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martedì 22 aprile 2025

Pasolini, L'ispirazione nei contemporanei - La Fiera letteraria, anno secondo, numero 10 (pag. 1 e pag.2) del 6 marzo 1947

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini
L'ispirazione nei contemporanei 

La Fiera letteraria

anno secondo

numero 10

pag. 1 e pag. 2

6 marzo 1947

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )


pag.1
L'intervento della ragione nello scrivere poesia è talvolta una spinta persuasiva, cosciente verso l'irrazionale. Si sa che l'abbandonarsi al sentimento (all'ispirazione) è una ebbrezza privata i cui limiti moralistici o estetizzanti sono al di qua della poesia appunto perché non vi interviene la critica. La presenza di questa durante una stesura di versi è qualcosa di estremamente delicato, in quanto è essa che deve suggerire la sintassi, le immagini, gli attributi, ecc. che non distruggano con la loro natura materiale, e quindi serena, imperturbabile, la severità e l'impegno morale della confessione. È evidente che con «critica», «ragione» intendo parlare di quella coscienza poetica su cui ha posto per primo mano Baudelaire. In seguito a questa coscienza l'irrazionale si libera diligentemente, diviene un nuovo mito assai diverso da quello che per i romantici era l'ingenuità. La liberazione avviene, è naturale, in modo diverso nei diversi poeti: l'oeil double di Verlaine gli suggerisce "les lueurs musiciennes", il "sommeil noir" ecc., cioè la sua musicale escarpolette. È inutile poi parlare del valore di tale coscienza in Mallarmé e in Valéry. Il punto saliente di questo processo è la rinuncia e la disistima dell'ispirazione, in quanto il distacco del poeta dalla sua "vicissitudine" è

prestabilito, e non è più dovuto a quel sentimento che potrebbero ancora accampare i romantici a questo fine, l'ironia, ma a una rigidità critica, al senso dell'assoluto che pervade, la volontà di Eupalino. La presenza di questo nuovo elemento, la coscienza della poesia, distrugge le illusioni romantiche, annulla quella irrazionalità che era sempre rimasta latente in ogni poesia anteriore, e che si era attuata più che altrove in quelle opere primitive, così vagheggiate dai romantici, e così incomprese. L'irrazionale dei poeti puri è più vicino di qualsiasi altro a quello della poesia delle origini, come la intendeva e la tratteggiava il Vico. Non vuoi dir nulla se tale irrazionalità è, ora, cosciente. L'analogia è uno dei fatti più probatori sulla natura di ispirati dei poeti puri, in quanto, benché postulata e accettata dalla volontà, è dovuta a un meccanismo irreversibile della fantasia, e il poeta deve passare attraverso a un momento di cecità per scoprire fuori dal mondo di cui è passabilmente cosciente, un rapporto tra due immagini o concetti che l'abitudine non concatena. Questa testimonianza che il processo poetico dell'analogia ci presta ha valore naturalmente in sede empirica, quando non si premetta una nozione generale di poesia, e semplicemente la si intenda come presenza: presenza materiale. E ciò è consentito dal fatto che col procedere della scoperta della poesia pura, si sviluppa il concetto della poesia come tecnica, che è appunto quello che determina la svalutazione del "poeta ispirato".


Novalis, Coleridge, Shelley, Keats scoprono come ricerca a sé il mezzo esteso dell'arte, la parola, che è suo­no, colore. Già Burke aveva pensato: "La poesia è sempre una sostituzione di cose con suoni". Ed ancora Novalis: "L'indicazione per mezzo dei suoni e dei segni è un'astrazione degna di ammirazione. Con tre lettere mi si mostra Dio". E Shelley: "C'è un doppio rapporto dei suoni coi pensieri e con le cose che essi rappresentano ... ". "Una percezione - chiarisce l' Anceschi (Autonomia ed eteronomia dell'arte) - dell'ordine di questa relazione fu sempre trovato comune ad una percezione dell'ordine dei pensieri: c'è una specie di rapporto costante tra pensiero e musica, tra parola e suono". A simili riflessioni così remote e quasi ermeneutiche, quei poeti erano mossi da un comune furor poeticus, cioè un anormale senso della bellezza. E Keats dice per tutti: " ... è che per un gran poeta il senso della bellezza domina ogni altra considerazione, o, piuttosto, induce a nulla ogni altra considerazione". Questo dedicare la vita alla letteratura; questo assottigliare il proprio pensiero in estreme finezze poetiche; questo addentrarsi avventuroso nelle regioni dello spirito, non testimoniano una reale "autonomia" di quei poeti? E quindi, in gran parte, l'ispirazione poetica della loro poesia. Certo, il riconoscere il mezzo poetico come qualcosa di assolutamente diverso, e, nello stesso tempo, isolabile, tangibile, era un separare, se non del tutto consciamente, la poesia da ogni altro fatto spirituale, e, in fondo, dallo spirito stesso.

