Poeta delle Ceneri
Poesie disperse II
P.P. Pasolini, il poeta delle ceneri, a cura di Enzo Siciliano, in "nuovi argomenti" n. 67-68, Roma, luglio dicembre 1980.
ora in:
Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, vol. I, Garzanti, Milano 1993
Un testo quasi autobiografico del 1966 di Pier Paolo Pasolini pubblicato postumo da Enzo Siciliano nel 1980.
Il dattiloscritto è rimasto chiuso in un cassetto senza essere stato mai pubblicato, ritrovato solo dopo la tragica morte dello scrittore fra le carte del suo studio in via Eufrate.
“E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere,
ma nel vivere”
"Ma io non sto facendo che un poema bio-bibliografico..."
Sono uno
che è nato in una città piena di portici nel 1922.
Ho dunque quarantaquattro anni, che porto molto bene
(soltanto ieri due o tre soldati, in un boschetto di puttane,
me ne hanno attribuiti ventiquattro – poveri ragazzi
che hanno preso un bambino per un loro coetaneo);
mio padre è morto nel ’59, mia madre è viva.
Piango ancora, ogni volta che ci penso,
su mio fratello Guido,
un partigiano ucciso da altri partigiani, comunisti
(era del Partito d’Azione, ma su mio consiglio;
lui, aveva cominciato la Resistenza come comunista),
sui monti, maledetti, di un confine
disboscato con piccoli colli grigi e sconsolate prealpi.
Quanto alla poesia, ho cominciato a sette anni:
ma non ero precoce se non nella volontà.
Sono stato un poeta di sette anni
come Rimbaud – ma solo nella vita.
Ora, in un paese tra il mare e la montagna,
dove scoppiano grandi temporali, d’inverno piove molto,
in Febbraio si vedono le montagne chiare come il vetro,
appena al di là dei rami umidi, e poi nascono le primule sui fossi
inodore, e d’estate gli appezzamenti, piccoli, di granoturco
alternati a quelli verde cupo dell’erba medica
si disegnano contro il cielo sfumato
come un paesaggio misteriosamente orientale –
ora, in quel paese, c’è una cassapanca piena dei manoscritti di uno dei tanti ragazzi poeti.
La cosa più importante della mia vita è stata mia madre
(le si è aggiunto, solo ora, Ninetto).
Nel ’42 in una città dove il mio paese è così se stesso
da sembrare un paese di sogno, con la grande poesia dell’impoeticità,
formicolante di gente contadina e piccole industrie,
molto benessere,
buon vino, buona tavola,
gente educata e grossolana, un po’ volgare ma sensibile,
in quella città ho pubblicato il primo libriccino di versi,
col titolo, per allora, conformista di «Poesie a Casarsa»,
dedicato, per conformismo, a mio padre,
che l’ha ricevuto nel Kenia,
– era là prigioniero, vittima ignara e senza critica
della guerra fascista.
Gli ha fatto un immenso piacere, lo so, riceverlo:
eravamo grandi nemici,
ma la nostra inimicizia faceva parte del destino, era fuori di noi.
E segno di quel nostro odio, segno ineluttabile,
segno per un’indagine scientifica che non sbaglia,
che non può sbagliare,
quel libro dedicato a lui
era scritto in dialetto friulano!
Il dialetto di mia madre!
Il dialetto di un mondo
piccolo, ch’egli non poteva non disprezzare,
– o comunque accettare con la pazienza di un padre...
E ciò per una precedente contraddizione:
una di quelle, ancora, che non possono tradire gli scienziati!
Là dove si parlava quel dialetto, egli si era infatti innamorato.
Innamorato di mia madre.
Così, attraverso lei, il mondo piccolo, inferiore,
contadino, quasi negro, ch’egli disprezzava
l’aveva reso schiavo:
ma anche stavolta, lui non lo sapeva.
Non sapeva che il suo padrone era quell’amore
che attraverso una donna bambina (mia madre!)
bella, dalla bella gola, dall’anima troppo innocente
di angelo inadatto a vivere fuori dai paesi, appunto, dai campi,
aveva vanificato tutte le sue certezze morali
di misero uomo fatto per essere lui, il padrone.
Così, ora quel dialetto,
era una cosa diabolica.
Era il centro di mille altre contraddizioni.
Di cui la più cocente consisteva nel fatto che non poteva essere ammessa:
«perché» era consacrata dalla stampa
e dalle candide pagine di un libro di poesia
di cui il figlio ventenne era l’Autore.
Dunque non poteva nemmeno cominciare l’esame,
dato che non erano ammissibili,
di quelle contraddizioni, che furono così come nubi nere,
spaventosi tuoni, indice di totale sconfitta e di morte,
in fondo all’orizzonte luminoso dell’orgoglio di un padre prigioniero.
Bene, alla fine della guerra
è tornato in Italia, con quel libretto di versi friulani
nella valigia.
