"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini
L'ispirazione nei contemporanei
La Fiera letteraria
anno secondo
numero 10
pag. 1 e pag. 2
6 marzo 1947
( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )
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prestabilito, e non è più dovuto a quel sentimento che potrebbero ancora accampare i romantici a questo fine, l'ironia, ma a una rigidità critica, al senso dell'assoluto che pervade, la volontà di Eupalino. La presenza di questo nuovo elemento, la coscienza della poesia, distrugge le illusioni romantiche, annulla quella irrazionalità che era sempre rimasta latente in ogni poesia anteriore, e che si era attuata più che altrove in quelle opere primitive, così vagheggiate dai romantici, e così incomprese. L'irrazionale dei poeti puri è più vicino di qualsiasi altro a quello della poesia delle origini, come la intendeva e la tratteggiava il Vico. Non vuoi dir nulla se tale irrazionalità è, ora, cosciente. L'analogia è uno dei fatti più probatori sulla natura di ispirati dei poeti puri, in quanto, benché postulata e accettata dalla volontà, è dovuta a un meccanismo irreversibile della fantasia, e il poeta deve passare attraverso a un momento di cecità per scoprire fuori dal mondo di cui è passabilmente cosciente, un rapporto tra due immagini o concetti che l'abitudine non concatena. Questa testimonianza che il processo poetico dell'analogia ci presta ha valore naturalmente in sede empirica, quando non si premetta una nozione generale di poesia, e semplicemente la si intenda come presenza: presenza materiale. E ciò è consentito dal fatto che col procedere della scoperta della poesia pura, si sviluppa il concetto della poesia come tecnica, che è appunto quello che determina la svalutazione del "poeta ispirato".
Novalis, Coleridge, Shelley, Keats scoprono come ricerca a sé il mezzo esteso dell'arte, la parola, che è suono, colore. Già Burke aveva pensato: "La poesia è sempre una sostituzione di cose con suoni". Ed ancora Novalis: "L'indicazione per mezzo dei suoni e dei segni è un'astrazione degna di ammirazione. Con tre lettere mi si mostra Dio". E Shelley: "C'è un doppio rapporto dei suoni coi pensieri e con le cose che essi rappresentano ... ". "Una percezione - chiarisce l' Anceschi (Autonomia ed eteronomia dell'arte) - dell'ordine di questa relazione fu sempre trovato comune ad una percezione dell'ordine dei pensieri: c'è una specie di rapporto costante tra pensiero e musica, tra parola e suono". A simili riflessioni così remote e quasi ermeneutiche, quei poeti erano mossi da un comune furor poeticus, cioè un anormale senso della bellezza. E Keats dice per tutti: " ... è che per un gran poeta il senso della bellezza domina ogni altra considerazione, o, piuttosto, induce a nulla ogni altra considerazione". Questo dedicare la vita alla letteratura; questo assottigliare il proprio pensiero in estreme finezze poetiche; questo addentrarsi avventuroso nelle regioni dello spirito, non testimoniano una reale "autonomia" di quei poeti? E quindi, in gran parte, l'ispirazione poetica della loro poesia. Certo, il riconoscere il mezzo poetico come qualcosa di assolutamente diverso, e, nello stesso tempo, isolabile, tangibile, era un separare, se non del tutto consciamente, la poesia da ogni altro fatto spirituale, e, in fondo, dallo spirito stesso.
