"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
STORIA DEL NUOVO TEATRO (I modulo)
Prof. Cristina Valenti
Gruppo di studio su: IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA»
(Adriano Fraulini, Letizia Torelli)
1ª Parte:
IL CORPO DI PASOLINI: «SALÒ»
di Adriano Fraulini
I
corpi parlano, e il loro discorso non può più essere ignorato(1).
Un
corpo preso a paradigma, preso ad exemplum, di solito brucia.
Il
fuoco purifica e ravvede, permette ai facenti parte della
collettività di godersi lo spettacolo, tenendo bene a mente il
messaggio etico insito nel gesto, nello spettacolo stesso.
Bruciare
su pubblica piazza il reo – più spesso, la rea – non era però
l'unico modo per informare sulle pratiche di giustizia del potere
vigente(2).
Tra
i tanti linguaggi che da sempre il corpo parla, uno dei più antichi
e intimi è di certo il linguaggio del sacro.
Sacrificare
un figlio per prendere i buoni auspici davanti a una guerra che si
annuncia cruenta, oppure per ammansire e obbedire un Dio che non si
avvale della logica per dirimere le proprie questioni aperte con
l'umanità... sono solo alcuni degli esempi topici che dimostrano
come, davanti a gesti estremi, l'uomo sia chiamato a mettere tutto se
stesso in gioco, spesso sacrificando la propria prole (e dunque,
sicuramente, il corpo, un poco meno l'anima, vista la giovane età
delle vittime: la valenza, quantomeno pubblica, dei figli è infatti
decisamente irrilevante!)(3).
Sempre
in prima fila rispetto alla rilevanza del sacro, il corpo è la prima
manifestazione della persona, l'occorrenza singola che ci permette di
dare e assumere una forma, il mezzo che – distinguendoci dagli
altri – consente una presa di coscienza individuale; irretiti forse
dal miracolo inspiegabile della generazione, gettiamo con stupefatto
ardore le fibre dei nostri muscoli, che sorreggono la baracca
scheletrica che portiamo innanzi, nel pieno delle ricezioni
sensoriali...
Lungi
dal ridurre il tutto a questa lettura religiosa e filosofica, il
corpo permea di sé molteplici scenari: è in prima linea – e non
potrebbe essere altrimenti – nella funzione di controllo etico e
sociale.
Le
istituzioni tendono al controllo delle anime, e lo fanno spesso
attraverso il maniacale tentativo di dirimere le abitudini fisiche
delle persone(4).
Assistiamo
qui a un’evoluzione quotidiana, a un depotenziamento del valore
corporale: non siamo più nell'iperuranio dei fatti tragici, dei
grandi eventi ideali e mitologici, né nelle vicinanze del sacro...
tutto si riduce a pura quotidianità, ad antropologia.
Eppure
il fatto assume rilevanza storica – anzi, esagerando un poco, si
potrebbe quasi dire che è proprio la storia stessa che incomincia,
quando si passa dalle epopee alle piccole bagarre di tutti i giorni –
e il testo di Bazzocchi, nostra vera guida, insieme a quello di Casi,
in questa breve ricognizione, ce lo racconta con la dovuta maestria:
C'è
però un taglio nella storia dell'uomo, una cesura che sovverte
questa logica e coincide con l'introduzione dei vestiti [...] Si
verifica così l'evento fondamentale che scatena ogni tipo di
fantasia amorosa, ciò che fa nascere gli eccessi della "sensibilità"
[...] Il corpo è diventato misterioso, nascosto, arcano. Il
passaggio dal corpo nudo al corpo vestito ha deviato la storia della
cultura, ha prodotto l'insorgere degli effetti più travolgenti
dell'immaginazione. Si è modellata una nuova disposizione del
pensiero(5).
La
forza arcana che conduce al "travestimento" del corpo nudo
viene restituita e per nulla sopita – al contrario – alla potenza
dell'immaginazione; l'idea dominante non si esaurisce più a breve
giro di vicinanze, ma partorisce la grande cattedrale idealitaria del
desiderio: qualcosa che non si vede, eppure se ne percepisce la
presenza...
Non
può che scatenarsi il grande potere dell'immaginazione, della
curiosità che attanaglia le menti umane sulla conoscenza della
propria semenza divina: atto di superbia smodata, l'uomo desidera
ardentemente sapere.
E
lo fa attraverso il corpo...
Nel
desiderio vige la legge della mancanza.
Si
desidera quel che non si ha, ma se ne avverte la presenza, se ne
intuisce il valore profondo, la capacità intrinseca di sovvertire,
scombussolare l'ordine costituito.
Il
corpo è il mezzo più incline all'esperire dei desideri.
Oggetto
di concupiscenza e agente in proprio di atti e prese di possesso. Il
corpo agisce e parla la sua lingua di bisogno.
Vettore
d'istanze, le più varie, di voluttà, lanciatore di segnali dei
bisogni più irrinunciabili, il corpo si scaglia nell'immediatezza
del presente di ognuno di noi; tramite suo, esprimiamo i nostri
momenti d'attesa, le nostre volontà di ogni sorta.
Anche
là dove si voglia mantenere una forte dicotomia tra l'anima e il
corpo, il corpo non può esimersi dal segnalare la nostra presenza,
il corpo testimonia.
E
dice anche quel che si tende a nascondere, dice tutto degli impulsi
più intimi e vitali. Il corpo anela la libertà, anche di essere
schiavo...
Per
questo, sull'onda del desiderio e della mancanza, accade –
all'interno di patologie di rapporti – che alcuni corpi prendano il
sopravvento su altri.
Affamato,
come in una mistica religiosa del possesso che tende a scarnificare
gli orpelli, un corpo (malato?) fatalmente ne cerca un altro da
possedere; da tenere in sua balia.
