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giovedì 24 aprile 2025

Pasolini 1948, "Il Friuli della mia piccola vita" - Il Friuli : rivista turistica della Regione, anno 12, n. 3 (giugno 1968), p. 15-17

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini
1948
"Il Friuli della mia piccola vita"

Il Friuli : rivista turistica della Regione

anno 12

numero 3

giugno 1968

da pag. 15 a pag. 17

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )



Pier Paolo Pasolini, che trascorse in Friuli gli anni felici de1l'ultima fanciullezza e quelli, meno generosi, della giovinezza, affida alla Rivista, da noi richiestegli, queste sue paginette dedicate, nell'ormai lontano 1948, e lasciate intatte, ad alcuni luoghi friulani. Sono momenti confidenziali di un poeta a cui il Friuli, paesaggio e popolo, aveva dato le prime emozioni ispiratrici, entrando nel suo canto.

Savorgnano al Torre

La luna non mi era mai parsa così raggiante come nel centro di quell'enorme zona di cielo e di pianura. Ancora sulla linea ascendente della sua parabola essa soffiava il polverone di platino della sua luce piuttosto verso Levante che verso Ponente, ma di poco; così che verso Ponente gli orizzonti si dilatavano fino a immergersi dentro a un'ombra fredda e insana, mentre dalla parte opposta erano tutti raccolti e rilevati nella luce, e non è da escludersi che la purezza del loro disegno non fosse dovuta al sottilissimo filo di monti che, penetrando la pianura, andavano a dileguare laggiù dove gemevano le umide luci di Butrio. Come gemme gettate e raccolte a caso su un manto di vapore, i lumi dei paesi  tempestavano la pianura, acquistando o smarrendo la loro acre anergia a seconda che il disco della luna scompariva o compariva dietro le gobbe delle deboli nuvole che esso, come una calamita, attirava attorno alla sua luce cocente; e questo gareggiare tranquillo tra il chiarore intero della luna e quello disperso, irrequieto dei lumi, riempiva la notte di non so che drammatico e silenzioso affanno: le luci fuse e azzurrine di Cividale (le più remote) dardeggiavano un chiarore muschioso che dava al cuore una sorta di struggimento o di amarezza, mentre le luci di Udine... Oh, cos'era mai divenuta Udine! Era un diadema di diamanti gialli i cui raggi cigliati, con le frequenti intermittenze che li venavano di indaco e di turchino, penetravano pungenti la notte, stille di una rugiada occhieggiante di leggenda... 

Al contrario, sotto i nostri piedi, i lumi di Povoletto, di Savorgnano, di Cortale e di Tricesimo disegnavano a festone confidente e quasi tiepido, tra cui non era raro prendesse figura il guaito di un cane o la voce di un ragazzo in cerca degli amici.

All'ora del crepuscolo ero sceso in paese con E., la quale doveva recarsi, come il solito, in latteria. Con l'ingenuità dello straniero io pensai di vestirmi decentemente, dato che questa di lavarsi e cambiarsi verso sera è una abitudine dei miei paesi. Né temo di confessare che mi ripromettevo uno di quegli incontri corali, cosi commoventi (e pensavo sempre alla vivacità vespertina, all'aria di festa e di consolata vacanza, che, risuonando negli urti dei secchi del latte sui manubri o nei richiami che scoppiano qua e là, dà a San Giovanni o a Casarsa una brillante allegrezza). Quale delusione: la rara gente  incontrata, abile nel celare la propria curiosità, o senza curiosità?, faceva forse sentire la sua presenza alla sola E., con la muta minaccia delle maldicenze. Lungo la strada inerte e la roggia fuggitiva, tra case inesorabilmente disadorne, io non vidi che persone senza batticuori, grige più dell'aria. E quando la gentilissima E. mi accompagnò per la strada, più angusta, che conduce alla Chiesa, allora lo spettacolo fu ancora più desolante. Dentro le piccole cucine da cui erompeva nella polvere e nei muri sconnessi dell'esterno una ragnatela di luce, non vidi che uomini: uomini soli chini a prepararsi la cena o a mangiare. Forse non fu che un caso, ma ora è un simbolo. Ricordo poche scene così sconfortanti e irreparabili come quella fulmineamente offertami da un giovane solo nello spreco della cucina, che spostava distratto un bicchiere sopra la tavola logora e unta... Respirai sollevato quando giunsi sopra la collina verde, azzurra e rossa, sul cui fianco, tra i giocondi alberi da frutto, la casetta dei miei ospiti si teneva in un calmo equilibrio: sentii i rumori confusi e tranquilli della cena, sentii le voci snodate e vezzose dei due bambini, che mi venivano incontro... Sì, tutto questo mi si è riassunto dolcemente nella parola «mandulis», come la pronuncia il piccolo Renato. 



