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venerdì 5 dicembre 2025

“La religione del mio tempo” di Pier Paolo Pasolini - La religione di una "umanità vile", perduta nel vuoto esistenziale del neocapitalismo.

 "Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Biblioteca nazionale centrale di Roma

“La religione del mio tempo”
di Pier Paolo Pasolini
La religione di una "umanità vile"
perduta nel vuoto esistenziale del neocapitalismo.


“La religione del mio tempo” è una delle raccolte poetiche più significative della maturità poetica di Pier Paolo Pasolini, pubblicata nel 1961 da Garzanti e composta da testi scritti tra il 1955 e il 1960. 

Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna nel 1922 e trascorre l’infanzia e la giovinezza tra il Friuli materno e varie città del Nord Italia, seguendo i trasferimenti del padre ufficiale. La formazione friulana, segnata dalla lingua dialettale, dalla religiosità popolare e dalla tragedia della guerra (la morte del fratello Guido partigiano nell’eccidio di Porzûs), costituisce il nucleo originario della sua sensibilità poetica e della sua visione del mondo. Dopo lo scandalo e l’espulsione dal PCI friulano nel 1949, Pasolini si trasferisce a Roma con la madre, iniziando una nuova fase della sua vita e della sua produzione letteraria, caratterizzata dalla scoperta delle borgate romane e del sottoproletariato urbano.

Gli anni Cinquanta vedono Pasolini affermarsi come poeta, narratore e intellettuale militante: pubblica “Ragazzi di vita” (1955), “Le ceneri di Gramsci” (1957), “Una vita violenta” (1959), e collabora con la rivista “Officina” (1955-1959), punto di riferimento per la nuova poesia civile e per il dibattito letterario e politico dell’epoca. La sua posizione di “intellettuale irregolare”, ai margini sia della borghesia che del proletariato, si fa sempre più consapevole e problematica, soprattutto dopo i fatti del 1956 (rivolta d’Ungheria, crisi del comunismo internazionale) e l’avvento del neocapitalismo in Italia.

“La religione del mio tempo” nasce in questo clima di crisi e di transizione: la raccolta raccoglie testi composti tra il 1955 e il 1960, anni segnati da profondi mutamenti sociali, politici e culturali. L’Italia sta vivendo il boom economico, l'allargamento periferie urbane, la crescita del consumismo e la perdita di centralità delle ideologie tradizionali. Il Partito Comunista Italiano, dopo la repressione ungherese e il XX Congresso del PCUS, attraversa una fase di stasi e di “desistenza rivoluzionaria”, mentre la Chiesa cattolica mantiene un ruolo dominante ma sempre più contestato.

Pasolini, da sempre vicino al marxismo ma critico verso il PCI ufficiale, avverte la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova stagione di disincanto e di solitudine intellettuale. La sua poesia si fa più polemica, autobiografica e “incivile”, come egli stesso la definirà, segnando il passaggio da una visione ancora utopica e dialettica (quella delle “Ceneri di Gramsci”) a una posizione di radicale rifiuto sia della società neocapitalista che delle istituzioni clericali e borghesi.

La raccolta viene pubblicata da Garzanti il 20 maggio 1961, con dedica a Elsa Morante, e comprende testi scritti a Roma tra il 1955 e il 1960. La prima parte (“La ricchezza”, “A un ragazzo”, “La religione del mio tempo”, “Una luce”) raccoglie poemetti e liriche composte tra il 1955 e il 1959; la seconda parte (“Umiliato e offeso”, “Nuovi epigrammi”, “In morte del realismo”) comprende epigrammi e satire scritte tra il 1958 e il 1960, molti dei quali già apparsi su “Officina”; la terza parte (“Poesie incivili”) raccoglie canzoni e liriche del 1960.

“La religione del mio tempo” si articola in tre parti principali, ciascuna caratterizzata da una specifica forma metrica e da una diversa funzione tematica:

Prima parte: comprende il poemetto “La ricchezza” (1955-57), articolato in sei sezioni, scritto prevalentemente in endecasillabi e strofe libere; il componimento “A un ragazzo” (1956-57), in distici di doppi settenari; il poemetto eponimo “La religione del mio tempo” (1957-59), suddiviso in sei sezioni in terzine; e un’appendice (“Una luce”, 1959).