Cosa
spinge – nell'ottica dell'«amore al negativo» tanto cara a
Huizinga e a de Rougemont(6)
– a cercare il pieno possesso del corpo altrui?
Quale
spia antropologica si cela dietro le sentinelle della lingua, quelle
che osano proferire parole definitive sull'appartenza e sul bisogno,
sull'incapacità di vivere senza l'altro, quasi eternando il mito
platonico del dimidiamento dell'androgino?(7)
Possedere
o essere posseduti, non è solo un gioco di specchi riflessi che
dicono chi siamo giocando o venendo giocati sulla carne altrui...
Il
molto di più che vi è sotteso sono le emozioni della nostra psiche
e il nostro nucleo intimo profondo.
Per
questo il corpo non scherza quando si fa vittima o carnefice... ma
urla, grida il suo bisogno di uscire fuori dai confini della
fisicità, in un viaggio nelle reni altrui per tentare una conoscenza
universale e un possesso più a largo raggio.
Mettetevi
nei paraggi di un corpo, del suo limite fisico, della sua sofferenza,
del suo pathos... è il pulsare della vita quello cui assisterete, il
suo sentirsi scorrere.
Accade,
nelle pratiche quotidiane dei corpi, una evoluzione storica che tocca
i costumi; la stessa opera di apertura mentale che fin dal tardo
Cinquecento opera sotto l'egida delle tendenze libertine (la ricerca
delle più disparate libertà politiche, oppresse dal cannibalismo
fondamentalista della religione), investe pure il rapporto personale
e pubblico col corpo; lo investe dall'ottica dei libertini e del suo
più grande rappresentante, Sade.
Questa
nuova prospettiva si interseca indissolubilmente con la tensione del
desiderio e produce una situazione di fatto esplosiva, come ce la
riassume Bazzocchi, citando le funzionalità opposte del "coprire"
quale fautore di desiderio, e dello svelare, dell'ostensione del
tutto, quale operazione filosofica e politica praticata da Sade:
L'uomo
vestito di Leopardi e l'uomo nudo di Sade sono le due facce opposte
dello stesso meccanismo antropologico. Il discorso amoroso (il
desiderio) nasce per Leopardi dal vestito, che crea mistero, il
discorso filosofico per Sade può emergere solo dall'eliminazione del
vestito, che offusca la verità. I suoi libertini teorizzano solo
quando sono nudi, e quando impongono con la parola una serie di
modificazioni sul corpo delle vittime, iniziate al loro verbo. Il
corpo nudo dice la verità, il corpo vestito segue gli inganni della
fantasia [...](8).
Se
nascondere vuol dire alimentare una curiosità, svelare significa
fare luce sulle ipocrisie che ci circondano.
Il
primo movimento è di per sé una macchina del desiderio, ma resta
necessariamente fruibile da chi si colloca in una posizione
dominante; e chi domina può, a un certo punto – magari al chiuso
di una villa, lontano geograficamente dalla città e dalle regole di
civiltà vigenti al momento – decidere di svelare in toto i
meccanismi che regolano la natura e i rapporti personali.
Questo
fanno i libertini, forti della loro inattaccabile padronanza del
vertice della piramide sociale: alla luce del sole, sfruttano e
preservano l'ipocrisia della società che li proietta in ruoli
privilegiati; nel chiuso delle proprie stanze, delle proprie segrete,
operano lo svelamento del puro stato di forza e di natura, dediti al
deliquio del piacere, giudici assoluti davanti a corpi inermi di
poveri esseri – possibilmente in tenera età – provenienti dai
bassifondi della scala sociale.
E
nella nudità dei loro corpi, rinchiusi tra lo splendore delle loro
ville, i libertini ordinano, dispongano, creano.
Assurti
al ruolo di divinità umane, decidono le pratiche sessuali, il
piacere, gli abominevoli eccessi, la vita e la morte.
Tengono
il bastone del comando, ma sono – clamoroso paradosso da
ribaltamento – a loro volta in piena balia delle vittime, viventi i
primi in funzione delle risposte delle seconde...
Qui
si espletano i rivolgimenti più intimi della psiche umana e il corpo
diviene il mezzo espressivo per eccellenza: il piacere, il dolore, la
paura, la sofferenza... tutto è estrinsecato tramite la corporalità
dell'atto, non c'è tempo per pensare.
E
il piacere della mente che ordina sta proprio nel vedere approssimati
al centesimo i propri istinti di generazione divini, la propria
creativa vena di traboccante fantasia.
Legati
da indissolubile respiro, il sadico e il masochista, la vittima ed il
carnefice, sentono di appartenersi l'un l'altro e di stare agli
estremi di un meccanismo che li tormenta entrambi, rappresentato dal
terzo incomodo della situazione, dal mediatore delle loro istanze(9).
Presi
dalla patologia incurante della loro situazione di «amore al
negativo», di cui ancora non abbiamo svelato la genesi, il rapporto
che si cementifica è identificabile in
toto
con il delirio del possesso, della proprietà privata dell'altro;
l'esatto speculare e contrario dell'amore in quanto puro dono di sé,
il rischio più grande in cui facilmente si può incorrere quando si
è posseduti dall'orgia del possesso e del controllo della vita
altrui.
La
vittima diventa proprietà esclusiva del suo carnefice, la sua vita
orbita attorno alle violenze fisiche e psicologiche cui viene
sottoposta.
Il
corpo è il certificato di appartenza, la prova provata del delirio
d'onnipotenza del carnefice. Quando il corpo obbedisce e china la
testa, l'anima ha rinunciato alla propria individualità, alla
propria univocità; allora, tutto è possibile...
Pensiamo
ora a quanto detto e trasportiamolo, da una scala privatistica, a
progetto universale, collettivo: avremo Auschwitz...