pag.2
Quando Novalis nei frammenti pensa che bisogna scrivere come si compone musica, e propone di inventare le leggi di una "Fantastica", che ponga le ragioni universali della bellezza delle parole; o quando Wordsworth si impegna di "adattare alle leggi metriche una scelta del linguaggio reale degli uomini in uno stato di vivida sensazione"; o Coleridge paragona l'illuminazione rivelatrice e rinnovatrice della poesia all'"improvviso incanto che gli accidenti di luce e ombra diffondono sopra un paesaggio conosciuto e famigliare"; noi vediamo tutti questi poeti immersi in uno stato che non è più umano, o logico , o filosofico, ma puramente poetico. E si potrebbe identificare questo pratico lavoro, questo indistinto indugio sulla tecnica, a quella che Shelley definiva "poesia in senso ristretto", estremo affinamento del mezzo espressivo, che finiva col distrarre tanto il poeta da divenirne esso stesso il vero, unico scopo del poetare. Shelley non poteva sboccare ancora, naturalmente, a1 concetto della purezza; ma già forse, in segreto, vedeva in quella poesia in senso ristretto, cioè lavoro creativo scelta delle parole, il suo solo, dolce fine. È così che quei poeti romantici preparano la strada a Baudelaire, a Mallarmé ... Ponendo la questione in tali termini non è avvertibile qualcosa di patologico nella nascita della nozio­ne dell'autonomia, della poesia in sé? (Non si dimentichi che da quegli stessi poeti del pieno Ottocento nascerà, per altre vie, il decadentismo. E si legga a questo proposito l'esauriente libro del Praz su "La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica"). Infatti nasceva da un errore, da una passione. E poiché l'antinomia fra autonomia ed eteronomia è, fatalmente, un dilemma universale e non contingente dello spirito, e, come tale irrisolvibile in teoria, ma risolvibilissimo momento per momento, ecco che quei poeti cadevano con tutta naturalezza dal loro fantastico, delirante, appartato desiderio di pura bellezza, ad una filosofica e convenzionale di­chiarazione della moralità dell'arte, riconoscendo in essa una parte, non del tutto lo spirito umano. Sono i soliti inevitabili ritorni da un polo all'altro dell'antinomia, che si ripetono in ogni poeta, e, sotto forma di movimenti estetici, si alternano nelle epoche letterarie. Tuttavia per opera di Edgar Allan Poe la malattia inoculata nel mezzo della poesia è già in grado avanzato e, con Baudelaire, si avvia a trasformare completamente quel mezzo in fine. " ... è dunque capitato che a forza di scrutare in sé la coscienza dell'arte, si è finito per metter mano su qualcosa di scottante, che vi sta rannicchiato in fondo, e che l'arte non riesce a contenere in sé, più di quello che il mondo non riesca a contenere Dio". (J. Maritain). Da questo discorso è facile constatare quanto si sia lontani dalla concezione della poesia come assenza (si ricordino alcune pagine di Carlo Bo) concezione che si presenta a prima vista come l'estrema e coerente conseguenza della poesia pura.