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Per noi la poesia di Mallarmé non è nella pagina bianca (nel bianco eterno della pagina, proprio nel cielo intatto ... ) ma nella sua parola. E la Poesia è davvero "il nostro più vero presente", sì, ma in quanto siamo terreni, ed essa stessa è presente, tangibile, res extensa. Lo sforzo di tutti i poeti che vengono dopo il momento in cui la "poesia comincia a prender coscienza di se stessa in quanto poesia" non è verso il silenzio, è, al contrario, verso una resa straordinariamente perspicua del valore sensibile della parola. Si vedano - testimonianza esemplare - i rifacimenti ungarettiani, e, tra le altre, le seguenti, nitidissime righe di Eugenio Montale: "Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto!. Era naturale quindi che si guardasse sorridendo al poeta ispirato, come a colui che affidandosi a un'ingenua irrazionalità, cadesse più facilmente nei vizi da cui l'irrazionale sembrerebbe invece salvaguardarlo , cioè il discorso logico, il moralismo, ecc. Ma abbiamo delle ragioni sufficienti per pensare che anche i poeti puri fino a Ungaretti beneficino del soccorso dell'ispirazione, in quanto il sentimento della poesia pura, della pagina bianca da violare, è anch'esso un sentimento, e come tale suscettibile di distensioni e di tensioni. Come si vede, dunque, riferiamo positivamente a quei poeti un argomento usato di solito per dimostrare il loro errore, il quale consisterebbe - dopo il rifiuto di tutti i sentimenti in quanto "impuri" - nell'affidare la poesia a un altro sentimento, quello teorico della poesia pura, "impuro" quindi anch'esso. Ma se così non fosse, Bo avrebbe davvero ragione e il silenzio sarebbe davvero la loro poesia. Noi riconosciamo pertanto in quel sentimento un aspetto dell'ispirazione, poiché può giungere ad un acme , ad una specie di furor poeticus, che consente la scrittura, una particolare scrittura il cui irrazionale è vagliato dalla ragione. Vaglio che tuttavia è fatalmente limitato: non per nulla Valéry scrive che il primo verso di una lirica ci è regalato dal Cielo. Dalla presenza dell'ispirazione (il babau di Ungaretti, e insomma, almeno a parole, di tutti i moderni), quando per ispirazione si intenda l'acuirsi della speranza di potersi approssimare alla purezza, deriva la possibilità di raccogliere in antologia l'opera di uno di questi poeti; scelta che altrimenti non sarebbe nemmeno concepibile. Anche Ungaretti, come Pascoli, d'Annunzio, ecc. annovera i suoi momenti felici. Ora, ciò che è veramente difficile è definire in cosa questi consistano, a meno che non si voglia scadere a certe giustificazioni abitudinarie, come per esempio, che si tratti del risultato di una lunga esperienza. Meno pedestre sarebbe richiamarsi a quella "serenità" che i rondisti hanno scoperto in Leopardi (e che il Contini ridefinisce allegria); ma come si vede la questione non si risolve per avere adottato un nome più esatto. Noi saremmo tentati, in un clima freudiano, di ricordare una teoria di Havelock Ellis, che attribuirebbe alla nostra sensualità un moto periodico di tensione e di distensione; e certo non ci mancherebbe il coraggio, se fossimo più esperti in questa materia, di legare a quella periodicità l'efficienza dell'ispirazione. Chi usa scrivere versi, del resto, avverte a priori una disponibilità alla scelta delle parole. (È sempre la poesia intesa come tecnica, come materia, la shelleiana poesia in senso ristretto, che ci importa; così che davvero le parole "aderenti", quasi in un senso fisico, riescono le parole pure.) L'ispirazione sarebbe dunque uno stato, quasi fisico, di disponibilità a riudire nelle sillabe qualcosa di vigoroso, di corporeo, cioè la loro verginità, la loro equivalenza al reale?
Questo ci sembra abbastanza soddisfacente, se interpretato nell'ambito della concreta scrittura; altrimenti come Valéry a proposito di Mallarmé, abolito il concerto romantico di ispirazione, dovremmo parlare di una illuminazione (anteriore alla tecnica?), la quale non sarebbe altro che un'ispirazione pagana, come i classici la invocavano alle Muse. Così il primo verso donato da Dio vorrebbe ad essere semplicemente il salto della prima stesura, quella che nasce dall'urgere di un sentimento umano e non estetico. Insomma noi non sapremo mai com'è nato "Il meriggio d'un fauno" o "Il cimitero marino", perché le prime stesure sono rimaste bruciate dalla coscienza, mentre ci si presenta chiara la storia dell'<<Infinito>>, ed è una storia veramente significativa. Dapprima l'onda dei sentimenti, l'emozione, cerca una forma falsamente filosofica, e "L'infinito" si intitola "Sopra l'infinito" (O quanto a me gioconda quanto cara fummi quest'erma sponda...), indi moraleggiante, intitolandosi "Della natura", ed è veramente la stesura sentimentale, la stesura-sfogo:
Sempre adorata mia solinga sponda
Deh, perché agli occhi miei furi la vista
Dell'incantevole e magico effetto
Che natura concede alle creature ...
Infine, dopo un breve appunto in prosa, già molto puro, abbiamo l'ultimo "Infinito", che è semplicemente lirico, senza nessun altro pretesto. Così, mentre nelle prime stesure, che nel senso consumato della parola, sono ispirate, abbiamo dei versi filosofici, moraleggianti (cioè razionali) nell'ultima stesura, che rivela una calma immensa, quasi una fatale impassibilità, si scatena tutto il razionale (musica, ritmo, ineffabile) della poesia. È questa seconda ispirazione, non sentimentale, ma propriamente "poetica", che non ha cessato di essere valida e che aspetta di salire alla coscienza di coloro che usano ancora relegarla, nel suo senso minore, tra gl'idoli sconsacrati.
Pier Paolo Pasolini
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