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venerdì 31 ottobre 2025

Pasolini: Di questo lontano Friuli - Libertà, 13 novembre 1943, pag. 3

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Pasolini
Di questo lontano Friuli

Libertà

13 novembre 1943

pag. 3

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )


 Alzo gli occhi da Pascal, o da Leopardi, e guardo nell’infinito, che ora, per qualche anno, ha preso per me la forma di un cielo velato, di una catena di monti trasparenti e un filo di ebbre nevi. Questo paesaggio torna ogni febbraio, quando la campagna è così ritratta nel suo silenzio, i legni così incorporei, che l’occhio può spaziare senza freno verso il Nord, dietro la Richinvelda, fino a quella celeste barriera di crinali e di vette incolori, ma distinti dal cielo, appunto, dalla riga indecisa delle nevi. Nelle giornate terse, nelle prime ore del mattino, vi si distinguono i ghiaioni, i dirupi, le macchie turchine dei boschi, i solchi candidi dei torrenti, le minime pieghe dei declivi, come se fossero impresse in una sostanza vitrea che si differenzii impetuosa e immobile dalle plaghe immemori del cielo. Basta allora il canto di un uccelletto per spirare nei sensi uno sgomento, un’accoratezza mortale, come se quel lievissimo grido colorisse di una luce di tempesta l’aria intorno alle montagne e le imprigionasse in un’ora eterna, e mai mutata da quando uno sguardo umano rivolto a quell’imperturbato orizzonte ha fatto nascere la storia di questa regione. Dalla Carnia librata nel cielo sembra soffiare quaggiù, in piena pianura, un’aria purificata e straniera – odore di nevi raccolte nelle selle solitarie – afrore di ciclamini e di muschi battuti dal sole – immagini di montanari perduti nel loro passo lungo aromatici sentieri – e tutto questo rimane informe nella mente, come un sentimento agitato, incapace di concretarsi se non attraverso le analogie più impensabili. Eccolo così apparire nella memoria:  

 Can vei la lauzeta mover

 de joi sas alas contra ’l rai...  

 Mi volgo, abbandono i monti. Già non esistono; davanti a me la pianura si annichilisce sotto un cielo che prelude gli sgomenti orizzonti marini. La dolcezza dell’aria, dell’erba si fa minacciosa, quasi salmastra; i colori sbiancano – l’orizzonte discende come un precipizio – dietro si profila una calma accecante e immensa. (Quel biancore, non sai se di fumi o di polvere, è forse il fantasma dell’Adriatico?) Certo di là soffia un vento diverso, speciale. L’eccessivo azzurro del mare e del cielo, la nausea delle spiagge deserte, e poi la malinconia delle paludi si mescolano a quell’aria febbrile da cui si lasciano scuotere malvolentieri anche le piante. È un’aria decisamente forestiera che snerva col suo violento richiamo a orizzonti troppo vasti (grevi, non lievi, come i monti, di lontananze). Ha una voce straniera, veneta, non friulana; una pronuncia veneta che soffia rigida da Càorle e da Grado, ma qui, sulla destra del Tagliamento, si spinge oltre Portogruaro, oltre Cordovado, oltre la fontana del Nievo, e alita fino nei dintorni del mio paese, si fa sentire su, fino a Spilimbergo e Maniago, fino nelle aride gole della Carnia.

Il Tagliamento scorre per questa pianura in un solco singolare di ghiaia. Largo talvolta fino quasi due chilometri, è di una bianchezza abbacinante, e i rari rami d’acqua verdognola che lo venano, hanno una segretezza, una frescura di antri alpestri. Corrono via imperturbabili, tra le nitide rive di sassi, raccolte nel loro mormorio appartato, immense nel fitto discorso sussurrato in una lingua straniera, non friulana, non veneta, non carnica – lingua senza confidenze, tutta presa dalla luce e dagli spazii. Gli argini invisibili trattengono fuori da questo tiepido sahara la tumultuosa folla delle vigne, dei gelsi, dei boschi cedui: una leggera polvere verde li indica immersi nell’orizzonte. E a Nord ancora i monti. Ma questa volta nascono dal Tagliamento come da un piedestallo di marmo bianco. Le loro curve massicce s’incarnano di colori più freddi; da Est a Ovest sono una muraglia viva di solitudine e di distanza. Ora se la lingua è il genio di una terra, questa parte del Friuli compresa fra il Tagliamento e la Livenza, ai piedi dei monti, sarebbe deserta fino al punto di non possedere uno spirito particolare.