Cimelio sacro, ricordo di famiglia, attestato di grandezza
anche futura.
Devo aggiungere che mio padre approvava il fascismo.
«E qui c’è la seconda contraddizione, quella pubblica:
il fascismo non tollerava i dialetti, segni
dell’irrealizzata unità di questo paese dove sono nato,
inammissibili e spudorate realtà nel cuore dei nazionalisti.»
Per questo quel mio libro non fu recensito nelle riviste ufficiali.
E Gianfranco Contini dovette inviare la sua recensione
(la gioia letteraria, quella, più grande della mia vita)
ad un giornale di Lugano.
Con la fine del fascismo, cominciò la fine di mio padre.
Questo del fascismo è un alibi, con cui pure giustifico il mio odio,
ingiusto, per quel povero uomo: e devo dire tuttavia ch’è un odio,
orrendamente misto a compassione.
Ora che ho immeritatamente quarantaquattro anni,
circa l’età che lui aveva al tempo delle mie prime poesie,
lo vedo fuori dalla mia storia,
in una vicenda che mi è totalmente estranea,
in cui io sono un colpevole eroe oggettivo.
Perché devo ricordare
che, col mio amore iniziale per mia madre,
c’è stato un amore anche per lui: e dei sensi.
Devo ricordare i miei passetti di ragazzino di tre anni,
in una città perduta miseramente tra i monti,
dall’aria già un po’ austriaca,
quasi alle sorgenti di un fiume dal nome di museo e di guerra
e di miseria,
un fiume celeste fra grandi ghiaie pedemontane –
i miei passetti lungo il ciglio di una strada
colpita da un sole che non era della mia vita
ma di quella dei miei genitori,
verso il ciglio dove mio padre, uomo giovane,
stava orinando...
Devo aggiungere, ancora, per finire questa storia –
molto irregolare nell’insieme del mio poema –
che quei miei versi friulani sono i miei più belli
(insieme a quelli scritti fino a ventitré, ventiquattro anni,
pubblicati più tardi col titolo «La meglio gioventù»,
e insieme anche ai coevi versi italiani,
nati da quella profonda elegia friulana
di autolesionista, esibizionista e masturbatore,
tra i gelsi e le vigne viste con l’occhio più puro del mondo;
si chiamano, quei versi, «L’Usignolo della Chiesa Cattolica»,
e il loro falsetto è ancora una musica atroce
e sottile che, da laggiù, mi affascina e mi attira indietro.
Non posso dirvi altre cose
del mio soggiorno
in quel paese di temporali e primule,
un po’ d’Oriente ai confini piccolo borghesi con l’Austria:
s’incaricheranno magari dei giornalisti italiani fascisti
o semplicemente anticomunisti.
Fuggii con mia madre e una valigia e un po’ di gioie che risultarono false,
su un treno lento come un merci
per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve.
Andavamo verso Roma.
Avevamo dunque, abbandonato mio padre
accanto a una stufetta di poveri,
col suo vecchio pastrano militare
e le sue orrende furie di malato di cirrosi e sindromi paranoidee.
Ho vissuto [...] quella pagina di romanzo, l’unica della mia vita:
per il resto, che volete,
son vissuto dentro una lirica, come ogni ossesso.
Avevo tra i miei manoscritti anche il mio primo romanzo:
erano quelli i tempi di «Ladri di biciclette»
e i letterati stavano scoprendo l’Italia.
(Ora io non sono più un letterato,
evito gli altri, non ho niente a che fare
coi loro premi e le loro stampe.)
Arrivammo a Roma,
aiutati da un mio dolce zio,
che mi ha dato un po’ del suo sangue:
io vivevo come può vivere un condannato a morte
sempre con quel pensiero come una cosa addosso,
– disonore, disoccupazione, miseria.
Mia madre si ridusse per qualche tempo a fare la serva.
E io non guarirò mai più di questo male.
Perché io sono un piccolo borghese, e non so sorridere... come Mozart...
In un film – che ho chiamato «Uccellacci e uccellini» –
ho tentato è vero l’opera buffa, suprema ambizione di uno scrittore,
– ma ci sono riuscito solo in parte,
perché io sono un piccolo borghese
e tendo a drammatizzare tutto.
Come sono diventato marxista?
Ebbene... andavo tra fiorellini candidi e azzurrini di primavera,
quelli che nascono subito dopo le primule,
– e poco prima che le acacie si carichino di fiori,
odorosi come carne umana che si decompone al calore sublime
della più bella stagione –
e scrivevo sulle rive di piccoli stagni
che laggiù, nel paese di mia madre, con uno di quei nomi
intraducibili si dicono « fonde»,
coi ragazzi figli dei contadini
che facevano il loro bagno innocente
(perché erano impassibili di fronte alla loro vita
mentre io li credevo consapevoli di ciò che erano)
scrivevo le poesie dell’«Usignolo della Chiesa Cattolica»:
questo avveniva nel ’43:
nel ’45 fu tutt’un’altra cosa.