Seconda parte: raccoglie due serie di epigrammi, “Umiliato e offeso” (1958) e “Nuovi epigrammi” (1958-59), seguite dalla poesia “In morte del realismo” (1960).

Terza parte: comprende cinque componimenti con il titolo “Poesie incivili” (aprile 1960).

Questa struttura riflette l’evoluzione del pensiero e della poetica di Pasolini in quegli anni, passando dalla narrazione lirica e autobiografica alla satira epigrammatica e infine alla poesia civile e polemica.

La raccolta si distingue per una grande varietà di forme metriche e stilistiche. “La ricchezza” alterna strofe libere, endecasillabi sciolti, terzine e quartine, con frequenti enjambement e una rima non regolare ma ricorrente. “A un ragazzo” utilizza il distico martelliano, già sperimentato da Pasolini in “Le ceneri di Gramsci”, mentre “La religione del mio tempo” adotta la terzina dantesca, spesso spezzata e frantumata, a sottolineare la tensione tra tradizione e modernità.

Gli epigrammi della seconda parte sono composti in distici, con versi che vanno dall’endecasillabo al doppio novenario, e si caratterizzano per il tono sarcastico e polemico. Le “Poesie incivili” riprendono la forma della canzone, con strofe di varia lunghezza e una metrica irregolare, a testimoniare la volontà di superare i vincoli formali della lirica tradizionale.

Tra le figure retoriche più ricorrenti si segnalano l’ossimoro (divenuto “istituzionale” nella poesia pasoliniana), l’enjambement, la terzina, il distico, l’iperbole, l’antifrasi e la ripetizione anaforica. L’uso di immagini pittoriche e cinematografiche, la coralità dei personaggi e la struttura “itinerante” e “deambulatoria” del discorso poetico sono tratti distintivi della raccolta.

Il tema della religione attraversa tutta la raccolta, a partire dal titolo stesso, che richiama ironicamente un sonetto di Gioachino Belli (“La riliggione der nostro tempo”) e allude al rapporto problematico tra fede, istituzione e modernità. Pasolini contrappone la religiosità istintiva e popolare del Friuli materno, vissuta come “profumo” e “luce” dell’infanzia, alla religione istituzionale della Chiesa cattolica, identificata come “spietato cuore dello Stato” e strumento di potere borghese.

Nei versi del poemetto “La religione del mio tempo”, il poeta rievoca la propria giovinezza religiosa, la purezza dei sentimenti e la speranza di giustizia, per poi denunciare l’ipocrisia della Chiesa contemporanea, che ha tradito il messaggio evangelico e si è alleata con il potere e la borghesia. La religione del tempo presente è, per Pasolini, una religione della viltà, della paura, del possesso e della sicurezza, che ha sostituito la fede autentica con il conformismo e l’omologazione.

Il sacro, tuttavia, non scompare del tutto: sopravvive come nostalgia, come “eresia evangelico-viscerale”, come tensione verso una purezza originaria e una giustizia perduta. La poesia stessa diventa, per Pasolini, una forma di religione laica, un atto di amore e di testimonianza nei confronti dell’umanità umiliata e offesa.

La dimensione politica è centrale nella raccolta, che si presenta come un diario intellettuale e morale della crisi del 1960. Pasolini, pur dichiarandosi marxista, si pone in posizione critica rispetto al PCI e alla sinistra ufficiale, accusando il partito di aver abbandonato il “grande sogno” della rivoluzione e di essersi adattato al compromesso borghese.

Nei poemetti e negli epigrammi, il poeta denuncia il vuoto esistenziale prodotto dal neocapitalismo e dalla “desistenza rivoluzionaria”, la perdita di senso della storia e la crisi delle ideologie tradizionali. La polemica con Carlo Salinari e la discussione sulle pagine di “Vie nuove” testimoniano la vivacità del dibattito e la posizione autonoma di Pasolini rispetto alla linea ufficiale del partito.

Il rapporto tra ideologia e poesia, tra impegno civile e autenticità espressiva, è uno dei nodi centrali della raccolta. Pasolini rivendica la necessità di una poesia “incivile”, capace di denunciare l’ipocrisia della società contemporanea, ma anche di esprimere la propria diversità e la propria solitudine di intellettuale fuori dalla storia.