Villotta 


L'inedito incominciò dopo le Toratis. Devo dire che tutta la grande pianura compresa tra il Tagliamento e il Livenza è il luogo della mia vita, e che quindi ha per me il senso di un dato elevato all'ennesima potenza, carico di memoria. La zona di questa pianura che ha per centro Casarsa e sul cui perimetro si collocano Spilimbergo, Domanins, Zoppola, Bannia, San Vito, Cordovado, Portogruaro e il Tagliamento, è ormai per me priva di misteri geografici; il mistero ha mutato dimensione: ha la configurazione di una tettonica sentimentale. Ai margini di questa zona vive un mondo... Come dire? In qual modo definirlo? È un pre-mondo, un purgatorio assopito, un pàtio che introduce verso quei luoghi d'Italia e d'Europa che non hanno in me che un'immagine convenzionale: il verde o il bruno dell'Atlante. Oltre San Vito in direzione di Pravisdomini e di Chions, la cui scoperta io rimandavo da circa due lustri, la campagna presentava quel mutamento impercettibile, ma cosi significativo, che me la rendeva diversa, «altra» da quella che mi è famigliare. Qualcosa del litorale o della palude, qualcosa di troppo spazioso o di troppo recente, non aleggiava forse su quella pianura in verde smeraldo? Con una punta di terrore pensai alla foresta preromana e romanza... E quasi a dare solidità e figura a quel terrore, ecco che mi apparve un gregge giallo e immenso, con cani ed asini, e un pastore intabarrato disteso sull'erba. Non un suono, un mormorio, un sospiro si levava da quell'orda affamata. Il pastore mi guardò: fu lo sguardo che Cristo scambia con Lazzaro nell'affresco di Giotto. Uno sguardo di silenzi. 

Quando giunsi a Villotta, che stupore! Era un paese fresco e nuovo, un paese della California costruito col gusto cimiteriale di cinquant'anni fa. Tesi l'orecchio: vi si parlava un dialetto che non era veneto benché ne avesse la vena saettante: era la maschera funebre del friulano. Intanto mi guardavo intorno, chiedendomi se per caso non vedessi ancora svolazzare, un po' stanca, la colomba del diluvio. 


Belgrado 


O toponimi slavi! Il vostro timbro ha un incanto particolare che io ricerco golosamente in questa mia friulana Carta del Tenero. Da Casarsa (con le Miris'cis e la Viersa, crudeli nomi di chissà quali infimi coloni scesi dalle valli slovene) fino a Belgrado. Il paesaggio di Belgrado è arido e poroso, con grandi pause che direi da bivacco o da gregge. (Ma io andavo a Varmo sulle peste del Nievo, e in quel viaggio la cosa più bella che vidi fu un pavone, presso Straccis, un pavone color avorio e topo.) 


Osoppo 


Dopo Pinzano il treno disegnò una enorme curva passando in volo sopra un Tagliamento allucinato. Quale solennità! Toccata l'altra sponda il convoglio si spinse controvento — un vento arioso — nel cuore di una piccola Siberia verde-tenero, gettata ai piedi dei monti. lo tremavo presso il finestrino: i miei occhi piantati su Osoppo contemplavano l'accordo finale della pianura e l'attacco — il potente Improvviso — dei monti. Beethoven, ma eseguito sul tarn tam dei vecchi negri che io nutro nel mio impenitente cuore di mozzo. 


Pier Paolo Pasolini




@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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