Troppo
disumano per essere creduto possibile(10),
il progetto della soluzione finale rappresenta lo snodo cruciale, la
faglia di cambio su cui il paradigma antropologico del corpo ha
subito uno scarto assoluto.
Non
si tratta di una barbarie e basta, di un genocidio e basta; non sono
gli orrori che i corpi trucidati nelle guerre portano con sé, né il
barbarico bisogno di sangue di cui ciclicamente l'uomo sembra non
poter fare a meno di nutrirsi.
È
il progetto.
È
la lucida capacità di organizzare una sparizione globale su scala
mondiale.
Non
importa neppure – per calcolarne la gravità – il chi e il come.
Conta
effettivamente il disegno, quello che ci sta dietro.
E
gli studi scientifici, l'uso dei corpi umani come cavie da
laboratorio, le frontiere dell'eugenetica, il disprezzo per i
diversi, l'annientamento, in un gioco che sa di macabro, delle anime
dei prigionieri attraverso il deperimento controllato dei corpi
(controllato perché il disegno era quello di mantenerli in vita
affinché potessero lavorare!).
Ridurre
un uomo a puro numero, in un perfetto ordine dall'odore di morte!
I
salvati, dopo Auschwitz, hanno portato il loro marchio appresso,
indelebilmente; ma anche l'umanità, dopo Auschwitz, non ha potuto
fare a meno di sentirsi marchiata a fuoco.
Sapere
che "ciò era stato" ha mandato in cortocircuito tutti i
meccanismi di conservazione della specie.
Nessuno
poteva più dirsi vergine o ingenuo, lontano dalla verità.
Lo
svelamento "libertino" aveva mostrato la potenza del suo
ruolo.
Quello
che – su scala privata e al chiuso di quattro mura – era
l'esplosione onnipotente di un uomo su un altro uomo, veniva ora ad
applicarsi a livello collettivo e al chiuso di campi di sterminio(11).
Tra
gli effetti – devastanti – anche il mutamento di segno del
paradigma antropologico del corpo, il suo stare nella vita fisica e
psichica degli uomini.
Una
serie di pratiche hanno preso l'abbrivio successivamente allo
spartiacque storico dei campi di concentramento e sterminio,
successivamente a quelle larve di umanità screziate nei rimasugli di
corpo.
Le
testimonianze rimaste ci permettono di chiudere il cerchio, la
filiera dell'orrore, e di sapere cosa c'era prima del fumo, prima
delle pire dei forni crematori...
Le
foto di quelle "ipotesi" di umanità allo stremo delle
forze chiudono definitivamente l'era del corpo sacro.
Niente
più scrigno ove custodire il germe che ci equipara alla divinità!
Il
corpo è ormai inevitabilmente un contenitore profano e, di
conseguenza, privo di furore mitico.
Quello
che racconta, lo racconta lontano dall'età dell'oro.
Perduta
la sacralità, rimane l'oggetto e l'utilizzo che se ne può fare.
I
corpi diventano accessori dall'uso comune e per l'estensione delle
soluzioni ai nostri problemi.
Diventano
estensori di un pensiero, spie della diversità, della distinzione
dalla massa.
Lo
sa bene Pasolini quando, in un articolo pubblicato sul «Corriere
della Sera» del 7 gennaio 1973, intitolato Discorso
dei capelli,
avverte senza mezzi termini la funzione identitaria di quel taglio
ribelle.
E
un intellettuale attento al costume e quasi ossessionato dalla
preponderanza del corpo come Pasolini non può non interrogarsi,
uscendo appunto dalla sua Trilogia
della vita
cinematografica, in cui aveva scandalizzato il pubblico con
l'esposizione gaia ed esuberante dei corpi nudi.
Eppure
il risultato è misero, come ci racconta, ancora una volta,
Bazzocchi:
[...]
e la parabola dei capelli lunghi racconta come tutto sia avvenuto nel
giro di un decennio, forse meno. I segni della distinzione sono
diventati segni della confusione e della mescolanza, o meglio
dell'identità imposta(12).
Cosa
è accaduto nel frattempo?
È
accaduto che la macchina del potere economico, capita l'antifona, ha
iniziato a rivolgersi per il proprio tornaconto ai nuovi stilemi
esistenziali; le varie forme di liberazione, giunte al culmine
nell'apice sessantottino, vengono utilizzate per veicolare nuove
forme di bisogni e di consumi: il corpo diventa oggetto di attenzioni
economiche e di cura, le mode impazzano alla ricerca della
distinzione selettiva, ottenuta tramite il possesso di determinati
oggetti, la creazione degli status
symbol...
A
questo punto è il permissivismo sessuale a diventare lo strumento
con cui il Potere trasforma i giovani in consumatori forsennati degli
stessi prodotti(13).
Nell'arco
di appena un decennio, si passa dai capelli pasoliniani – frutto
comunque di un tentativo identitario e distintivo di cultura partita
dal basso – ai giovani dalle facce tutte uguali, a imitazione del
divo del momento, e dai vestiti adeguati alle mode e alla pubblicità
imperante del modello dominante, come annoterà stupefatto un grande
osservatore di costumi e segni, nonché pensatore sublime, come
Roland Barthes.
Il
corpo, un tempo sacro, diviene la porta d'ingresso dei consumi.
Il
tappetino su cui la borghesia non termina mai di ripulirsi le scarpe.
Pasolini,
dopo aver inneggiato alle libertà del piacere e del corpo nella sua
Trilogia,
immette
la virulenza dello scandalo sessuale tutta dentro l'architrave della
borghesia: in Teorema,
uscito nel 1968, tutto si sdipana attorno al sacro fallo dell'Ospite,
capace di sconvolgere e svuotare le convenzioni intorno cui ruotava
la perfetta e linda famiglia borghese.