 Infatti non ha una lingua, ha una varietà di lingue, di dialetti, di cadenze che cangiano quasi di brolo in brolo, ricomponendosi in un’interminabile sfumatura. Il gioco tra il friulano e il veneto è più vario delle ore del giorno (che sembrano monotone, eppure sono così profondamente diverse): baie, golfi, promontori, fiordi insinuanti sono il confine tra le due parlate, che hanno finito per arrendersi nelle vaste zone del Sacilese e del Pordenonese, facendo posto a una lingua sorda, querula, dove il sostrato friulano dà allo strambo veneto una tinta plumbea e inetta. Un paesaggio perfettamente uguale (che solo dopo Sacile comincia a intiepidirsi alle dorature dei colli di Conegliano) tutto d’un colore, senza sorprese se non quelle di una monotonia infinita, è quasi un fermo velo disteso sopra uno dei più infidi ingorghi linguistici – e quindi etnici, morali.

Come il paesaggio non ha mutamenti – ma è tutto fisso, tutto immobile sotto un cielo troppo fondo, ai piedi di montagne spettrali, quasi sospese in un silenzio metafisico, nel quale i cambiamenti di clima, le nevi, gli uragani, non sono che fatti momentanei la cui eco calca maggiormente le tinte di quel silenzio – come il paesaggio non ha mutamenti, così la popolazione che lo abita non ha storia; o perlomeno lo stato trascorso della sua lingua è come un capo doppiato che toglie la vista del cammino percorso; e, come l’equipaggio smemorato di una nave che ha perso la rotta, i Sacilesi, i Pordenonesi ora gridano con strana sicurezza la loro recente favella, presi nel gorgo delle faccende presenti, degli avvenimenti d’immediato valore... Ma questa assenza di una lingua antica e quindi di una storia, dà un’estrema leggerezza agli abitanti di questa campagna; la verde formazione della loro parlata dà loro una fisionomia di popolo primordiale. Raramente è riscontrabile una freschezza e una salute interiore simile a quella di questi giovinotti friulano-veneti; una leggerezza simile a quella di questi vecchi bronzei e robusti. E la convinzione di essersi spostati verso la più progredita Venezia li riempie di una baldanza incapace di dubbi: e li fa una delle genti più liete d’Italia. Eccoli compensati: se da secoli nessuno di loro è passato alla storia, tuttavia il lavoro e la gioia quotidiani sono un’opera comune che dà loro un ebbro senso di immutabilità. Ma basta che retrocediamo un poco verso Oriente – al di là della diagonale che da Latisana punta a Maniago, dividendo in due questo verde rettangolo – ed ecco che si riodono i familiari, gli unici suoni del friulano. Specie nella pianura che verdeggia intorno alla linea delle risorgive – all’altezza di Casarsa, per intenderci – è ben vivo friulano, che se non ha l’aurea, femminile cadenza dello Spilimbergese, è di un’innocenza così puerile, così rustica. È il risultato di un «pastiche» secolare che, in una curiosa tettonica, lascia l’arcaico «a» nella desinenza dei femminili, ma poi modifica i tipici circonflessi friulani nei dittonghi seriori, e adesso s’intorbida, ma molto meno di quanto si supponga, di accenti ora dolci, ora brutali. Le piazze di questi paesi (le stazioni, le farmacie, i negozi più pretenziosi) brulicano di un cattivo veneto, che potrei veramente chiamare immorale, appunto perché privo di tradizione. Ma l’assoluta maggioranza resta al friulano, non immemore, ma fedele ai nitidi fantasmi di una sua leggenda. Così, oggi, Venerdì Santo, mi vibra ancora negli orecchi il rombo sacro e profano di quegli strumenti chiamati «cràsulis», che iersera i fanciulli scuotevano con gioia selvatica, dentro la buia chiesa, per le vive strade.


PIER PAOLO PASOLINI


Curatore, Bruno Esposito

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