Un altro tema fondamentale è quello della modernità e della trasformazione della società italiana sotto la spinta del neocapitalismo. Pasolini osserva con sguardo antropologico il sottoproletariato romano, le periferie urbane, i nuovi bisogni e desideri indotti dalla civiltà dei consumi.

Il desiderio di ricchezza, la speranza ossessiva di riscatto, la vitalità anarchica e banditesca dei ragazzi di borgata sono descritti con partecipazione ma anche con distacco, in una tensione continua tra identificazione e differenza. Il poeta si riconosce in questa umanità disordinata e povera, ma ne avverte anche la distanza e l’estraneità rispetto alla storia e alla coscienza politica.

La modernità appare come una forza distruttrice, capace di omologare e corrompere anche i ceti popolari, che ormai sognano solo il benessere economico e l’imitazione dei canoni borghesi. La città di Roma, amata nella sua impurità e nella sua miseria, diventa il simbolo di una società in trasformazione, dove il sacro è stato sostituito dal mito del possesso.

Il rapporto tra sacro e profano, tra eros e storia, costituisce un altro asse portante della raccolta. Pasolini, erede della tradizione religiosa e della cultura contadina friulana, vive la trasformazione della società, voluta dal neocapitalismo, come una perdita irreparabile di senso e di purezza. Il sacro sopravvive come nostalgia, come rimpianto per un’epoca in cui la giustizia e la luce sembravano possibili, ma è ormai travolto dalla volgarità e dalla corruzione della società contemporanea. L’eros, già centrale nelle raccolte precedenti, si intreccia qui con la riflessione sulla storia e sulla politica: l’amore carnale, la passione per la vita, la sensualità dei corpi sono vissuti come forme di resistenza alla morte e all’omologazione, ma anche come segni di una diversità irriducibile e dolorosa.

Lo stile di Pasolini in “La religione del mio tempo” si caratterizza per un lessico ricco e variegato, che mescola termini colti e popolari, espressioni dialettali e neologismi, immagini pittoriche e sequenze cinematografiche. La formazione artistica dell’autore, allievo di Roberto Longhi, si riflette nell’uso di immagini luminose, colori, prospettive e dettagli visivi che evocano i grandi maestri della pittura italiana (Piero della Francesca, Caravaggio, Mantegna, Giotto). Il procedimento cinematografico, già presente nelle raccolte precedenti, si accentua qui nella costruzione delle scene, nel montaggio delle sequenze, nella coralità dei personaggi e nella struttura “itinerante” del discorso poetico. Lo sguardo del poeta si muove attraverso i paesaggi, le periferie, le strade di Roma, come una macchina da presa che registra la realtà e la trasforma in visione.

Tra le figure retoriche più frequenti nella raccolta, si segnalano:

Ossimoro: diventa una cifra stilistica costante, a sottolineare la compresenza di opposti (luce/ombra, sacro/profano, amore/odio, speranza/disillusione) e la tensione irrisolta tra passato e presente, individuo e società.

Enjambement: utilizzato per spezzare il ritmo e creare un effetto di sospensione e di movimento, accentuando la dimensione narrativa e argomentativa del verso.

Terzine e distici: ripresi dalla tradizione dantesca e petrarchesca, ma spesso frantumati e contaminati da forme moderne e irregolari, a testimoniare la volontà di superare i vincoli della metrica tradizionale.

Anafora, iperbole, antifrasi: impiegate per rafforzare il tono polemico e oratorio, soprattutto negli epigrammi e nelle poesie civili.

La riflessione sulla lingua è centrale nella poetica di Pasolini. In “La religione del mio tempo”, la lingua poetica si fa “mimetica e oggettiva”, capace di rappresentare la realtà nella sua complessità e contraddizione. Il poeta rifiuta sia il purismo formale che la sperimentazione autoreferenziale, rivendicando una lingua “macchiata di realtà”, aperta alla contaminazione e alla ricerca di nuove forme espressive. La pluralità dei registri, la mescolanza di stili e di lessici, la presenza di dialetti e gerghi sono strumenti per opporsi all’omologazione linguistica e culturale imposta dal neocapitalismo e dalla società di massa.