Eppure
l'operazione di recupero della sacralità corporea si rivela fuori
tempo massimo.
Il
crinale precedente le rivoluzioni liberali non permette recuperi di
sorta; Pasolini tenterà la carta del teatro per dire con forza la
fine obbligata e sconclusionata della borghesia, ma la sua
operazione, tentare di creare un argine di sacralità nel gettarsi
dei corpi contro il consumismo imperante, non coglierà la direzione
del vento.
Di
questo tentativo generoso ed arido di filiazioni ci occuperemo ora,
vagliando la sua prima tragedia, Orgia,
del 1968, e Salò,
l'opera cinematografica del 1975, che molto ha in comune con Orgia(14).
2.
«Orgia»
Orgia
prende le mosse da F.,
un poemetto rimasto inedito scritto nel 1965.
Peculiarità, fra le tante che ritroveremo nella
tragedia, la predominanza del tema linguistico, legato in gran parte
alla profonda vicinanza con gli argomenti sadiani. La lingua è
l'arma prediletta dei carnefici, serve loro per dichiarare la
diversità dal resto del mondo.
La
ripresa della matrice tragica di F.,
basata su un episodio realmente avvenuto ad Amsterdam, apre un
interessante scenario d'intercettazioni semantiche in Pasolini: la
compresenza, entro un quadro di riferimento che palesemente si
richiama alla tragedia greca e alla maieutica platonica, di tre
concetti destinati a implodere vicendevolmente: tragedia, borghesia e
umorismo.
Ciò
che interessa maggiormente all'autore è proprio il punto d'incontro
finale di questi tre vettori; ovvero, come mirabilmente ricorda Casi
nel suo lavoro:
Ecco
allora che la storia del professore di Amsterdam, che prefigura il
finale di Orgia,
può essere definita dall'autore "l'unico materiale possibile"
che si possa raccogliere "dal mondo borghese"(15).
L'unico
materiale possibile recepibile dalla borghesia è, per l'appunto, il
suicidio!
Per
essersi accorto di non aver vissuto, per essersi fatto abbindolare
dalla buona creanza borghese, proprio come la perfetta e ordinata
famiglia di Teorema.
Il
suicidio come ultimo, estremo tentativo di diventare testimonianza
della verità da opporsi alla gelatinosa inconsistenza della vita
borghese.
Il
corpo gettato in pasto come barriera protettiva per ripararsi dal
materialismo edonista del capitalismo.
Si
fa qui sempre più forte la tensione dei corpi in Pasolini, l'idea
del corpo come ultima arma contro i devastanti effetti della
borghesia, in particolare del corpo dell'intellettuale, rinvenibile
nelle sue parole che scandalizzano(16).
Sarà questa una tendenza imprescindibile nell'ultima produzione
pasoliniana.
Mettendo
in scena la diretta rappresentazione della borghesia nell'unico modo
rappresentabile, ovvero la tragedia di se stessa, Pasolini intende
sconvolgere tutti i crismi del conformismo linguistico, teatrale e
concettuale; il suo disegno tende a una riflessione alta, e per
arrivare là dove il suo autore intende, occorre di certo
risemantizzare tutta la trafila dei ragionamenti; non solo una nuova
lingua e un nuovo rapporto col corpo ma, ad esempio, una nuova
modalità di ricezione: lontano anni luce da un atteggiamento supino,
il pubblico cui pensa Pasolini è un pubblico attivo, non nel senso
dell'immedesimazione, bensì della riflessione, garantita dall'aura
platonica:
La
parola teatrale di Pasolini è prima di tutto una sfida alla
ricezione supina dello spettatore, in accordo con la dimensione
pedagogica del dialogo platonico. È una sfida al regista e agli
attori [...](17).
Corpo
e parola combattono nell'agone teatrale, inscenati dall'attore, non
più a rivestire i panni su misura dei personaggi, no; paiono,
piuttosto, decisamente più addentro alle riflessioni etiche del
coro, voce di saggezza comune.
Quella
che viene messa in scena, in Orgia,
è la pudicizia libertina della Diversità.
La
diversità, la terza via fra l'arrendersi alla cultura dominante
borghese e l'alternativa della morte. La vita di una coppia,
eternamente borghesi all'esterno, eternamente diversi nel chiuso
della loro casa. Ma qualcosa succede...
Rinchiusi
nella loro disperazione di solitari ed impossibilitati a condividere
all'esterno le loro spinte sado-masochistiche, i due giungono
all'idea del suicidio finale; ma se per la donna si tratta – a
detta dello stesso Pasolini – di un suicidio «anomico»(18),
dovuto alla mancanza di controllo rispetto al parossismo infinito del
piacere masochistico, per l'uomo la scelta è chiaramente una scelta
politica: con il suo gesto vuole liberare definitivamente sé e gli
altri dall'oppressione del mondo entro cui era cresciuto, il mondo
borghese; il suo è un vero e proprio martirio, una testimonianza
eterna e sacra nella sua predisposizione allo scandalo, proprio come
la parola di Gesù.
La
figura del professore suicida di F.
si richiama qui al martire greco Panagulis, condannato a morte dalla
dittatura dei colonnelli.
Aleggia
su tutta la tragedia una inevitabile aura di sacro, di racconto
mitico alla ricerca della perduta età dell'oro.
Fin
dal prologo, dove l'uomo annuncia in una prolessi il ragionamento che
origina l'opera.
La
mancanza dei nomi identitari permette una ricognizione universale
degli avvenimenti, si tratta di un uomo con
tutti gli altri, dalla parte del potere.
Una
storia comune, di quelle che possono accadere a tutti coloro che
esprimono la capacità di adattamento alle regole sociali istituite
dal Potere(19).
Eppure
il conformismo non ha potuto cancellare davvero la diversità, capace
di rendere l'uomo libero di un barlume di pensiero, poco prima di
darsi la morte.
