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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

martedì 25 febbraio 2025

Il testo inedito dell'intervento di Pier Paolo Pasolini, al 1° congresso della federazione comunista di Pordenone ( 1 febbraio 1949 )

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

1 febbraio 1949: il primo congresso della Federazione di Pordenone. Alla presidenza, tra gli altri, ( Gino Beltrame, Mario Lizzero, Giaconao Pellegrini, Ameigo Clocchiatti, Arturo Colombi, e (il secondo da destra) Pier Paolo Pasolini (che era allora nel direttivo FGCI di Casarsa) 


Il testo inedito dell'intervento di Pier Paolo Pasolini
al 1° congresso della federazione comunista di Pordenone 
( 1 febbraio 1949 )

Rinascita
venerdi 4 settembre 1977
numero 43
pag.48
© Trascrizione integrale da cartaceo, curata da Bruno Esposito )


Il 21 agosto 1945 Pier Paolo Pasolini scrive da Versuta una lunga lettera all'amico bolognese Luciano Serra. Vi racconta, nei particolari, la morte del fratello Guido in uno sventurato conflitto tra partigiani. Guido era stato iscritto al Partito d'azione. « Spinto da queste circostanze - leggiamo nella lettera - anch'io mi sono iscritto a questo partito». Ma non si trattava solo di una scelta affettiva, del bisogno di continuare la milizia politica di Guido. Più tardi, il 15 luglio 1961, nella rubrica che' teneva su Vie Nuove, rievocando con « lucidità critica » la morte del fratello ci parla delle proprie posizioni iniziali (« io allora non avevo ancora letto Marx, ed ero liberale con tendenza al Partito d'azione») ma per aggiungere, subito dopo, di vedere nelle posizioni « socialiste » (in senso lato e non di partito) assunte in seguito una continuità con le idee di Guido « è certo che oggi sarebbe stato al mio fianco». 

Fedeltà, dunque, in Pier Paolo Pasolini, a una scelta di collocazione, ideale e personale insieme, di cui fa prova tutta la sua vita; e che troverà anche una denominazione « formale » (ma non certo secondaria) nella sua breve partecipazione militante nelle file del PCI, della quale il documento che qui si pubblica è una testimonianza. 

Breve, questa partecipazione, non certo per sua volontà. Nell'ottobre 1949 egli fu espulso dalla Federazione comunista di Pordenone per indegnità morale », in seguito a una denunzia sporta contro di lui dai carabinieri. Il trauma fu certo profondo; e ne ritroveremo gli echi in molti degli scritti, letterari e giornalistici, di Pier Paolo Pasolini; non tale, tuttavia, da impedirgli di rimanere, sino alla line, dalla parte, del comunismo, e di mantenere costantemente, da una distanza più o meno ravvicinata, un dialogo continuo e appassionato con il Pci: « Non sono qui come radicale. Non sono qui come socialista, Non sono qui come progressista. Sono qui come marxista che vota per il Pci», dirà ancora nel suo ultimo scritto, l'intervento al congresso del partito radicale, letto a Firenze il 4 settembre 1975, due giorni dopo «il suo assassinio. 

Occorre aggiungere che, quali che fossero le molteplici ragioni dell'atteggiamento del Pci nel 1949, nel partito del 1975 non era neppure pensabile l'esclusione di un iscritto a causa delle medesime circostanze? « Ricordo e so che il quadro umano è cambiato» dirà Pasolini, e lo dirà - riferendosi alla società italiana - in negativo. Ma il quadro umano è cambiato anche in positivo: occorre aggiungere che se così è stato, se una diversa e più avanzata moralità è oggi patrimonio - e anche forza culturale e politica del Pci - ciò è dovuto, in non piccola parte, al coraggio, alla intelligenza, alla passione, di un intellettuale come Pier Paolo Pasolini? 

(m. s.) 