Il poemetto “La ricchezza” apre la raccolta con una sequenza di scene che si muovono dagli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo, attraverso il paesaggio toscano e umbro, fino a Roma. Il protagonista è un operaio umile, figura emblematica della nuova Italia in trasformazione. La struttura itinerante del poemetto, costruita come un viaggio e un montaggio cinematografico, permette al poeta di riflettere sulla propria identità di intellettuale borghese, sulla diversità rispetto al popolo e sulla centralità dell’“io” che vede, ascolta, descrive e si interroga. Il desiderio di ricchezza, condiviso dal poeta e dal sottoproletariato, diventa il simbolo di una speranza ossessiva e di una vitalità primordiale, ma anche di una condizione di estraneità rispetto alla storia e alla coscienza politica. La poesia si conclude con una proiezione sotto le stelle di “Roma città aperta” di Rossellini, che rievoca l’età della Resistenza e della giovinezza friulana, ma anche la disillusione e il senso di vuoto che hanno seguito le speranze epiche del dopoguerra.

Dedicata al giovane Bernardo Bertolucci, “A un ragazzo” è un componimento in distici che segna una pausa meditativa nella raccolta. Il poeta si rivolge alla nuova generazione, interrogandosi sul senso della libertà, della Resistenza e delle lotte passate. La figura dell’adolescente diventa il simbolo di una domanda senza risposta, di una stagione chiusa e di un vuoto che si apre davanti ai padri. La presenza del fratello Guido, morto partigiano, e la rievocazione della stazione friulana sottolineano il distacco e il rimpianto per un’epoca di certezze ormai perdute.

Il poemetto eponimo, scritto in terzine, rappresenta il culmine della riflessione pasoliniana sulla religione, la storia e la modernità. L’esperienza di una breve malattia offre al poeta l’occasione per osservare il mondo esterno e rievocare il passato. La poesia si apre con la descrizione di due giovani che salgono in un sole bianco, immagine lirica e cinematografica che introduce una serie di rievocazioni: il Friuli materno, la giovinezza, la Resistenza, la Russia e la Piazza Rossa, la realtà presente. Il senso di disillusione domina il poemetto: né l’ideale religioso né quello politico sembrano più capaci di cambiare il mondo. La Chiesa è identificata come “spietato cuore dello Stato”, il comunismo come un ideale fallito, il neocapitalismo come una forza omologante e distruttrice. La poesia si conclude con una denuncia della corruzione e della volgarità della società contemporanea, ma anche con la consapevolezza che non c’è mai disperazione senza un po’ di speranza.

Per comprendere appieno il significato e l’evoluzione di “La religione del mio tempo”, è fondamentale confrontarla con la precedente raccolta “Le ceneri di Gramsci” (1957), considerata il capolavoro della poesia civile pasoliniana e uno dei testi fondativi della letteratura italiana del secondo Novecento.

In “Le ceneri di Gramsci”, il tema centrale è il dissidio tra rivoluzione e passione, tra impegno politico e vitalità individuale, tra attrazione per il mondo proletario e consapevolezza della propria diversità borghese. Il poeta si confronta con la figura di Gramsci, simbolo della coscienza storica e della lotta di classe, ma anche con la propria incapacità di scegliere e con la “vergognosa regressività” della propria posizione.

In “La religione del mio tempo”, il dissidio si fa più radicale e disilluso: la crisi delle ideologie, la fine delle speranze rivoluzionarie, la corruzione della Chiesa e della società neocapitalista portano il poeta a una posizione di rifiuto e di solitudine, in cui la poesia diventa testimonianza di una diversità irriducibile e di una rabbia senza soluzione.

“Le ceneri di Gramsci” è composta prevalentemente in terzine, con una struttura formale rigorosa e una lingua che cerca di recuperare i caratteri logici, storici e razionali della poesia prenovecentesca. Il tono è spesso elegiaco, meditativo, dialogico.

“La religione del mio tempo” alterna forme diverse (terzine, distici, strofe libere, epigrammi, canzoni), con una maggiore libertà stilistica e una tendenza alla frantumazione e alla contaminazione dei registri. Il tono si fa più polemico, oratorio, autobiografico, con frequenti scarti tra lirismo e invettiva.