Anzi,
pare che proprio la scelta di darsi la morte rappresenti
evidentemente un gesto di risveglio dal sonno della ragione, una
epifania; non esaurisce il discorso sulla diversità, su quale sia il
giusto atteggiamento da tenere; svolge però una similitudine
inquietante, perché ci riporta a quanto detto alcune pagine fa sulla
devastazione dei corpi nei campi di sterminio e sulla volontà di non
vederli...
Ma se ciò che la mia morte rende significativo
della
mia esistenza – lo dico ancora una volta –
fosse
una rappresentazione, credo che agli spettatori,
miei
nemici, che vogliono difendersi da me, direi:
"Vi
prego, siate come quei soldati,
i
più giovani di quei soldati,
che
sono entrati per primi
oltre
i reticolati di un lager...
E
lì i loro occhi... Ah, vi prego,
siate
giovani come loro!" Ecco tutto(20).
2.1.
Primo
episodio
Dopo
il prologo, gli spettatori – suoi nemici (è Pasolini che parla) –
sono buttati dentro la vita di coppia di un uomo sadico e di una
donna masochista(21).
La
complicità fra loro è totale, ma, in virtù del loro rapporto
patologico, ognuno è solo davanti all'altro.
Condizione,
la solitudine, essenziale per la coppia al riparo dal mondo che non
capirebbe, e dell'uno verso l'altra, onde poter dar vita al rapporto
di reificazione insito nella patologia sadomasochistica.
Il
bisogno di distruggersi insieme necessita una sorta di distacco
affettivo rispetto al gesto fisico in sé.
Entrambi
ricordano in forma di racconto una gioventù che appalesa lo stato
contemporaneo della nullità, le normali azioni della vita quotidiana
sono unicamente la copertura del nulla dell'esistenza borghese; la
spia linguistica che incorona questo stato di cose è la locuzione,
più volte ripetuta, eppure
nessuno parlava.
Sta
a indicare il chiacchiericcio senza senso dell'umanità finita in
mano agli istinti peggiori, la sonnolenza capace di corrodere fino al
midollo le energie vitali profonde dell'umanesimo.
Lo stato vegetativo che circonda i due è la
melassa entro cui entrambi si riparano; la loro diversità si
alimenta internamente dell'ipocrisia esterna che prosegue e si
esplicita nei gesti della quotidianità.
Persino
il sesso, depauperato della sua funzione emotiva, contribuisce a
cristallizzare lo stato mentale della donna; siamo davvero entro la
parvenza di un'ipotesi di mondo, uno scheletro architettato sui
luoghi comuni, sul diritto del maschio di espellere emozioni
unicamente in forma di sperma, racchiuse entro l'orizzonte dei
calzoni; e sui doveri della donna di accogliere, pudica e vergognosa,
tutto quanto le viene offerto.
2.2.
Secondo
episodio
La
preminenza platonica del dialogo assurge a protagonista nel secondo
episodio, allorché le domande bisognose di curiosità della donna
spingono l'uomo ad architettare, a ostentare tutte le sue più
brutali intenzioni.
Prima
ancora che nella fisicità, il piacere reciproco è dato proprio
dalla parola e dall'attesa del gesto.
Il
parossismo del dialogo sta proprio nell'equivalenza del confine
fisico, della parola come del corpo: spinti allo stremo, cercano
sempre più nuove forme di sfida, oberati dall'impossibilità fisica
di riuscire ad andare definitivamente oltre; per questo l'uomo mette
in scena tutto l'armamentario dei tabù...
Per
questo, a nostro avviso, l'ambientazione pasquale della tragedia;
giacché parrebbero comunque solo in parte condivisibili altre
letture della scelta dell'ambientazione temporale.
Se
infatti la Pasqua è comunque simbolo di resurrezione – e dunque
può essere vista come la condizione finale della tragedia (solo per
l'uomo, però! E questo dovrebbe farci riflettere...) – oppure, in
una lettura antinomica, momento di celebrazione religiosa del mondo
pre-esistente, a nostro avviso il vero legame della scelta pasquale
sta proprio nella funzione antropologica del gesto del nutrirsi dei
corpi: tabù ancestrale da non proferire, l'idea di mangiare il
simile, il corpo dell'altro, raggiunge il suo apice proprio nei
giorni del sacrificio estremo di Gesù.
Questo
è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi,
sono le parole.. e calzerebbero a pennello nella bocca della donna;
Prendetene
e mangiatene tutti,
a significare la congiunzione tra l'universalità della Pasqua e la
condizione di sacrificio estremo voluto dai due.
Amarsi
a tal punto da mangiarsi, una scelta non inopinata nell'alba dei
tempi, rimasta ancor oggi come spia linguistica per testimoniare il
furor con cui si è spinti fuori dai propri confini, eccitati a morte
dalla presenza dell'altro.
E
in questa linea di eccitabilità impazzita, inizia il
piacere-pestaggio...
2.3.
Terzo
episodio
Il
dialogo del giorno dopo, successivo alla notte di bestialità
reciproca, è il vero atto di
accusa alla borghesia; si apre dapprima con il solito quadretto del
tempo antico, ma vira subitamente verso il cuore del problema:
[...]
Dov'è la più vera verità?
In
ciò che dicono questi segni di sangue
o
in ciò che dice questo segno di seta?
I
primi dicono ciò che noi desideriamo,
i
secondi ciò che noi accettiamo(22).
Racchiuso
in queste parole dell'uomo c'è il punto nodale della tragedia.
Ciò
che noi desideriamo
è lo stato di pura bestialità, il rapporto di forza dell'uomo
sull'uomo, il possesso, l'abbandono;
Ciò
che noi accettiamo
sono le regole borghesi, allargate qui addirittura all'abbigliamento,
ai vestiti, a tutto ciò che è identificabile come stato di cultura.
