"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
LA LUNGA STRADA DI SABBIA
Pasolini, Giro d’Italia in Fiat 1100
Di Massimiliano Sardina
Quando s’incammina sulla lunga strada di sabbia Pasolini ha da poco compiuto trentasette anni. Siamo alla vigilia dei mitici anni Sessanta, precisamente tra il giugno e l’agosto del 1959, e al volante di un’agile e scattante Fiat 1100 lo scrittore si lancia in un avventuroso tour lungo le coste della penisola italiana, dal confine con la Francia fino a Trieste. Una U che arriva ad abbracciare anche la Sicilia (e che per ragioni logistiche lascia fuori la Sardegna), un’ellisse che risalendo il suo tracciato sulla via del ritorno – quando Pier Paolo rivisita i luoghi e le sabbie della sua infanzia – sembra virare nella geometria simbolica di un cerchio che si chiude. Scopo dell’insolito viaggio è la realizzazione di un ampio reportage per la rivista Successo, un documentario sull’estate degli italiani (dal nord borghese dei moderni stabilimenti attrezzati al sud preumano, incantevole e primitivo); Pasolini ai testi e Paolo di Paolo alle
immagini: data la corposità il reportage venne suddiviso in tre parti (la prima di dodici pagine, la seconda di dieci e la terza di nove, per un totale di ben trentuno pagine) e pubblicato a puntate nei mesi di luglio, agosto e settembre 1959.
Al suggestivo titolo La lunga strada di sabbia gli editori aggiunsero un più esplicativo sottotitolo “Viaggio da Ventimiglia a Trieste”. Dal dattiloscritto originale la redazione di Successo tagliò circa una decina di fogli (versione poi confluita nei Meridiani Mondadori Pier Paolo Pasolini. Romanzi e racconti 1946-1961, 1998). La versione preliminare, comprensiva di quei passaggi omessi, vede oggi la luce anche in anastatica grazie al prezioso prestito di Graziella Chiarcossi (che ha curato anche la supervisione dell’opera); questa nuova pubblicazione, edita da Contrasto in una splendida veste grafica, nasce da un progetto del fotografo francese Philippe Séclier. Al lungo e sabbioso testo pasoliniano Séclier decide di affiancare una serie di sue fotografie in bianco e nero, immagini scattate ripercorrendo tappa dopo tappa l’itinerario intrapreso decenni addietro dallo scrittore; ne sortisce una lunga strada di sabbia a due corsie, quasi un inseguimento, e i percorsi talvolta sembrano incontrarsi, incrociarsi, sovrapporsi.
Al Pasolini sedotto dal “demone del viaggio” si affianca un Séclier preda di una sorta di incantesimo: il percorso ripercorso assume quasi il significato di un cammino iniziatico, di una passeggiata a due, in un susseguirsi curioso e talvolta inquietante di segni e coincidenze. «… Ho voluto mettere i miei passi dietro ai suoi, vedere ciò che lui aveva visto, capito e sentito, lanciarmi a mia volta su quella strada in sua compagnia, per percorrerla come lui l’aveva descritta.», sono parole innamorate quelle di Séclier, e sarà questo il suo stato d’animo prima, durante e dopo l’impresa. Nell’estate del 2001, a quarantadue anni di distanza da quel fatidico 1959, il fotografo ingrana la marcia e parte (con due documentaristi al seguito). Già dopo i primi chilometri Séclier comincia ad avvertire una sensazione di vicinanza, quasi che lo scrittore attraverso lui si stesse lentamente riappropriando di quell’itinerario antico (non una presenza invasiva, ma quella di una guida intermittente, una eco, un richiamo). «Spesso indizi diversi mi conducono in un luogo piuttosto che in un altro e sempre rispondo senza esitazione a questi ripetuti richiami che diventano appuntamenti sconvolgenti.» Quei luoghi – pur così lontani nello spazio e nel tempo, ora completamente trasformati ora incredibilmente intatti – sembrano aver trattenuto gli sguardi e le parole del poeta, incisi sulle pietre degli edifici, sparsi sull’asfalto delle strade, aggrappati ai corpi nuovi dei bagnanti o gettati oltre le immagini da cartolina di quegli orizzonti.
Il testo de La lunga strada di sabbia diviene per Séclier una sorta di mappa del tesoro, uno stradario interiore, la chiave per carpire il segreto dell’andata e quello del ritorno. Le foto – mai nitide, sempre un po’ agitate, stinte e lontane – cercano di riportare alla luce ciò che è sopravvissuto e ciò che si è irrimediabilmente riformulato: che cos’era l’Italia allora e cosa è man mano diventata? I fotogrammi più struggenti sono forse quelli dell’Albergo Savoia di Ischia, un grande edificio in rovina abbandonato al sole e alle rampicanti, dove la figura di Pier Paolo sembra far capolino dall’ombra come uno spettro della tradizione. Le immagini allegate al presente articolo non sono quelle di Séclier – invitiamo il lettore a scoprirle all’interno di questa nuova edizione Contrasto – ma semplici vedute d’archivio che ben però contribuiscono a restituire certe atmosfere di quei luoghi.