Quei figli di contadini, divenuti un poco più grandi,
si erano messi un giorno un fazzoletto rosso al collo
ed erano marciati
verso il centro mandamentale, con le sue porte
e i suoi palazzetti veneziani.
Fu così che io seppi ch’erano braccianti,
e che dunque c’erano i padroni.
Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx.
[...]
Grande è il tuo spiritualismo, America!
Ma sarà ancora più grande quando sarà sfatata la sua innocenza!
Io amo Ginsberg:
era tanto che non leggevo poesie di un poeta fratello –
credo dai tempi, in quel paese di temporali e di primule,
in cui ho letto i canti greci di Tommaseo, e Machado.
Nessun artista in nessun paese è libero.
Egli è una vivente contestazione.
Pound va in prigione come Siniavskij e Daniel,
e il Sig. Lennon ha scandalizzato tutti, credo anche i Russi.
[...]
Quanto a me,
un innocente non è mai creduto,
ed egli del resto è troppo occupato a pensare
a un fiume celeste tra grandi ghiaie pedemontane,
che scorre nel sole dei suoi genitori,
in altre vite,
in vite interpretate in altro modo,
in un significato diverso della vita,
che non è neanche quello dei sogni,
se la nostra vita non è che un’ombra
sulla nostra vera vita che non conosciamo.
A Roma, dal ’50 a oggi, Agosto del 1966,
non ho fatto altro che soffrire e lavorare voracemente.
Ho insegnato, dopo quell’anno di disoccupazione e fine della vita,
in una scuoletta privata, a ventisette dollari al mese:
frattanto mio padre
ci aveva raggiunto
e non parlammo mai della nostra fuga, mia e di mia madre.
Fu un fatto normale, un trasferimento in due tempi.
Abitammo in una casa senza tetto e senza intonaco,
una casa di poveri, all’estrema periferia, vicino a un carcere.
C’era un palmo di polvere d’estate, e la palude d’inverno.
Ma era l’Italia, l’Italia nuda e formicolante,
coi suoi ragazzi, le sue donne,
i suoi «odori di gelsomini e povere minestre»,
i tramonti sui campi dell’Aniene, i mucchi di spazzature:
e, quanto a me,
i miei sogni integri di poesia.
Tutto poteva, nella poesia, avere una soluzione.
Mi pareva che l’Italia, la sua descrizione e il suo destino,
dipendesse da quello che io ne scrivevo,
in quei versi intrisi di realtà immediata,
non più nostalgica, quasi l’avessi guadagnata col mio sudore.
Certo, quanto conta, anche nel senso più misero
una condizione economica:
non aveva peso il fatto ch’io fossi ricco di cultura e amore,
aveva molto più peso il fatto che io, certi giorni,
non spendessi nemmeno le cento lire per farmi radere la barba dal barbiere:
la mia figura economica, benché instabile e folle,
era in quel momento, per molti aspetti,
simile a quella della gente tra cui abitavo:
in questo eravamo proprio fratelli, o almeno pari.
Perciò, credo, ho molto potuto capirli.
E per capire i miei romanzi intraducibili,
leggete la prefazione di Oscar Lewis al suo romanzo registrato:
si tratta di quello.
Anche la borghesia italiana può essere, dunque, razzista.
Non ne ha avuto finora occasione,
la prima occasione minima,
i miei romanzi,
l’hanno scatenato.
Ho provato quello che può provare un negro a Chicago,
il terrore.
Ma io dimentico presto,
e tutti i terrori
non sono divenuti che una cosa
sopra e addosso a me, una cosa speciale, quella cosa,
e così l’ho accantonata e sofferta nelle viscere:
mi si è aperta un’ulcera,
di cui certamente prima o poi morirò.
Brutto colpo per il sogno interrotto della mia giovinezza!
La borghesia italiana intorno a me è una torma di assassini.
Non spero certo migliore accoglienza dalla borghesia americana.
Nel mondo del capitale la vita è una scommessa
da vincere o da perdere:
è la condizione umana del laicismo borghese.
Chi si scopre, o si confessa, o non teme il ridicolo,
finisce male: è la legge.
Cari Americani, non pacifisti e non spiritualisti,
ossia enorme maggioranza benpensante,
il vostro Dio è un idiota
come ogni cittadino medio
che desidera con tutte le sue forze e con tutto il suo spirito
di essere come tutti gli altri:
ed è per questo suo amore folle per l’uguaglianza, che la odia.
Chi di voi ha pianto
per il ragazzo greco condannato a morte
per obiezione di coscienza?
Fate un breve esame di coscienza:
chi non ha versato queste lacrime è un porco.
[...]
Ma io non sto facendo che un poema
bio-bibliografico, torniamo all’argomento:
«Ragazzi di vita» e «Una vita violenta»
sono i titoli di quei miei due romanzi
che hanno spiato l’odio razzista italiano.