Ancora
una volta è l'uomo, il libertino attivo, che ha condotto il
ragionamento verso lo svelamento delle ipocrisie, verso la
comprensione dello stato delle cose; ora hanno entrambi piena
coscienza del loro essere doppi, del loro appartenere a due entità
diverse, la prima – la società – di morte, la seconda – la
loro natura – di verità e libertà.
2.4.
Quarto
episodio
È
questo l'episodio che si chiude con il suicidio della donna.
Dopo
un lungo monologo di riflessione interiorizzata, specie di resoconto
della condizione sociale del sesso femminile, ma vissuto sempre entro
la descrizione mitica di un luogo geografico e mentale altro, quasi
vissuto con malinconia, ecco compiersi la scelta della donna:
omicidio dei figli e suicidio proprio.
La
lucidità delle parole della donna sembra cozzare non poco contro
l'asserzione critica di cui prima abbiamo reso conto, ovvero di un
suicidio anomico; certo, dietro il gesto estremo non vi è una
riflessione approfondita in senso politico, nulla a che vedere con
quanto compirà il marito; eppure qualcosa non torna... la scelta di
tornare polvere nella natura incontaminata (accettiamo questa
convenzione della scrittura senza fiatare) pare di per sé una presa
di posizione, discutibile fin che si vuole, del ruolo della società
sognata dell'età dell'oro. Quasi una sorta di bisogno di sentirsi
parte di un corpo che invece l'ha estraniata. L'impressione è che la
donna, una volta praticata insieme all'uomo la strada dello
svelamento, sia giunta alla convinzione di non poter accettare la
verità di non appartenere alla società borghese con tutti i crismi,
pare non accettare la stessa diversità che la teneva in vita col
piacere.
E
l'omicidio della prole è un gesto di ripulsa verso il marito e verso
il mondo: quando la verità pone fine al sogno, la reazione indica
chiaramente una colpa.
Non
dunque l'incapacità di frenarsi davanti agli istinti guida il
suicidio della donna, al contrario: indicare con l'uccisione dei
figli la colpa della società borghese, incapace di difendere la
culla dei suoi sogni, e togliere all'uomo, compagno nel viaggio di
svelamento, il diritto di amazzare i figli – simbolo della famiglia
– è il gesto di rivalsa e ritorsione per l'assassinio della
malinconia.
2.5
Quinto
episodio
Dopo
il suicidio della donna, resta da capire il destino dell'uomo.
Controverso
questo quinto episodio, con l'uomo che conduce nella casa famigliare
una giovane ragazza da seviziare; ella pare ignara di ciò che
l'attende, vogliosa unicamente di esprimere la sua esuberanza
libidica.
Controverso per la presenza e il ruolo della
ragazza... ha un senso? È la borghesia che non sa, non s'accorge di
nulla? Di certo è diverso il tono delle domande che alimentano il
dialogo: mentre la donna attende con fregola di terrore al dialogo
con l'uomo, la ragazza, dopo un iniziale distacco, coglie il
precipitare degli eventi e lo esprime con terrore vero.
Non
si tratta più di un rapporto sadomasochistico puro, c'è di mezzo un
tentativo di violenza, la reificazione è brutale e sul campo il
libertino è unicamente l'uomo.
All'apice
della violenza egli ha un mancamento (un ricordo, forse?) e sviene,
permettendo così alla ragazza di fuggire.
Restano
i vestiti, simbolo del male borghese.
Restano
le tracce di quanto verrà consumato nell'ultimo episodio.
2.6.
Sesto
episodio
Una
tragedia non può che finire in tragedia.
E
una vera tragedia raggiunge l'acme nel silenzio più totale.
L'uomo si denuda e si riveste degli abiti
femminili della borghesia, preannunciando il suo manifesto ideale:
tra la caducità che conduce alla rassegnazione e all'asservimento
del potere e la morte istantanea, c'è la terza via, quella
rivoluzionaria, quella di un nuovo linguaggio:
Il
mio linguaggio diventerà muto per eccellenza,
oltre
che per l'eternità... Eppure
chi
domattina verrà, e alzerà gli occhi per decifrarlo
capirà
quale terribile
forza, mai pensata finora,
avrebbe
avuto il mio desiderio di essere libero,
se
avessi vinto il mio istinto
attraverso
cui la morte
aveva
dichiarato inutile ogni speranza(23).
E
come a rimarcare il differente grado di riflessione del suo suicidio
rispetto a quello della donna, poche righe dopo:
Infatti
non faccio questo (come, ripeto,
è
stato già fatto nel corso di questa tragedia)
per
aver perduto il senso della legge:
ma
per averlo ritrovato e... GIUDICATO.
Il
suicidio è servito, nessuno potrà permettersi di non vedere quel
corpo appeso a un cappio, quel corpo maschile ricoperto degli stracci
dell'autorità borghese.
Sembra
un inno di morte, eppure il grido di svelamento dei meccanismi
borghesi contiene un sottofondo di luce.
L'uomo
ha vissuto nel peccato borghese ma ha capito, togliendosi la vita
come gesto palesemente dimostrativo.
Eppure
ha in parte fallito: la verità del giudizio avrebbe, infatti, potuto
condurlo verso il rispetto della propria diversità; diversità che
sarebbe stata deflagrante all'ennesima potenza, se avesse potuto
tenerla sotto controllo.
Per
certi versi, è il suo, quello dell'uomo, il suicidio anomico!
Che
il suo gesto derivi da una incontinenza emozionale lo si capisce bene
se pensiamo alle parole sottolineate in grassetto come al secondo
tempo, alla conseguenza di quanto detto appena due pagine prima,
rimarcate peraltro dal testo stesso:
Sì,
questo è importante, e lo sottolineo:
la
morte che concede l'orgia,
rende
per sua natura sciocco lo sperare(24).