Il testo che pubblichiamo qui accanto usci soltanto su un numero unico dedicato al 1° congresso della Federazione comunista di Pordenone (1949). Non compare neppure nel grosso volume - di imminente pubblicazione presso Garzanti - dove, a cura di Laura Betti e di un folto gruppo di studiosi e militanti, si ricostruiscono, su documenti giornalistici e giudiziari e testimonianze, le più amare vicende della vita del poeta: un capitolo, dovuto a Mario Spinella, è dedicato ai rapporti tra Pasolini e il Pci. 


di Pier Paolo Pasolini 


Alcuni compagni di San Giovanni avevano chiesto alla presidenza, durante i lavori del congresso, che mi si facesse dire qualcosa intorno alla situazione della cultura. L'intervento, naturalmente, fu rimandato perché il tempo stringeva, il che non esclude però che un cenno al problema si possa fare ora, ai margini del Congresso, quasi una postilla alla questione «rafforzamento ideologico» fortemente sentita dagli operai e anche dai contadini del Pordenonese. 

Esiste una nuova cultura, una cultura progressiva? 

Questa è la prima domanda che mi porrebbero l'operaio ed il contadino: ma è una domanda prematura. In Italia la cultura è ancora «borghese», poiché la società è borghese. Contro questa cultura borghese si sono schierati molti dei letterati e dei pensatori italiani, ma non si può dire che la loro posizione sia del tutto chiara e la loro critica definitiva, in quanto, nati ed educati in una società borghese (e anzi per la maggior parte provenienti dalla piccola borghesia), conservano delle abitudini e delle attitudini che sono ancora borghesi. 
Del resto non si può pretendere da essi se non proprio questo atteggiamento «critico», questo impegno di rinnovamento, che in sede polemica ha già dato molto, in sede creativa, invece, è ancora molto incerto (si ricordi il dibattito intorno alla presente questione, con gli interventi in Vie nuove, l'Unità e in altri giornali, di Bigiaretti, Sereni, Titta Rosa, Gatto, Ferrata, ecc...). Possiamo indicare tuttavia l'esistenza di una buona letteratura di «denuncia» contro i vizi e gli orrori della società borghese: intendo riferirmi soprattutto agli scrittori che si erano riuniti intorno al Politecnico di Vittorini, e che hanno scritto dei romanzi da questo punto di vista decisamente notevoli (Calvino,- Del Boca, Berto, ecc...), la Resistenza ha fornito molto materiale a questa letteratura che è di sinistra, ma non ancora «nuova» in quanto linguisticamente è ancora prodotta da matrici letterarie, magari altissime, ma, dal nostro punto di vista, negative. In questi ultimi decenni abbiamo avuto dei grandi scrittori, in Europa, che hanno esaurito quello che si può definire l'esame di coscienza della borghesia, cioè l'operazione introspettiva che, sondando le profondità dell'individuo, ha spiegato poi sulla pagina, come un guanto rovesciato, l'esistenza di un uomo, enormemente sensibile e intelligente, educato in una società borghese; intendo riferirmi a Gide, a Proust, Joyce, a Eliot... Pareva che l'uomo non potesse essere altro che questo squisito e impeccabile conoscitore di se stesso e della propria storia, dotato di una fantasia poderosa che a una diagnosi clinica non poteva apparire patologica. Di un giudizio, nemmeno l'ombra, salvo quello, s'intende, a cui da secoli aveva abituato il cattolicesimo: un giudizio tutto privato, intimo. Ognuno cercava (e cerca) di risolvere la propria crisi chiudendosi nella sua torre ora con il sorriso del dandy, ora con la disperazione dell'eremita. Intendiamoci: non c'è nulla di più augurabile per le nostre lettere che nasca da noi un Proust, con tutta la sua psicologia patologica; comunque un Proust che trascriva la propria storia in una società aristocratica così come ha fatto l'autore della Rechercbe è ormai inconcepibile e anacronistico. 
In conclusione, il problema è intricatissimo per una serie di interferenze e di distinzioni, bisognerà tener presenti alcuni fatti: 
1) C'è una letteratura «borghese» che l'enorme maggioranza della popolazione, fatta di cattivo gusto, ipocrisia, puritanesimo, pornografia e sentimentalismo; ma c'è anche una letteratura borghese che è contro e fuori il gusto delle masse borghesi e borghesizzate, e che è tutta intelligenza, ricchezza, fantasia, audacia, spregiudicatezza (gli anti-modelli cui accennavo e, in campo pittorico, Picasso). 