Scritti nel cuore degli Anni Cinquanta.
Mentre i titoli dei miei libri di versi,
scritti in gestione contemporanea, sono:
«Le ceneri di Gramsci»,
« La religione del mio tempo»,
«Poesia in forma di rosa».
È in quest’ultimo che qualcosa si è rotto:
forse era la presenza, ancora a me non direttamente nota,
della nuova sinistra americana, e l’operare lontano di Ginsberg.
Vi ho falsamente abiurato dall’impegno,
ma perché so che l’impegno è inderogabile,
e oggi più che mai.
E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere,
ma nel vivere:
bisogna resistere nello scandalo
e nella rabbia, più che mai,
ingenui come bestie al macello,
torbidi come vittime, appunto:
bisogna dire più alto che mai il disprezzo
verso la borghesia, urlare contro la sua volgarità,
sputare sopra la sua irrealtà che essa ha eletto a realtà,
non cedere in un atto e in una parola
nell’odio totale contro di esse, le sue polizie,
le sue magistrature, le sue televisioni, i suoi giornali:
e qui
io, piccolo borghese che drammatizza tutto,
così bene educato da una madre nella dolce e timida anima
[...] della morale contadina,
vorrei tessere un elogio
della sporcizia, della miseria, della droga e del suicidio:
io privilegiato poeta marxista
che ha strumenti e armi ideologiche per combattere,
e abbastanza moralismo per condannare il puro atto di scandalo,
io, profondamente perbene,
faccio questo elogio, perché, la droga, lo schifo, la rabbia,
il suicidio
sono, con la religione, la sola speranza rimasta:
contestazione pura e azione
su cui si misura l’enorme torto del mondo [...].
Non è necessario che una vittima sappia e parli.
Nel ’60 ho poi girato il mio primo film, che,
come ho detto, s’intitola «Accattone».
Perché sono passato dalla letteratura al cinema?
Questa è, nelle domande prevedibili in un’intervista,
una domanda inevitabile, e lo è stata.
Rispondevo dunque ch’era per cambiare tecnica,
che io avevo bisogno di una nuova tecnica per dire una cosa nuova,
o, il contrario, che dicevo la stessa cosa, sempre, e perciò
dovevo cambiare tecnica: secondo le varianti dell’ossessione.
Ma ero solo in parte sincero nel dare questa risposta:
il vero di essa era in quello che avevo fatto fino allora.
Poi mi accorsi
che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi
appartenente alla stessa lingua con cui si scrive:
ma era, essa stessa una lingua...
E allora dissi le ragioni oscure
che presiedettero alla mia scelta:
quante volte rabbiosamente e avventatamente
avevo detto di voler rinunciare alla mia cittadinanza italiana!
Ebbene, abbandonando la lingua italiana, e con essa,
un po’ alla volta, la letteratura,
io rinunciavo alla mia nazionalità.
Dicevo no alle mie origini piccolo borghesi,
voltavo le spalle a tutto ciò che fa italiano,
protestavo, ingenuamente, inscenando un’abiura
che, nel momento di umiliarmi e castrarmi,
mi esaltava. Ma non ero del tutto
sincero, ancora.
Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica,
ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica.
Un giorno andavo, come un pesce fuori dalla rete,
nell’aria secca
nei dintorni di un promontorio vacante d’anime, malato
nell’azzurro,
e ora vi dirò cosa mi successe e come realmente andarono le cose.
Andavo, quel giorno, per una strada secca,
con le mani altrettanto secche e così il cervello – vi dirò
che solo il ventre era vivo, come quel promontorio nell’inutile azzurro.
Tutti i miti erano crollati e decomposti ma almeno nel promontorio
qualcuno viveva.
Insomma, spinto dal ventre vivente e dalla mia miopia,
mi pilotai nel sole secco,
su un po’ d’asfalto,
tra alcuni cespugliacci d’autunno ancora estivi,
contro un casale solo al sole,
con disegni vivaci di vecchie pareti e vecchi paletti e vecchie
reti e vecchie stecconate, azzurro e bianco,
– siamo in Italia – dove il sole misto alla pioggia dolcemente puzzava.
Là dentro c’era un ragazzo torvo, col grembiule (credo di ricordare), i capelli
fitti da donna,
la pelle pallida e tirata, una certa folle innocenza negli occhi,
di santo ostinato, di figlio che si vuole uguale alla buona madre.
In pratica – lo vidi subito – un povero ossesso:
cui l’ignoranza dava tradizionali sicurezze,
trasformando la sua cadaverica nevrosi di rigore
d’obbediente figlio identificato coi padri.
Come ti chiami, che fai, vai a ballare, hai la ragazza,
guadagni abbastanza,
furono gli argomenti con cui retrocessi dal primo impeto
della vecchia libidine della controra come un pesce seccato,
prendendo la coca cola.