Se
solo l'istinto dell'orgia che conduce alla morte fosse stato
soppresso, un mondo nuovo avrebbe trovato accoglimento.
Ma
la ragione, anche quella del silenzio, non ha avuto la meglio.
Avevamo
lasciato inevasa, all'inizio o quasi di questa ricognizione, una
domanda sulla genesi dell'«amore al negativo», di quel che spinge a
taluni comportamenti, fino alle loro degenerazioni patologiche.
La risposta che ci sentiamo di cogliere è qui,
davanti ai nostri occhi.
Il
paradigma del corpo, esattamente come tutti gli altri, è sottoposto
alle regole del paradigma fondante il pensiero dell'uomo occidentale:
il divenire.
E
la speranza è, con la sua semantica rigogliosa di futuro, il
prodotto anticipatore che il tempo porta con sé nell'entropia del
suo scorrere.
Non
c'è scampo da questa radice: l'essere umano ha bisogno intimamente
di scorrere, a volte fino al malessere supremo.
Il
corpo è l'agone, il campo di battaglia dove le forze in campo
accumulano ferite e medaglie, vendette e soprusi.
Le
favole d'eterno sono la panacea che alcuni somministrano per non
cadere nel precipizio della contraddizione cui naturalmente tendiamo,
noi, finiti alla ricerca dell'infinito.
Il
suicidio dell'uomo è dunque un segno di futuro a metà, una via
d'uscita rispetto al consumismo e al capitalismo imperanti.
Basteranno
sette anni, quelli che separano Orgia
da
Salò,
per
annichilire anche questa flebile speranza.
3.
Conclusioni
L'onda
del corpo sacro come ultima salvezza cade, sostanzialmente, inevasa.
Ben
altre son le direzioni che il paradigma prende dopo gli anni
Settanta(25).
Frantumato
da una lettura deteriore e incompleta delle topiche decostruzioniste,
il corpo subisce lo stesso effetto lacerante già patito dall'Io con
anticipo di almeno mezzo secolo.
Strano
destino, quello del blocco monolitico del corpo: apparentemente
omnipervasivo, in realtà candidato alla sparizione!
Detto
in altri termini: il profluvio della fisicità, connotato precipuo
della società dell'immagine ha prodotto l'esatto contrario.
Effetto
di per sé del depotenziamento da mito tragico a semplice chiacchiera
dell'amore al negativo come paradigma che fonda dalla letteratura
provenzale ai giorni nostri, il corpo esce dalla superficie ed entra
ovunque.
E
se l'individualità, l'unicità, è ancor più garantita dalle ultime
scoperte scientifiche (pensiamo solo alla potenza con cui è entrata
nell'immaginario comune la nozione di DNA, probabilmente la scoperta
scientifica più influente e diffusa per notorietà, insieme alla
teoria einsteiniana della relatività nel secolo scorso, piena di
implicazioni e ricadute, anche a livello di giustizia criminale,
diritto ereditario, fiction etc...), il corpo va esaurendosi!
Quasi per contrappasso, ottenuta la certezza
scientifica dell'unicum della persona, il resto diventa aleatorio,
perde di valore.
Il
processo è sotto gli occhi di tutti: annichilitone dopo Auschwitz il
valore sacro, il corpo diventa commerciabile, modificabile,
interscambiabile.
Non
serve più vendere l'anima al diavolo per ottenere l'elisir di
giovinezza, lo si compra direttamente!
Gli
effetti devastanti della chirurgia plastica ed estetica portano a
nuovi modi di interloquire con le proprie cellule. Ci si può
ripetutamente modificare a piacimento, invadendo chirurgicamente la
sfera della propria carne; il privato non è più un tabù.
E
lo si fa per mille ragioni, nessuna davvero guidata da una logica che
non appartenga al dominio dell'apparire, dei soldi e della superbia
(nel senso di invidia mossa dal bisogno di cambio del proprio stato
di essere).
Frantumati
nell'anima, unici nell'impronta primigenia, interscambiabili nelle
occorrenze fisiche. Ecco lo stato della nostra attualità disperante.
Il
corpo è un mezzo di conquista, una macchina per fare soldi, uno
status per appartenere a certe sfere sociali; ma anche – e pure
peggio – organi da commerciare...
Caduto
l'ultimo tabù della sacralità, non rimane alcuna nicchia
inattingibile.
Organizzazioni
criminali sfruttano lo stato di povertà per operare
capitalisticamente sui corpi dei derelitti della società.
Pensare
di poter fare una cosa del genere è, di per sé, un atto di fine
sacralità.
Ma
forse è unicamente il rovescio della medaglia: eticamente diverso
dalle finalità della ricerca scientifica e della medicina, sfrutta
ugualmente lo stesso principio fondante: l'uomo moderno può
manipolare i corpi, modificarli a piacimento. La finalità è
opinabile, il punto di partenza si basa sullo stesso paradigma di
liceità: l'onnipotenza incontrastata della tecnica, ovvero la
manifestazione pratica proprio del paradigma del divenire!
Come
gli ultimi venuti di un lungo cammino di generazioni...
Il
paradigma del corpo tende inevitabilmente e per effetto di lunga
durata a scomparire, a emaciarsi.
In
una lunga prospettiva di circolare ricongiungimento delle due parti
dell'androgino, i corpi e i sessi tendono a uniformarsi verso l'alto,
arieggiano, ben lontani dalla terra e dal sangue.
È
una possibile prospettiva di futuro, la decorpizzazione dell'essere
umano, già anticipata dagli studi sulla virtualità.
I
sensi appartengono all'anima, i corpi, come prima corazza dell'homo
sapiens, vengono lasciati al cambio di stagione, sostituiti, come in
una matrioska tendente al nulla, dall'anoressia fisica cui tendere,
chiaro sintomo di malessere.
