"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini
Marxismo e religiosità
Vie nuove
numero 47
30 novembre 1961
pag.35
Egregio Pasolini, se mi permette, vorrei dare la mia risposta alla domanda posta da Lei all’operaio Siviero e al gruppo dei cremonesi. Perché bisogna parlare necessariamente di «moti della coscienza» e «tradimenti della propria classe sociale»? Non crede, Pasolini, che solo il fatto che Lei si ritenga educato borghesemente e traditore della Sua classe sociale sia un moto negativo della Sua coscienza? Mi perdoni se ho cominciato a rispondere domandando a mia volta, ma io ritengo che ad un dato punto della vita ogni essere umano abbia dei «moti»: chi abbraccia una fede diversa, chi un lavoro nuovo, ed anche chi uccide per cambiare il proprio stato sociale.
Per questo molta gente soffre, e io credo alle Sue rinunce, ai Suoi sacrifici; ma secondo me non è, Le ripeto, una cosa positiva, penso che nasca semplicemente da una debolezza umana, dal bisogno di una bontà che non si è ancora trovata, dalla delusione… Non dall’educazione borghese sbagliata. Io credo, forse puerilmente, che al mondo esista un’unica classe sociale.
Mi scusi se non sono d’accordo con Lei, anche se l’ammiro sinceramente per la Sua lotta nella vita.
L. C. G. – Genova
Caro Pasolini, vorrei riferirti la mia opinione in merito alla domanda importante che hai posto all’operaio Siviero e al gruppo dei cremonesi. Sono un giovane universitario, di provenienza borghese, marxista, non iscritto al PCI. Secondo me la qualifica politica più esatta da dare ai medi e piccoli borghesi non è quella di capitalisti, ma di «lacché» del capitalismo. E poiché non è detto che chi è nato servo deve morire servo, mi sembra logico che anche un borghese possa far suoi quegli ideali di libertà politica e di una società senza classi, cioè senza padroni, che sono propri dell’ideologia comunista. Altrimenti bisognerebbe ammettere che i borghesi devono essere tutti fascisti; ma la Resistenza ha dimostrato che non a tutti è gradita la sudditanza agli interessi del padronato.
Credo di poter concludere che il «tradimento» della borghesia, per quanto mi riguarda, sia dovuto all’esigenza umanistica di volere una società di uomini liberi dove i meriti di ciascuno vengano giustamente valutati. Qui non si tratta certamente di impugnare le armi della rivolta in difesa delle classi operaie e contadine, ma di difendere i propri concreti interessi umani e scientifici. Alla base della conversione al marxismo da parte di un borghese stanno quindi, oltre che chiarezza e profondità di visione della storia, concreti interessi, anche se poi sublimati in ideali.
Distinti saluti.
Francesco Marò – via Boncompagni, Roma
Caro Pasolini, mi piace la domanda con la quale hai concluso i tuoi «dialoghi» sul n. 44 di «Vie nuove». Mi metto anch’io fra quelli che a un determinato momento della vita si sono decisi a «tradire». Sono considerato la pecora nera (rossa) della famiglia dal gennaio del 1947, quando entrai nel Partito comunista. Prima ero dell’Azione Cattolica perché tutta la mia famiglia era, e i rimasti al mondo lo sono ancora, dell’Azione Cattolica. A questa decisione sono arrivato dopo tante riflessioni. Perché mi sono deciso a «tradire»? Personalmente, scusami, io credo di continuare quella che era la mia vocazione quando con tutta sincerità ero convinto che pregando avrei contribuito a risolvere tutte le storture di questo mondo. Solo che quella che credevo di avere prima era una coscienza troppo astratta, lo capisco ora, da dozzina, una non-coscienza, ipocrisia, in poche parole. Ma ero in buona fede e gli altri, i soliti, ne approfittavano. Per questo quando mi accorsi di essere stato truffato mi ribellai, mi sto ribellando, mi ribellerò sempre affinché altri ragazzi che sono oggi nelle stesse condizioni mie di allora capiscano come io ho capito.
Non so se sono riuscito a spiegarmi bene, ho appena la quinta elementare nonostante la presunzione di diventare scrittore come te. Scrivo poesie, racconti, ho fatto anche un romanzo e ne sto scrivendo un altro proprio sul tema della truffa di cui sopra. E le rinunce sono proprio i divertimenti, il sonno necessario, il poco riposo. Da otto anni sono anche sposato ed ho una magnifica bimba che spero di allevare come avrei preferito allevassero anche me.