Voi avete visto il mio Vangelo,
avete visto i volti del mio Vangelo.
Non potevo sbagliare, perché talvolta, quando si gira, le decisioni dovevano
avvenire
in pochi minuti:
non ho sbagliato mai, nei volti,
nei volti [...]
perché la mia libidine e la mia timidezza
mi hanno costretto a conoscere bene i miei simili.
Conobbi subito in pochi minuti anche lui,
il misero indemoniato del casale assediato dal sole.
L’inverno veniva,
a contraddire il superstite sole [...] alle avventure,
e l’inverno veniva
ed era lì nel suo volto,
con le sue tenebre le sue case silenziose, la sua [...] castità.
Mi ritirai.
Ma non in tempo perché egli non sentisse, come una donna,
il terrore per il padre non simile ai padri
che avevano costituito, per la sua obbedienza, il mondo.
Ebbene, prima non so che piccola autorità
di quel promontorio abbandonato dagli uomini e assalito
dai borghesi calanti da Roma, idioti e consacrati alla norma,
gli credette.
Gli credette poi non so che comandante,
dal viso pestato da un destino poveramente mondano.
Gli credette un giudice istruttore
con negli occhi la stessa espressione
di bianco caprone dei palazzetti novecento di quel borgo assurdo,
dove operava.
Gli credette infine il Presidente del tribunale
che mi condannò,
sia pure a venti o trenta giorni, formali.
Il ragazzo dal pallore di santo aveva raccontato
che era entrato nella sua bottega, quel giorno di sole,
un bandito, con un cappello nero,
il quale si era infilato un paio di guanti neri,
aveva caricato una pistola con una pallottola d’oro,
gli aveva intimato la resa
e aveva sottratto dal suo cassetto circa tre dollari.
Andandosene, poi, lo aveva minacciato,
poiché lui, l’aggredito, aveva afferrato, per difendersi, un coltello.
Vi ho raccontato queste cose
in uno stile non poetico
perché tu non mi leggessi come si legge un poeta.
Esisteva poi in Italia un certo Salvatore Pagliuca,
senatore di non so che partito,
esisteva giù, nel sud di Levi, tra villaggi
secchi al sole delle alluvioni,
dove crescono splendidi ulivi
e splendide ginestre.
A digiuno di ulivi e di ginestre,
come io ero a digiuno della sua esistenza,
questo Signor Salvatore Pagliuca,
vide la mia storia sopra Accattone, e sentì
che un moro dai denti scintillanti, come un lupo feroce
dal calcio prezioso,
si chiamava Salvatore Pagliuco.
Si ritenne offeso, mi fece querela, vinse il processo
e ottenne molti milioni di danni.
Ti ho raccontato questa cosa
in uno stile non poetico
perché tu non mi leggessi come si legge un poeta.
Un giorno dei primi Anni Sessanta
(il periodo in cui tutto questo accadde)
consegnai a un piccolo re del cinema di nome Amato e al suo compare Amoroso
una sceneggiatura che porta l’agreste titolo di:
«Ricotta».
Forse avrete visto questo mio film
al Festival di New York di qualche anno fa.
In quello scenario
scritto come scrive uno scrittore,
c’era qualche parola non lieve,
e poca grazia verso la religione della borghesia cattolica
del mio paese.
Per una delle tante ragioni che tu, critico cinematografico conosci bene,
il film andò a monte, Loved morì,
e Loving,
mi intentò un processo accusando il mio copione
scabroso per il pubblico medio
di avergli impedito di fare il suo film.
Sarebbe come se il Sig. Crawther
consegnasse a Levin, per richiesta dello stesso Levin,
un manoscritto troppo roseo, buono solo per educande,
e il Sig. Levin, non trovandolo buono,
per ragioni sue,
gli facesse un processo perché l’eccessivo color roseo
del copione di Crawther, del dolce Crawther,
gli aveva impedito di realizzare il film ch’egli voleva.
Ho perso anche questo processo e non so quante decine di milioni
dovrei sborsare al signor Loving
rovinato da quella mia prima stesura
di un copione inadatto agli italiani medi.
[...]
Anche questa cosa te l’ho raccontata
in uno stile non poetico
perché tu non mi leggessi come si legge un poeta.
Così è decaduta la stima per la poesia, tipica
delle infanzie che credono nell’eterno; illusione
che non affossa i nazionalismi, inconsciamente, credendo
(con infantile passione) nell’assolutezza
della lingua di una nazione; nel suo uso di canto o musica
(ch’è assolutamente assurda
appena passata la dogana); illusione
che non affossa neanche la logica e il classicismo
(un misero filologo può ricostruire tra parola e parola
– isolata e confitta nel silenzio – il discorso tagliato,
un povero discorso
senza idee, senza religione se non il culto
assai poco religioso, infine, della poesia nella letteratura).