Nelle “Ceneri”, la poesia è ancora vista come possibilità di mediazione tra individuo e storia, tra passione e ideologia, tra memoria e presente. Il poeta si pone come testimone di una crisi, ma anche come soggetto capace di riflettere e di scegliere, sia pure nella contraddizione.

Nella “Religione”, la crisi si approfondisce e si radicalizza: la poesia diventa “incivile”, strumento di denuncia e di resistenza, ma anche espressione di una solitudine senza rimedio. La fiducia nel sottoproletariato e nella rivoluzione lascia il posto alla consapevolezza della fine di un’epoca e della necessità di una nuova forma di opposizione e di diversità.

Il passaggio dalle “Ceneri” alla “Religione” segna una svolta nella poetica pasoliniana: dalla tensione dialettica tra passione e ideologia si passa a una posizione di crisi, di rifiuto e di solitudine, che prelude alle raccolte successive (“Poesia in forma di rosa”, “Trasumanar e organizzar”).

Al momento della pubblicazione, “La religione del mio tempo” suscita un acceso dibattito critico, soprattutto sulle pagine di “Vie nuove”, dove Carlo Salinari accusa Pasolini di “insincerità settaria” e di aver abbandonato l’impegno rivoluzionario per una posizione di disincanto e di rifiuto. Pasolini risponde con due articoli (9 e 16 novembre 1961), rivendicando la specificità della sua poesia e la necessità di una riflessione critica sulla crisi del marxismo e della società italiana. La raccolta viene letta come un segno del riflusso e della crisi della poesia civile, ma anche come una testimonianza della capacità di Pasolini di affrontare i nodi irrisolti della modernità e della storia. Franco Fortini, nella prefazione all’edizione Garzanti, parla di “raro ateismo” e di una poesia che segna la chiusura di una lunga fase dell’esperienza pasoliniana, senza però indicare una nuova strada. Negli anni successivi, la critica si è divisa tra chi ha visto nella raccolta un momento di crisi e di ripiegamento autobiografico, e chi invece ne ha sottolineato la forza polemica e la capacità di anticipare i temi della poesia “incivile” e della contestazione degli anni Sessanta e Settanta. Le monografie, i saggi e le edizioni critiche (in particolare i “Meridiani” Mondadori curati da Walter Siti) hanno messo in luce la complessità della raccolta, la sua funzione di ponte tra la stagione della poesia civile e quella della denuncia corsara, e la centralità del tema della diversità e della solitudine intellettuale. Le letture critiche si sono moltiplicate, spaziando dalle interpretazioni politiche (crisi del marxismo, rapporto con il PCI), religiose (nostalgia del sacro, critica della Chiesa), psicoanalitiche (rapporto con la madre, eros e morte) e linguistiche (riflessione sulla lingua e sulla forma poetica).

“La religione del mio tempo” è un’opera di transizione, che segna il passaggio dalla stagione della poesia civile e dell’impegno storico (anni Cinquanta) a quella della crisi, della denuncia e della solitudine intellettuale (anni Sessanta e Settanta). La raccolta anticipa molti dei temi che diventeranno centrali negli anni successivi: la critica del neocapitalismo e della società dei consumi, la perdita di senso della storia, la crisi delle ideologie, la riflessione sulla lingua e sulla forma poetica, la denuncia dell’omologazione culturale. L’impatto culturale della raccolta è stato profondo e duraturo. Pasolini viene riconosciuto come uno dei maggiori intellettuali italiani del Novecento, capace di attraversare e di mettere in crisi tutti i generi della creazione artistica: poesia, romanzo, teatro, cinema, saggistica, giornalismo. La sua poesia, e in particolare “La religione del mio tempo”, ha influenzato generazioni di poeti, scrittori e intellettuali, sia per la forza della denuncia che per la capacità di rappresentare la complessità e la contraddizione della modernità. Il suo stile, la sua lingua, la sua posizione di “diverso” e di “eretico” sono diventati modelli e punti di riferimento per la letteratura e la cultura italiana contemporanea.