La lunga strada di sabbia, a torto spesso relegato tra gli scritti minori, è un documento cruciale nel corpus pasoliniano. In questo periplo che si srotola dalle coste di Ventimiglia a quelle di Trieste c’è tutto Pier Paolo Pasolini. C’è la sua sete di umanità, quel bisogno tutto suo di preservare, di proteggere, di custodire: il pugno puntato contro l’orrore incalzante del nuovo impero borghese è come lenito, stemperato dalla carezza elargita ora alla piazzetta di un paesino, ora alla sagometta di un mariuolo ischitano, ora a uno scorcio o a un tenue riverbero di luce. In questo suo perimetrare, sostando a piacere o a caso in un luogo piuttosto che in un altro, Pier Paolo è felice, e lo scrive più volte. In certi passaggi la sua felicità è tangibile, ingenua, bambina. È la gente, la sua gente, a renderlo felice. Quella stessa gente per cui spenderà parole forti, così spesso travisate e strumentalizzate.
Nel ’59, quando Successo gli commissiona il reportage, Pasolini ha già alle spalle la breve ma intensa esperienza della rivista Officina (con Fortini, Roversi, Leonetti e Romanò) e la pubblicazione, nel ’55, del suo primo romanzo Ragazzi di vita (che fu un grande successo letterario). Del ’59 è anche Una vita violenta, romanzo che rese famoso lo scrittore anche oltre i confini dell’Italia. La lunga strada di sabbia fa anche un po’ da spartiacque tra il Pasolini cinematografico e quello pre-cinematografico (Accattone arriverà nel ’61). Come Goethe (in Italia tra il settembre del 1786 e l’aprile del 1788), o come von Riedesel (il barone prussiano che, attraversando l’Italia nel 1767, stilò l’archetipo del diario di viaggio, qui nel caso specifico nei luoghi archeologici del sud), o ancora come Octave Mirbeau, tra i primi a redigere un diario durante una “spedizione” a bordo di un’automobile (esperienza poi confluita in La 628-E8 – Attraverso l’Europa in automobile. 1907), ma di esempi potremmo enumerarne tantissimi…, Pasolini si lancia nel suo personalissimo grand tour stilando ben di più di un reportage destinato a una rivista estiva: queste quaranta pagine dattiloscritte (ora così tristemente ingiallite) sono pagine di un diario di viaggio, pagine vergate sulla sabbia e con la sabbia, una sabbia di clessidra che oggi, a dispetto del tempo, continua a risalire e a ridiscendere.
Dal nord-ovest all’area partenopea e poi giù, sempre più giù fino alla Calabria “bandita” e a quei miracoli tra terra e cielo che rispondono al nome di Sicilia e Puglia. Poi di nuovo su dal Salento al Gargano, e poi Pescara, Ancona fino alla Riccione delle vacanze d’infanzia, e più su, su fino a Jesolo, Chioggia e ai temporali di Trieste. Pasolini sfreccia con la sua Fiat 1100, si ferma, guarda tutto da una certa distanza e poi entra, penetra, si getta dentro. Il suo sguardo autoritario e paterno sorvola lunghe distese di spiagge attrezzate, stabilimenti con cabine, ombrelloni, sdraio, juke box… tutti al sole, come un esercito di cetacei spiaggiati. «… Alassio ingoia il visitatore in una matrice d’alberghi, protesi sul mare avaro. […] Genova fuma, sfuma in un guazzabuglio supremo» e fino a Camogli è tutto «un vaporoso arresto della terra sul mare, che fa pensare alle grandi partenze, ai grandi sbarchi.» A Rapallo si erge mostruoso e imponente l’albergo della società che conta, l’Excelsior (che lo scrittore definisce «Dio della Grande Borghesia»), in stile liberty, di «una solennità che rasenta il sublime.» A Cinquale osserva «una banda di giovinastri emiliani distesi a pancia in giù a guardare una tedesca, tutti un po’ grassi spennacchiati, con uno che fa l’epilettico per buffoneria.» A Forte dei Marmi «la sabbia è liscia, sembra il pavimento di una sala da ballo.» A Livorno «lascio ogni volta il cuore sul suo enorme lungomare, pieno di ragazzi e marinai, liberi e felici.» E aggiunge che Livorno, dopo Roma e Ferrara, è la città italiana in cui gli piacerebbe più vivere. Il viaggio prosegue, dalla Toscana al Lazio, con soste a Fregene e a Ostia (qui, emblematicamente, scrive «Il Grande Formicaio s’è mosso.»). Arriva poi al Circeo: «Il cuore mi batte di gioia, di impazienza, di orgasmo. Solo, con la mia millecento e tutto il Sud davanti a me. L’avventura comincia.»
Il viaggio prosegue ancora, dalla «furberia guappa e inespressiva dei napoletani» alla dolcezza primordiale dei triacusi siculi. In Sicilia lo sguardo di Pier Paolo si colora d’incanto. «Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che si vocifera sul Sud, qui c’è. Ed è anche molto pericoloso: come niente qui, potresti riscoprire atteggiamenti alla D’Annunzio, alla Gide. Non è mica una chiacchiera che qui profumano zagare e limoni, liquerizia e papiri. […] Ma il mio viaggio mi spinge nel Sud, sempre più a Sud: come un’ossessione deliziosa.» A Pachino interagisce con «la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce.»
Risale poi dalla Trinacria bedda all’Apulia federiciana, fermandosi in una Taranto «che brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi.» Poi è tutta una risalita, sotto un Sole primitivo che è costretto a illuminare l’italietta del domani (quella delle fabbrichette, delle settimane bianche, degli hotel-alveare stile Jesolo e Riccione, l’italietta un po’ americana e un po’ parrocchiana, quell’italietta che quindici estati dopo l’avrebbe barbaramente ucciso, schiacciato, abbandonato sulla più brutta delle spiagge). A Trieste, finito il viaggio e finita l’estate, lo accoglie lo spettacolo presago di un acquazzone.
Massimiliano Sardina
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