Ma non solo è caduta
la stima per questa poesia
che è della storia piccola del mio tempo
(in cui mi trovo incastrato,
senza potervi sfilare un solo volto, anche il più estraneo,
un solo libro, anche il più dimenticato),
ma per la poesia stessa. Non è essa, dunque, che conta, mai.
Almeno se concepita come poesia.
La lingua dell’azione, della vita che si rappresenta
è così infinitamente più affascinante!
È essa che si ricostituisce – appena chiuso –
da un libro di versi: essa è prima e dopo:
in mezzo c’è un veicolo espressivo
che la evoca, ecco tutto. Opera di stregoni.
Solo l’amore per quella lingua del non-io che si esprime
con pari diritto, pari forza dell’io,
dà al poeta
l’abilità.
Ma la professione di poeta in quanto poeta
è sempre più insignificante. E proprio necessario
immettere quella lingua vivente in una lingua di convenzione,
perché poi si liberi, tornando quella che è, vivente, nel lettore?
Non sa, egli, dialogare con la realtà?
L’umile valore del poeta
è rievocarla così come egli la vede? Ma ciò è serio?
Perché non la contempla in silenzio,
– santo, e non letterato?
Tuttavia i giovani cosa fanno,
nelle sere delle loro città di provincia,
o anche nelle grandi metropoli,
se non parlare di letteratura?
Coi loro passi faziosi, lungo le vie appena scoperte
cariche di sensi segreti e di storia?
Scoprendo i letterati, come le puttane o i misteri
di un quartiere, o le abitudini di una vita sociale
ch’è ormai loro, mentre è ancora dei padri
(che perciò preparano una guerra per mandarli a morire)?
Interrogandomi
alla luce del sole di Agosto a Manhattan deserto (come vi dicevo),
vengo a sapere che io
(che solo attraverso la letteratura ho potuto essere poeta)
non sono più un letterato.
Io ho in sorte
di ricordare brevi colli, su un fiume anch’esso
con acque blu molto trasparenti sui piccoli sassi,
tra ghiaie come ossari prima tra i magredi,
tristemente verdi, poi tra i vigneti
(folli d’estate, di umido, sfumato silenzio quasi orientale)
dei colli,
e infine tra bonifiche il cui odore
basta a scatenare, per due occhi selvaggi
e un grembo selvaggiamente puro, lo sfinimento che attanaglia
e fa venir voglia di morire.
Su quei grami colli – veri cimiteri, senza fiori –
si lottò contro i fascisti e i Tedeschi, e mio fratello,
come vi ho detto, vi ha lasciato i suoi diciannove anni,
come un falco che sapeva appena volare, e volava così bene.
Quello che voi, con una piega di ironico ma antipatico sorriso
(che vi sforma il volto falsamente sicuro, di malati)
chiamate, vistosamente sottolineandolo, l’«impegno»,
è, per una quindicina d’anni,
vissuto da parassita sulla gloria e il dolore di quei cimiteri.
Cioè, non è stato.
È ora, che esso comincia a essere.
Ora che quei cimiteri senza fiori
hanno anch’essi la loro fioritura.
Anche il mio amico Moravia ha paura,
per un’ansia d’impopolarità forse,
quando non vuol comprendere questo. E con lui,
e molto peggio di lui (che arcanamente è teso
in una imperterrita volontà di capire) tutti gli altri
che in Italia
hanno il nome e la funzione di «letterati».
Tutti rinnegano quell’impegno con la taciuta,
nevrotica volontà di adularvi: chi lo fa con contrizione,
chi gonfiando il petto come una puttana.
Io non voglio ritornare a quei colli,
né come turista né come visitatore di tombe, sia chiaro.
Anch’io, anch’io li ho dimenticati.
E a ragione! Nella loro azione e nell’ideologia
che la dettava, come una forma di sublime catechismo,
ebbi la mia ribellione di giovane.
Vi ho preso forse
anche abitudini indelebili
di moralismo e dignità.
Ma non ci torno, in quei luoghi che ci sono ma sono invisibili.
A questo punto, non voglio commuovermi sulle mie ragioni,
cioè sul fatto
che non solo, l’«impegno»,
non è finito, ma che anzi, incomincia.
Mai l’Italia fu più odiosa.
Oltretutto con il tradimento degli intellettuali,
con questo revisionismo del Partito Comunista, lupo
che stavolta veramente è agnello, – il compagno
Longo allo Spiegel aveva una faccia adulatrice di letterato
che si finge disperatamente in pari coi tempi,
respingendo così ogni violenza palingenetica del comunismo:
sì, anche il comunista è un borghese.
Questa è ormai la forma razziale dell’umanità.
Forse, impegnarsi contro tutto questo
non vuol dire scrivere, da impegnati,
direi, ma vivere.