Tino Ramelli – via Di Giovanni 4, Piacenza
*****
Penso che queste siano le prime di una serie abbastanza lunga di lettere. Ne sono contento perché questo argomento del rapporto tra cristianesimo e marxismo, nella sua genericità, nella sua ampiezza, e, se vogliamo, nella sua assurdità, si presta a un gran numero di osservazioni e di excursus.
Osservate in tutte e tre queste lettere – in quella, un po’ rozza, firmata L. C. G., molto probabilmente un operaio, in quella, un po’ conformistica, del giovane universitario Marò, e in quella, esperta ed elegante, di Tino Ramelli (in cui subodoro, com’egli spera, doti di scrittore) – osservate come in tutte queste tre lettere sia rintracciabile una specie di «naturalezza» nello spiegare il tradimento del borghese (cattolico) che diventa marxista: una «naturalezza» che tende a alleggerire, o addirittura, a svelenire il problema.
Nella prima lettera troviamo proprio quello che si dice una tautologia: cioè una spiegazione della cosa con la cosa. Perché uno diventa marxista? Perché diventa marxista. Perché c’è un moto della coscienza che spinge uno a «tradire» la sua classe sociale? Perché i «moti» ci son sempre stati e sempre ci saranno. Eh, no! Non c’è niente che si spieghi col solo fatto di esserci. Molte volte, anzi, quasi sempre, le cose naturali sono le più complicate, i sintomi più comuni i più significanti.
Questo «moto» – così semplice se visto «dopo» – è, nella sua fenomenologia, un fatto molto complesso: come tutti gli atti mistici o ascetici. Non vorrei usare delle parole troppo grosse, e non vorrei essere frainteso. Bisogna tener conto che io in questo momento ho sotto il microscopio questo «moto», isolato da tutto quello che c’è prima e tutto quello che c’è dopo: e quindi esso assume ai miei occhi una specie di sproporzione. Atto mistico o ascetico, ho detto: ed è così. Perché, una volta compiuto il passaggio, non c’è più, al livello storico e logico, nessuna possibilità di ricambio o di confronto tra cristianesimo borghese e marxismo. Su questo non vorrei si facessero degli equivoci. Nel momento ideale – che è sempre, idealmente, graduato – in cui uno passa da uno stato all’altro, nega tutto il suo stato precedente: quindi nega sé stesso, come prodotto di un periodo storico o di una cultura: e questa negazione, palingenetica, di sé, è ascetica.
Dicevo che il «moto della coscienza» che porta al tradimento della propria classe sociale è graduato: esso ha generalmente (il seguito è ad libitum del lettore) alcuni momenti secondari susseguenti: il momento eretico (un accentuarsi dell’evangelismo come religione pura contro la religione di Stato, ufficiale, conformista; o un accentuarsi del moralismo «protestante»); il momento anarchico (che è una generale protesta contro lo stato di cose precostituite, istituite, divenute insopportabilmente impersonali e soffocanti); il momento umanitaristico (che convoglia i due primi momenti in una prima forma d’azione, li rende dinamici verso il prossimo). Tutti questi tre momenti hanno in comune il fatto di essere «religiosi»: cioè di essere prevalentemente irrazionali, amorosi, impregnati di pietà.
Chi porti a termine – sempre in un periodo ideale, che può durare un giorno, un anno, un decennio – questi tre momenti fino in fondo, si troverà, con le sue stesse forze, spinto dalla sua stessa inquietudine anticonformista, maturo al marxismo. Che, ripeto e lo sottolineo, è un salto di qualità. In esso la «religiosità» perde ogni caratteristica storica – irrazionalismo, individualismo, prospettivismo metafisico – per acquistare delle caratteristiche tutte nuove: razionalismo, socialità, prospettivismo laico.
Nell’atto in cui uno compie questo «salto di qualità» non è ancora marxista: c’è dunque un attimo di vuoto, in cui, se egli si muove, si muove ancora per quella spinta di «amore» che duemila anni di «imitatio Christi» – ahi quanto tradita! – gli hanno insegnato. «Dopo» si spiegherà la cosa marxisticamente: come la spiega in questa sua lettera lo studente Marò, più o meno. «Dopo», tutto si spiegherà marxisticamente, perché si tratta di un’altra cultura, di un altro punto di vista totalmente nuovo.
Vorrei aggiungere però una cosa. Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando, ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di «imitatio Christi», quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene.
Pier Paolo Pasolini, Vie nuove n. 47, 30 novembre 1961
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