è posto "neanche per un 'ombra di azione non intellettuale". Eppure si chiede più volte , "dove sono le armi? È consapevole che non ritorneranno più i vecchi giorni della Resistenza, ma il suo germe orrendamente profumato può ancora sentirsi, quella vita che "si contempla" e che "si tiene lontana da sé" , possiede ancora quella capacità di capire quali terribili e serene forze ( mai ossimoro fu più efficace ), può ancora sprigionare. Eppure, rivolgendosi ai compagni - non compagni comunisti, obietta loro di non essere stati capaci di seguire gli stessi richiami, di andare fino in fondo. Tutto rischia di inaridirsi se non si vive di "vittoria", se tutto viene riassorbito da una specie di deriva socialdemocratica ,nel migliore dei casi, se non proprio dalla "cara Reazione". Si può ripartire dalla "disperata nostra debolezza" per concretizzare "progetti di opere future"? Mai come oggi la domanda diventa più urgente.
"Dove sono sparite le armi, pacifica / produttiva Italia che non importi al mondo?"Ancora oggi, un intellettuale come Pasolini, che ha vissuto tutte le epoche storiche della mancanza di sole fra i più umili ed invisibili agli occhi assuefatti al conformismo moralistico e razzistico di matrice borghese, se lo chiede:
" No, non a noi: tu manchi/ a loro, che pure vivono a livelli /d'esistenza di sole, in pienezza,/ e tra baracche e sterri, prati zeppi di canne e d'immondezza,/sentono in questa disorientata brezza,/ con altro cuore, il tuo non esserci".
( Al sole, da La religione del mio tempo ).Nella "schiava bonaccia", dal profondo della sua solitudine esistenziale e di partigiano della Poesia che si fa azione nel momento in cui si diffonde , Pasolini lancia il suo grido d'accusa a tutti gli intellettuali, anche suoi amici, " per aver accettato una realtà che non c'era". E la realtà è per Pasolini una storia redenta, il vero Progresso. Si scopre, "inaridito e superato" in una realtà reale che non ha più poeti.
Come non ravvisare nella crisi della sinistra di allora, dopo la morte di Togliatti, dopo la burocratizzazione dei partiti comunisti dell'Est, la radice di quello che non sarebbe più potuto tornare come reale forza rivoluzionaria? Pasolini, dalla sua solitudine, ci parla ancora oggi, che non riusciamo a trovare, seppure in mezzo a tutte le nostre contraddizioni, idiosincrasie, ritardi, fallimenti, corruzioni, una via d'uscita ai mali di sempre.
Dove sono le armi? Il Poeta le sogna nascoste nel fango " nel fango elegiaco tra piccoli che giocano", come tra i "vecchi padri che vangano":
"...mentre dalle lapidi cade la malinconia, / le liste dei nomi si incrinano,/ i coperchi delle tombe saltano via, /e i giovani cadaveri con la spolverina/che usava in quegli anni, i calzoni/ larghi, e sulla chioma partigiana la bustina/ militare, scendono lungo i muraglioni/ dove stanno i mercati, giù dai viottoli/ che uniscono i primi orti ai costoni/ delle colline: scendono dai cimiteri. Giovanotti/ con negli occhi qualcos'altro che amore:/ una follia segreta, di uomini che lottano/ come chiamati da un destini diverso dal loro".
Tornano i giovani dalle loro lotte, con ancora "l'ideale che arde segreto nei loro occhi": chi avrà il coraggio di smentirli, di raccontar loro che tutto è stato inutile? Che i "figli dei loro fratelli da anni ormai non lottano più" e che la storia "crudelmente nuova ha dato altri ideali"?
Pasolini vede quei giovani tornare, raccontare ancora la loro esperienza di libertà, rivolgersi ai loro coetanei di tutti gli amari tempi delle Restaurazioni di varie impronte politiche che, eliminando ogni dialettica costruttiva, hanno inteso imporre un pensiero unico, mascherato magari da falsa tolleranza, ma programmato per dirigere in modo univoco menti ed energie vitali, per renderle prive di ogni reale passione.
Nella schiera di quei giovani che tornano, Pasolini vede anche suo fratello Guido , morto partigiano, nel '45, per lottare contro le divisioni del mondo, ma anche lui riprende il "sanguinoso sonno" , "solo tra le foglie secche" , nei "sereni eremi di un bosco delle prealpi" , "perso nell'oro della pace d'una interminabile domenica".
Se Pasolini, nel 1970, è teso a distinguere tra la contestazione fatua, che altro non era che la Restaurazione in chiave totalitaristica del potere economico borghese, e la vera "rabbia", continua, nonostante non si dia più delle speranze, a sostenere lo spirito rivoluzionario dei movimenti della sinistra giovanile anche extraparlamentare: "gettare il proprio corpo nella lotta", ma prendendo seriamente sul serio quel corpo, in verità e passione, senza imitare i vecchi padri parlamentari, ma organizzandosi come vera opposizione, su solide radici culturali. L'immagine dura del corpo "coperto di croste" , "eternamente crocifisso", non può essere considerato un fatto privato, ma esprime una radicalità di comportamenti, di percorsi d'azione e di incidenza ideologica nel tessuto molle della società, radicalmente opposti anche al comune ed ormai stantio modo di intendere la lotta di classe. Insomma, un cambiamento di rotta inequivocabilmente irriducibile a qualsiasi compromesso con il potere, che in quegli anni si rinverginava sotto l'egida del compromesso storico.
In Charta (sporca) , Pasolini chiama questa irriducibile opposizione ad ogni forma di potere, " Confusione dei Sogni" che le "persone serie" non vogliono neppure prendere in considerazione. È una ricerca continua... ambigua, tra strozzature di verso e parole "illeggibili", magma di idee dalla irriconoscibile fisionomia, ma gli uomini del futuro sono gli uomini del sogno! Pasolini è tra borghesia e classe operaia...poeta con la "corona di quercia" in testa, isolato o strumentalizzato, secondo le circostanze. Lo si vuol far apparire un uomo debole, secondo un disegno "folle e indegno". Ma Pasolini non vuole essere rapito al "Terzo Cielo": decide di parlare da "uomo debole", manifestando in realtà tutta la forza della sua intelligenza. "Di tutti quei sogni non mi è rimasta che la forza". Pertanto non vi può essere alcuna pacificazione.
Sì, anche noi oggi, nuovi lettori di Pasolini, comprendiamo che non vi è alcuna ragione di scrivere in calce alla sua Poesia la parola FINE.
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