Quanto alle mie opere future, ...
vedrai ... un giovane arrivare un giorno
in una bella casa
dove un padre, una madre, un figlio e una figlia,
vivono da ricchi, in uno stato che non critica se stesso,
quasi fosse un tutto, la vita pura e semplice;
c’è anche una serva (di paesi sottoproletari); viene,
il giovane, bello come un americano,
e subito, per prima, la serva si innamora di lui,
e si tira su le sottane. Egli le dà la dolce
pesante rabbia del suo membro. S’innamora, poi,
di lui, il figlio; dormono i due, nella stessa camera
del ragazzo, coi resti dell’infanzia; ed anche al figlio
egli dona il suo membro di seta, più adulto e potente;
e lo stesso dono, accondiscendente e generoso,
perché egli è colui che dà, egli farà alla madre,
adoratrice delle sue vesti, i calzoni, la maglietta,
gli slip, lasciati in uno chalet
in un caldo giorno d’estate, sul Tirreno;
e ancora lo stesso dono egli farà al padre, divenendo
padre del padre – poiché egli, con ambigua dolcezza materna,
e, per nome, padre –
al padre svegliato all’alba
da un dolore che lo taglia a metà,
alla pancia, e scopre, alzandosi per andare in bagno
la bellezza muta delle quattro del mattino
col sole già folgorante... e scoprirà il suo amore
con la stessa meraviglia
con cui ha scoperto quel sole:
un amore come quello di Ilja Ilic per il suo servo
contadino e ragazzo; ma cosciente, e drammatico
perché egli il vecchio industriale con la faccia
di Orson Welles, è un piccolo borghese, e drammatizza tutto.
Lo stesso dono del membro, durante le ore
della malattia del padre – e prima che al padre –
egli farà alla figlia quattordicenne, innamorata
di suo padre, e che lo scopre, il giovane tutto amore,
attraverso gli occhi innamorati, appunto, del padre. Poi
il giovane se ne va:
la strada in fondo a cui scompare
resta deserta per sempre.
E ognuno, nell’attesa, nel ricordo,
come apostolo di un Cristo non crocefisso ma perduto,
ha la sua sorte.
E un teorema:
e ogni sorte è un corollario.
Le sorti sono quelle che sai,
quelle del mondo dove tu col tuo antipatico
sorriso anticomunista, e io col mio infantile odio
antiborghese, siamo fratelli:
ne sappiamo tutto!
Come prende una nevrosi d’ansia
e come una piccola vittima femmina di quattordici anni,
finisca nel letto di una clinica, coi pugni così stretti che nemmeno uno scalpello
potrebbe scalzarli, come un ragazzo parli tra sé come un matto
dipingendo e inventando nuove tecniche,
fino a diventare
un Giacometti, un Bacon,
con lo spettacolo dei suoi spettri figurativi
simboli della tragedia del mondo in un’anima malata
maleodorante del livore meschino del male; come
una donna di mezza età, bella ancora, e curata
non sappia dimenticare il Cristo della Chiesa
e insieme, una volta perduta,
non sappia resistere al desiderio di perdersi, ancora,
e così viva tra ragazzi facili e angoscie cristiane;
e come infine un padre
che aveva confuso la vita col possesso,
una volta posseduto,
perda la vita, la butti via: doni cioè il suo possesso
– una fabbrica alla periferia della grande città –
ai suoi operai; e si perda nel deserto,
come gli Ebrei.
Casi di coscienza, tutti questi.
Ma la serva diventa, invece, una santa matta,
va nel cortile della sua vecchia casa sottoproletaria,
tace, prega, e fa miracoli,
guarisce gente,
mangia ortiche soltanto, finché i capelli le divengono verdi,
e infine, per morire,
si fa seppellire piangendo da una scavatrice,
e le sue lacrime rampollando dal fango
divengono una fonte miracolosa.
Prima del Padre e della Madre,
nel paradiso terrestre, c’era un Primo Padre,
è nella sua intimità che, primamente, siamo vissuti.
Ma poi, l’importante è stato l’amore della madre
con cui ci siamo identificati
perché non possiamo vivere
se non identificandoci con qualcuno. Non possiamo, quindi,
concepire amore che non abbia la dolcezza materna.
Quel primo Padre ha così dolcezza di Madre.
Ma in una famiglia borghese
egli non è più in grado
che di scatenare drammi morali.
La religione, la religione del rapporto diretto con Dio
è ancora nel mondo anteriore a quello borghese.
Gli operai stanno a guardare.
Ti tacerò, amico, quello che, in stasimi e episodi,
e cori al luogo delle dissolvenze
scriverò sul silenzio di Pilade,
che diverrà rivolta,
e tradimento,
contro l’amico della sensuale adolescenza, dal membro eretto,
Oreste, il principe socialista,
e il degenerare di alcune delle Furie purificate
e segregate sui monti festosi nel cielo e nel cielo perduti:
il ritorno di queste Furie regredite al vecchio stato
nella città liberata, con loro, dalla monarchia;
la regressione di Elettra,
lei figlia, che amò il padre Re, e ora è fascista come
si è fascisti nel cupo rimpianto di errate origini;
la fuga di Pilade nei monti delle furie divenute Eumenidi,
le dee dei partigiani
e dell’amore improvviso che lega un partigiano a un altro partigiano;
la preparazione della lotta,
e il ritorno a capo di un esercito irregolare.