2) C'è uno schieramento di destra e di sinistra anche in letteratura, per ragioni puramente letterarie, ma non sempre chi è a sinistra in letteratura è a sinistra in politica, ecc…; .c'è dunque un doppio gioco di rapporti tra l'avanguardismo letterario e l'avanguardismo politico. 
3) Il letterato non è generalmente al servizio del capitalismo come era un tempo al servizio della nobiltà o dei re; il suo servizio è indiretto; e la sua scelta è dovuta all'influenza di un ambiente borghese di cui egli non ha preso coscienza da un punto di vista sociale. 
4) Generalmente il letterato è disposto a tradire la sua classe sociale (intendo dire il letterato moderno, d'avanguardia, cioè colui che ha raggiunto una somma abilità nelle cosiddette «prese di coscienza») 
5) Tenendo conto di tutti questi fatti (e di molti altri ancora: per es., che altro è letteratura altro è poesia) si può constatare come il letterato necessiti fortemente di una vocazione politica per iniziare quella costruzione di una «cultura nuova » che venga a sostituire la vecchia cultura borghese. Ho detto «iniziare», perché, ripeto, finché la società sarà borghese la cultura sarà borghese. Non si possono pretendere dei miracoli. 
Il lettore non abituato a queste discussioni, per intendere il' rapporto società-cultura, immagini una specie di banchetto, in cui la borghesia mangia a quattro palmenti, invitando: al suo tavolo i cuochi (gli intellettuali) e gettando qualche osso al cani ed ai mendicanti (i proletari); quell'osso sarebbe poi, per dare un esempio, l'anticomunismo e il clericalismo. Finché durerà questo banchetto, i proletari dovranno accontentarsi dei rimasugli delle pietanze preparate dagli intellettuali, e gli intellettuali, per mangiare le loro pietanze, dovranno essere i cuochi dei capitalisti. L'esempio è un pò strambo, ma dà all'incirca l'idea di come stanno le cose. Ora ciò che si richiede all'intellettuale non è una cosa facile nè comoda: si tratta di una rinuncia. Compia pure anch'egli quell'esame introspettivo, interiore, diaristico che è _poi la ginnastica vitale dell'uomo di pensiero, sia pure soprattutto e immensamente individuo, senza di che non è possibile essere artisti; ma cerchi di essere, in questo suo lavoro, più oggettivo e più, diciamo pure, cristiano: si collochi nella storia umana.
Da principio questo suo storicismo non sarà magari fedele al marxismo-leninismo 
presupporrà dell'idealismo, del cattolicesimo, dell'anarchia, dell'umanitarismo, ma anche della vita, della volontà di rinnovamento. Ed è questo, io credo, che si pretende oggi dal letterato; è questo che in fondo Banfi e Marchesi volevano dire quando affermavano che il letterato comunista doveva essere completamente libero di fare ciò che voleva in letteratura e un leale compagno in politica; è questo che infine richiedeva anche Sereni, naturalmente se si tiene conto che il lealismo e la vocazione politica finiranno per operare come un potente reagente nella coscienza letterario. 

(da Per la pace e per il lavoro, bollettino dedicato al I Congresso delta Federazione comunista di Pordenone, marzo '49) 
 
©Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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1 commento:

  1. Pasolini nel 1949 era già in sentibilità, in maturità emotiva un marxista-leninista fatto. Ovvero aveva già la sensibilità, l'emotività, la maturità interiore umana di un comunista. Queste conta in un uomo. Essa è poi quella che guida tutti i processi secondari (intelligenza, capacità linguistica-espressiva ecc.). "Un pensiero profondo e coerente è frutto di un profondo sentire". Per capire Pasolini dobbiamo sentire come Pasolini. Ma il sentire è difficile da comunicare. Lui ci ha provato, scrivendo. Anche con la poesia, anche con il cinema, anche con i saggi, anche con il giornalismo, in un dialogo creatore anche contro se stesso. Di uomini come lui l'italia dovrebbe essere fiera, il mondo essere riconoscente. Il filo rosso che è passato attraverso lui dovrebbe essere passato alle nuove generazioni.

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