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giovedì 23 maggio 2024

Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini di Italo Calvino - Corriere della Sera, 4 novembre 1975

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

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Corriere della Sera, 4 novembre 1975

Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini

di Italo Calvino

Corriere della Sera, 4 novembre 1975

Non farò più in tempo a rispondere a quella lettera. Sul “Mondo” del 30 ot­tobre, Pasolini mi indiriz­zava una lettera aperta sulla violenza nel mondo d’oggi, che resterà uno dei suoi ultimi scritti. Polemiz­zava col mio articolo del “Corriere” sul delitto del Circeo, perché io descrivevo un processo di degra­dazione della società sen­za darne spiegazioni e so­prattutto senza parlare del­la spiegazione che da tem­po ne dava lui: il «consu­mismo» che distrugge tut­ti i valori precedenti e al loro posto instaura un mondo senza principi e spietato.

Durante la settimana scorsa, a chi mi chiedeva cosa aspettavo a risponde­re, mi venne da dire una battuta cinica: «Aspetto il prossimo delitto». Non si deve mai essere cinici, nemmeno per scherzo. Ap­pena la pronunciai mi resi conto che poteva essere una di quelle battute che non ci si ricorderà volen­tieri d’aver detto. Ma non mi fermai su questo pen­siero. Il mondo in cui avvengono i delitti sembra cosi lontano, rassicurantemente lontano, a chi si tro­va a scrivere dei delitti nella tranquillità del pro­prio studio. Ed ecco, sono passati pochi giorni. Non ha tardato a succedere, il delitto su cui il giornale mi chiede un nuovo arti­colo. Ma a Pasolini non posso più rispondere, la vittima è lui.

«Parlare di una parte della borghesia come col­pevole è un discorso an­tico e meccanico — scriveva Pasolini in quella let­tera aperta –. Se a fare le stesse cose fossero stati dei poveri delle borgate romane oppure dei poveri immigrati a Milano o a Tori­no, non se ne sarebbe parlato tanto e a quel modo… Perché i poveri delle bor­gate o i poveri immigrati sono considerati tutti de­linquenti a priori. Ebbene, i poveri delle borgate ro­mane e i poveri immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effet­tivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli, e con lo stesso identico spirito… Cosa de­durre da tutto questo? Che c’è una fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed eccomi alla ripetizione della litania…».

La drammaticità di que­sto suo appello, come di tanti suoi scritti analoghi degli ultimi tempi, non può non colpirci oggi, come se avesse voluto avvertirci di un pericolo che sentiva incombere e a cui egli pure correva continuamente in­contro. In ciò egli confer­mava l’immagine che sem­pre aveva voluto darci di sé: di martire-testimone di una sua verità, di apporta­tore di scandalo ai fini di una sua predicazione mo­rale.

«Sono indignato del si­lenzio che mi ha sempre circondato» diceva anco­ra. Non era vero; mai co­me in questi tempi il suo discorso ininterrotto pro­vocava pubbliche discus­sioni, con le sue illumina­zioni di verità e le sue nu­vole d’ombra. (E non era neanche vero che io non avessi detto la mia; solo che io la facevo entrare in altri discorsi, senza nomi­narlo mai; lui capiva benissimo che lo facevo per non dare soddisfazione al suo personalismo, ma in­vece di ripagarmi con la stessa moneta, mi prende­va di petto, come era nel suo temperamento).

Ora alla personalizzazio­ne non potrei più sfuggire, perché è della sua morte che si tratta; ma tanto me­no voglio farlo. Lui legava sempre il discorso generale alla sua esperienza vis­suta; e questa mescolanza di vita e di opera si ritro­va nei dati della sua morte. Ma nonostante che egli te­nesse a non nascondere nulla, io credo che la sua vita privata riguardi lui solo; noi non possiamo giu­dicarlo. Quanto sappiamo della sua morte è di una semplicità rudimentale, ma quando si arriva al mo­mento dell’uccisione tutto resta ancora da spiegare. Direi che, sia se i fatti so­no tutti qui, sia se nuovi dati interverranno a com­plicare la storia, continue­remo per un pezzo a do­mandarci l’ultimo perché.

Su un passo della sua lettera soprattutto ero pron­to a dichiararmi d’accordo se avessi scritto in tempo la risposta:

«Risulta evi­dente da ciò che tu ti ap­poggi a certezze che vale­vano anche prima. Le cer­tezze laiche, razionali, de­mocratiche, progressiste. Cosi come sono esse non valgono più. Il divenire storico è divenuto, e quel­le certezze sono rimaste com’erano».

Ma detto questo, consta­tato che il mondo che è venuto fuori è molto più complicato e peggiore di quanto tutte le previsioni razionali annunciassero (i fenomeni legati a una urbanizzazione caotica, a una economia sbilanciata, a un modo di vita in cui la man­canza di mestieri e di pro­spettive è comune ai vari livelli di vita delle classi sociali, ed è soprattutto drammatica nei giovani) non è possibile più idealizzare un mondo perduto che portava in sé tutti i germi della presente corruzione.

Le civiltà più arretrate solo quando costituivano un mondo organico, una totalità armonica potevano avere dei vantaggi sulla nostra. Nel nostro passato immediato era solo qualche sopravvivenza degradata di altre civiltà che ci portavamo dietro, e che anziché prepararci al domani lo rendeva più catastrofico. Le cosiddette so­cietà avanzate in cui vivia­mo sono in crisi in tutti i continenti, anche se le capacità di reagire alla crisi sono diverse. Forse sarà impossibile un vero sviluppo se non di tutto il pianeta insieme, ma oggi sem­bra che ne siamo ancora lontani. Dobbiamo guardare di più a quanto sta venendo nel resto del mondo e pensare di più al nostro futuro, alle trasformazioni possibili del nostro presente.

La violenza che ora esplode nella nostra socie­tà senza forma è un fenomeno nuovo in quanto le società dei tempi passati incanalavano le proprie spinte aggressive verso esiti spesso altrettanto spietati ma collettivi. Solo un trasformazione in energie dirette verso fini comuni ci salverà dalla forza di­struttiva della violenza. So che dico cose terribilmen­te generiche e forse bana­li, ma è un punto di me­todo che voglio segnare. Voglio dire che le scuole sono in crisi in tutto il mondo, ma nel resto del mondo bene o male funzio­nano e da noi no. E che l’Italia può temere di di­ventare per almeno cin­quant’anni una periferia coloniale, una enorme borgata disoccupata e violenta.

Grande merito di Pasolini scrittore, che volle sempre essere insieme uomo dello scandalo e moralista, è l’aver posto il problema di una morale nuova che inglobi anche le zone del vissuto considerate oscure, che la morale e l’ideologia fino a oggi tendono a escludere. Non è un compito facile, e tutte le esemplificazioni oggi correnti appaiono frettolose, quelle che Pasolini rifiutava co­lme quelle che egli proclamava. Certo più di una generazione si romperà la testa, prima di costruire una nuova morale che valga per tutti, anche per chi ora ne è escluso. Ma, pur­ché si arrivi in tempo, questa sarà la via più bre­ve per dare un senso alle testimonianze sulla violenza che Pasolini ha voluto darci con la sua opera e la sua morte.

Italo Calvino


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Curatore, Bruno Esposito

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