Non
può che essere così, nell'età della tecnica dispiegata (e anche
questo ce lo aveva anticipato Leopardi...): morto il sacro, resta la
conoscenza, e l'impossibilità dell'infinito è un titanismo
insopportabile, obbliga alla malinconia, alla morte della speranza.
I
corpi che spariscono a poco a poco si consumano così, in un silenzio
che è tutto tranne che un silenzio, bensì un grido protratto, che
nessuno accoglierà.
I
corpi che parlano, dicono che l'anima è sola.
Principali
riferimenti bibliografici
P.
P. Pasolini, Orgia
in
Id.,
Tutte le opere, Teatro,
Milano,
“Meridiani” Mondadori, 2001.
S.
Casi, I
teatri di Pasolini,
Milano, Ubulibri, 2005.M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Milano, Mondadori, 2005.
1 M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Milano, Mondadori, 2005, p. 11.
2 Decisamente esplicativi in questo senso possono risultare alcuni esempi contenuti nel capitolo iniziale di M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1975.
3 Casi classici, Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone per agevolare la partenza per Troia e Isacco, figlio di Abramo, il cui sacrificio venne richiesto – per poi essere sospeso – da Dio quale prova della grande fede del padre.
4 Cfr. L. Stone, La sessualità nella storia, Bari, Laterza, 1995.
5 M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano, cit., p. 5.
6 Cfr J. Huizinga, L'autunno del Medioevo, Roma, Newton Compton, 2011 (ed. or. Harlem 1919) e D. De Rougement, L'amore e l'occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea, Milano, Rizzoli, 2006 (ed. or. Paris 1939).
7 Il mito platonico dell'androgino non conosce offuscamenti in questo senso, ma la lingua, anche quella dei nostri giorni, ci fornisce evidenti spie delle iperboli amorose e vitali legate all'essere in due, spesso sfocianti in patetiche e melense dichiarazioni di necessità dell'altro, eppure irrinunciabili!
8 M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano, cit. p. 7.
9 Cfr. le riflessioni erudite contenute in R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano Bompiani, 2009.
10 Retorica di bassa lega la nostra, eppure ci si ostina a venderla così: così la mise giù Hitler nel suo Mein Kampf, e così fecero finta di intenderla gli organismi internazionali, Croce Rossa compresa, che per lungo tempo finsero di credere alla favola dei campi di lavoro e non, come venne ufficialmente (sic!) alla luce solo parecchi anni dopo, di sterminio di massa.
11 Che poi vi fosse una falla nella sciagurata visione del mondo nazista lo riporta pure il tentativo di nascondere i reali intendimenti della soluzione finale: nel delirio più totale, rivendicare la "giustezza" delle scelte operate e farlo in piena luce, avrebbe avuto un senso e una dignità diversi. Dissimulare e nascondere era invece l'evidente dimostrazione sia della follia del piano, sia della debolezza culturale dello stesso.
12 M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano, cit., p. 18.
13 Ivi, p. 21.
14 Lo stesso Pasolini fornisce un’indicazione di Orgia come antecedente di Salò nell’auto-intervista Il sesso come metafora del potere, uscita sul «Corriere della Sera” il 25 marzo 1975. (Attualmente in Pasolini per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, t. II, Milano, “Meridiani” Mondadori, 2001).
15 S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005, p.168.
16 «Le tragedie di Pasolini sono sequenze di corpi in lotta con se stessi e con le parole che ne succhiano i confini fisici come nei quadri di Bacon, piegando e piegando corpi gettati sulla scena, dove si consuma la lotta feroce fra il sé e le parole [...]» Ivi, p. 173.
17 Ivi, p. 185.
18 «Quello della donna viene spiegato [da Pasolini] come "anomico", riprendendo il concetto di anomia dal pensiero di Durkheim, secondo cui i momenti di crisi della società generano "stati di sregolatezza" da cui può avere origine il suicidio "anomico", che si verifica dunque quando l'individuo sente allentarsi il controllo sociale proprio mentre lo stato di crisi e l'insorgere di nuove passioni avrebbero maggiormente bisogno di disciplina. Questa teoria viene ripresa da Wolff, per il quale la ricerca senza fine del piacere produce nell'individuo uno stato di frustrazione perché non vede limite al desiderio.» Ivi, p. 239.
19 P. P. Pasolini, Orgia in Id., Tutte le opere, Teatro, Milano, Mondadori, 2001, p. 245.
20 Ivi, p. 248.
21 Pare in questo senso molto azzeccata la scelta registica di Adriatico di far disporre il pubblico sui lati del palcoscenico, in una sorta di tunnel claustrofobico, a strettissimo contatto con i corpi degli attori, con i loro umori. L'orgia diventa così reale, il titolo appropriato ed il vouyerismo assicurato. Lo spettatore è dentro la tragedia, non può nascondersi.
22 P. P. Pasolini, Orgia, cit., p. 280.
23 Ivi, p. 312 (grassetto mio).
24 Ivi, p. 310.
25 Dal punto di vista letterario – e non solo – si vedano gli ultimi capitoli del saggio menzionato di Bazzocchi.
Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=4&ved=0CEYQFjAD&url=http%3A%2F%2Fcampus.unibo.it%2F80053%2F1%2FIl%2520corpo%2520di%2520Pasolini_Sal%25C3%25B2.doc&ei=3I2kUYSyN8SUOKvrgMgF&usg=AFQjCNECNO-32d_zEKFuVzaWIqKzAve2oA&sig2=l3ily9u-weS2uBD7a5k-jQ
http://www.iltuoforum.net/forum/il-libro-ritrovato-f44/pier-paolo-pasolini-1922-1975-t2801.html
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