Uno degli elementi più originali della raccolta è il costante riferimento all’arte figurativa, in particolare agli affreschi di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo, che aprono il poemetto “La ricchezza”. La descrizione degli affreschi, della luce che li attraversa, dei personaggi umili e dei paesaggi toscani e umbri, costituisce non solo uno sfondo visivo, ma anche un modello di costruzione poetica: la poesia come quadro, come sequenza di immagini, come montaggio cinematografico. L’influenza della pittura italiana (Masaccio, Caravaggio, Mantegna, Giotto, Piero della Francesca) si ritrova anche nei film di Pasolini, che spesso costruisce le inquadrature come tableaux vivants e utilizza la luce, i colori e le prospettive per esprimere contenuti complessi e universali. Il procedimento cinematografico, già presente nella poesia, si sviluppa parallelamente nella produzione filmica di Pasolini, a partire da “Accattone” (1961) e “Mamma Roma” (1962), La Ricotta (1963) fino a “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) e ai film della “Trilogia della vita”. La contaminazione tra linguaggi, la ricerca di una forma espressiva capace di raggiungere tutti, la centralità della figura umana e della coralità dei personaggi sono tratti comuni alla poesia e al cinema pasoliniani.

“La religione del mio tempo” esce per Garzanti il 20 maggio 1961, con una dedica a Elsa Morante, amica e figura di riferimento per Pasolini. L’edizione originale comprende una prefazione di Gianni D’Elia e un apparato critico che sottolinea la continuità e la novità rispetto alle raccolte precedenti. Negli anni successivi, la raccolta è stata ripubblicata in numerose edizioni, tra cui quelle dei “Meridiani” Mondadori (a cura di Walter Siti) e le edizioni Einaudi, spesso accompagnate da saggi introduttivi e apparati critici che ne hanno facilitato la ricezione e lo studio.

Molti critici hanno letto la raccolta come una testimonianza della crisi del marxismo e della sinistra italiana, sottolineando la posizione autonoma e spesso polemica di Pasolini rispetto al PCI e alla cultura ufficiale. La discussione con Salinari e il dibattito su “Vie nuove” sono stati interpretati come segni di una frattura tra intellettuali e partito, tra poesia e ideologia. Altri studiosi hanno messo in luce la dimensione religiosa e sacrale della poesia pasoliniana, leggendo la raccolta come una riflessione sulla perdita del sacro e sulla nostalgia di una purezza originaria. Il rapporto con la madre, la figura del fratello morto, l’eros e la morte sono stati oggetto di analisi psicoanalitiche che hanno evidenziato la centralità del tema della diversità e della solitudine. La riflessione sulla lingua, sulla forma poetica e sulla contaminazione dei registri è stata al centro di numerosi studi, che hanno sottolineato la capacità di Pasolini di rappresentare la realtà nella sua complessità e contraddizione, opponendosi sia al purismo che alla sperimentazione autoreferenziale.

La raccolta è stata pubblicata in numerose edizioni, tra cui si segnalano:

Garzanti, 1961 (edizione originale)

Einaudi, 1982 (edizione critica)

Mondadori, “Meridiani”, 2003 (a cura di Walter Siti)

Garzanti, “Gli Elefanti”, 2001 (prefazione di Gianni D’Elia)

Tra le principali letture, che hanno dato spunti e notizie per realizzare questo breve saggio, si segnalano:

Saggi e monografie di Walter Siti, Franco Fortini, Gianni D’Elia, Marco Antonio Bazzocchi, Nico Naldini, Enzo Siciliano. 

Post e saggi da: Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, Fondazione Cineteca di Bologna, Pasolini.net (di Angela Molteni).

“La religione del mio tempo” è un’opera di crisi e di transizione, che segna il passaggio dalla stagione della poesia civile e dell’impegno storico a quella della denuncia, della solitudine e della diversità intellettuale. Nel confronto con “Le ceneri di Gramsci”, “La religione del mio tempo” segna una svolta radicale: dalla tensione dialettica tra passione e ideologia si passa a una posizione di rifiuto e di solitudine, che prelude alle raccolte successive e alla stagione corsara degli anni Settanta. La poesia di Pasolini, nella sua varietà di forme, di stili e di registri, resta una delle testimonianze più alte e più attuali della crisi e della trasformazione della società italiana del Novecento.

Bruno Esposito

Curatore, Bruno Esposito

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