Per noi la poesia di Mallarmé non è nella pagina bianca (nel bianco eterno della pagina, proprio nel cielo intatto ... ) ma nella sua parola. E la Poesia è davvero "il nostro più vero presente", sì, ma in quanto siamo terreni, ed essa stessa è presente, tangibile, res extensa. Lo sforzo di tutti i poeti che vengono dopo il momento in cui la "poesia comincia a prender coscienza di se stessa in quanto poesia" non è verso il silenzio, è, al contrario, verso una resa straordinariamente perspicua del valore sensibile della parola. Si vedano - testimonianza esemplare - i rifacimenti ungarettiani, e, tra le altre, le seguenti, nitidissime righe di Eugenio Montale: "Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto!. Era naturale quindi che si guardasse sorridendo al poeta ispirato, come a colui che affidandosi a un'ingenua irrazionalità, cadesse più facilmente nei vizi da cui l'irrazionale sembrerebbe invece salvaguardarlo , cioè il discorso logico, il moralismo, ecc. Ma abbiamo delle ragioni sufficienti per pensare che anche i poeti puri fino a Ungaretti beneficino del soccorso dell'ispirazione, in quanto il sentimento della poesia pura, della pagina bianca da violare, è anch'esso un sentimento, e come tale suscettibile di distensioni e di tensioni. Come si vede, dunque, riferiamo positivamente a quei poeti un argomento usato di solito per dimostrare il loro errore, il quale consisterebbe - dopo il rifiuto di tutti i sentimenti in quanto "impuri" - nell'affidare la poesia a un altro sentimento, quello teorico della poesia pura, "impuro" quindi anch'esso. Ma se così non fosse, Bo avrebbe davvero ragione e il silenzio sarebbe davvero la loro poesia. Noi riconosciamo pertanto in quel sentimento un aspetto dell'ispirazione, poiché può giungere ad un acme , ad una specie di furor poeticus, che consente la scrittura, una particolare scrittura il cui irrazionale è vagliato dalla ragione. Vaglio che tuttavia è fatalmente limitato: non per nulla Valéry scrive che il primo verso di una lirica ci è regalato dal Cielo. Dalla presenza dell'ispirazione (il babau di Ungaretti, e insomma, almeno a parole, di tutti i moderni), quando per ispirazione si intenda l'acuirsi della speranza di potersi approssimare alla purezza, deriva la possibilità di raccogliere in antologia l'opera di uno di questi poeti; scelta che altrimenti non sarebbe nemmeno concepibile. Anche Ungaretti, come Pascoli, d'Annunzio, ecc. annovera i suoi momenti felici. Ora, ciò che è veramente difficile è definire in cosa questi consistano, a meno che non si vo­glia scadere a certe giustificazioni abitudinarie, come per esempio, che si tratti del risultato di una lunga esperienza. Meno pedestre sarebbe richiamarsi a quella "serenità" che i rondisti hanno scoperto in Leopardi (e che il Contini ridefinisce allegria); ma come si vede la questione non si risolve per avere adottato un nome più esatto. Noi saremmo tentati, in un clima freudiano, di ricordare una teoria di Havelock Ellis, che attribuirebbe alla nostra sensualità un moto periodico di tensione e di distensione; e certo non ci mancherebbe il coraggio, se fossimo più esperti in questa materia, di legare a quella periodicità l'efficienza dell'ispirazione. Chi usa scrivere versi, del resto, avverte a priori una disponibilità alla scelta delle parole. (È sempre la poesia intesa come tecnica, come materia, la shelleiana poesia in senso ristretto, che ci importa; così che davvero le parole "aderenti", quasi in un senso fisico, riescono le parole pure.) L'ispirazione sarebbe dunque uno stato, quasi fisico, di dispo­nibilità a riudire nelle sillabe qualcosa di vigoroso, di corporeo, cioè la loro verginità, la loro equivalenza al reale?

Questo ci sembra abbastanza soddisfacente, se interpretato nell'ambito della concreta scrittura; altrimenti come Valéry a proposito di Mallarmé, abolito il concerto romantico di ispirazione, dovremmo parlare di una illuminazione (anteriore alla tecnica?), la quale non sarebbe altro che un'ispirazione pagana, come i classici la invocavano alle Muse. Così il primo verso donato da Dio vorrebbe ad essere semplicemente il salto della prima stesura, quella che nasce dall'urgere di un sentimento umano e non estetico. Insomma noi non sapremo mai com'è nato "Il meriggio d'un fauno" o "Il cimitero marino", perché le prime stesure sono rimaste bruciate dalla coscienza, mentre ci si presenta chiara la storia dell'<<Infinito>>, ed è una storia veramente significativa. Dapprima l'onda dei sentimenti, l'emozione, cerca una forma falsamente filosofica, e "L'infinito" si intitola "Sopra l'infinito" (O quanto a me gioconda quanto cara fummi quest'erma sponda...), indi moraleggiante, intitolandosi "Della natura", ed è veramente la stesura sentimentale, la stesura-sfogo:

Sempre adorata mia solinga sponda 

Deh, perché agli occhi miei furi la vista

Dell'incantevole e magico effetto

Che natura concede alle creature ...

Infine, dopo un breve appunto in prosa, già molto puro, abbiamo l'ultimo "Infinito", che è semplicemente lirico, senza nessun altro pretesto. Così, mentre nelle prime stesure, che nel senso consumato della parola, sono ispirate, abbiamo dei versi filosofici, moraleggianti (cioè razionali) nell'ultima stesura, che rivela una calma immensa, quasi una fatale impassibilità, si scatena tutto il razionale (musica, ritmo, ineffabile) della poesia. È questa seconda ispirazione, non sentimentale, ma propriamente "poetica", che non ha cessato di essere valida e che aspetta di salire alla coscienza di coloro che usano ancora relegarla, nel suo senso minore, tra gl'idoli sconsacrati.

Pier Paolo Pasolini

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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