– il misterioso esercito dei monti;
l’alleanza tra Elettra fascista e Oreste liberale
e fautore di riforme,
nella città divenuta opulenta;
l’intervento di Atena
che protegge Elettra e Oreste figli della ragione
e li unisce, mettendo a tacere l’ululato
delle Furie antiche che vagano per la nuova città;
l’incertezza di Pilade
di fronte alla città arricchita
che non ha più bisogno di lui;
il suo incontro
nella notte della vigilia che precede la battaglia
col vecchio amico dell’adolescenza,
rimasto giovane,
bello come ai tempi dei loro primi amori
quando le donne erano sconosciute;
e il loro abbandonarsi a discorsi sull’amore e sull’anima
che nulla hanno a che fare con la realtà presente,
e che li accomuna;
e, infine, la solitudine di Pilade,
alla fine della notte,
che, prima dell’alba, dovrà pur prendere una decisione.
E poi, tu credi,
che si possa fare un sogno, non ricordarlo,
e avere da questo sogno, mutata la vita?
Tu credi che un padre possa fare un sogno, in cui
veda se stesso amare suo figlio,
non so sotto che vesti,
se del padre stesso ragazzo, o di un estraneo
che è il padre del padre (ragazzo)
o l’identificazione a sé della propria madre... Nessuno,
neanche io, saprà mai quel sogno.
Ma il padre ne avrà mutata tutta la vita.
Ricordi Eracle
che chiede al figlio di chiamare tutti i suoi compagni
più forti, e di portarlo sulle spalle,
in cima al monte vicino alla città,
il monte della città
quello ch’è meta di pellegrinaggi e di avventure di ragazzi
come succede nei mondi preindustriali?
E giunti lì in cima, il figlio e gli altri ragazzi,
avrebbero dovuto preparargli il rogo,
e farlo morire?
Entra in quel sogno, se sei padre.
Tu, padre, che magari innocentemente, sei complice
dei padri
che vogliono liberarsi dei figli
mandandoli a morire in guerre che si combattono
nei luoghi dell’Alibi, l’estremo Oriente della storia.
Qui, per una volta,
il padre non vuole la morte del figlio, ma il suo amore.
Diviene lui il figlio, e nel figlio, ragazzo, vede forse il padre,
e lo ama, non vuole ucciderlo, ma esserne ucciso,
non possederlo, ma esserne posseduto.
Si, ma quel padre è un uomo borghese del nostro mondo,
ha un’industria sotto i monti della Brianza (festosi nel cielo
e nel cielo perduti):
come potrà accettare le conseguenze di quel sogno, del resto,
non ricordato?
Le accetterà stravolgendole. Sapendo e non sapendo.
Si farà cogliere dal figlio nudo sopra la madre.
Cercherà dei pretesti per colpire il figlio,
e, quindi, farsi colpire.
Aggredirà il figlio
per attirarlo su lui,
per essere il centro della sua vita.
Finché il figlio, il lieve figlio mozartiano,
pacifista e obiettore di coscienza, se ne andrà
dalla casa ricca,
avendo ascoltato dal padre delirante una dichiarazione d’amore.
Non lo odierà – ti dico – il ragazzo
(uno di quei ragazzi nuovi, tanto migliori di noi),
e, se avesse potuto farlo,
avrebbe dato al padre mendicante tutto il suo oro,
l’avrebbe posseduto come il ragazzo del popolo
possiede, per pochi dollari, colui che non ha forza d’essere uomo
e lo invoca dunque come un salvatore...
Se ne va, per le vie del mondo,
con una ragazza,
nient’altro che una puttana, e un amico:
né si saprà mai a chi vada il suo amore
benché egli, certamente, profonda il suo oro
sul grembo della ragazza.
Viene il padre, spia, lo trova, corrompe la ragazza,
sta a guardare dietro alla porta il loro amore,
scopre quello che il figlio
ha senza mistero, come ognuno ha,
eppure è in lui orrendamente insopportabilmente misterioso.
Non può il padre, vivere dopo aver visto quell’amore,
entra e colpisce a morte il figlio,
che esce piangendo e salutando la vita
dalla stanza di uno dei mille coiti della sua vita.
Muore. E su lui morto il padre si china ad abbottonare
i calzoni aperti sul fulgore immacolato della canottiera.
Il padre, dopo tanti anni, come nei romanzi d’appendice,
conclude il lungo sogno della sua vita
sognando sul terrapieno di una stazione
come in un verso di Ginsberg.
Ecco.
Ecco, queste sono le opere che vorrei fare,
che sono la mia vita futura – ma anche passata
– e presente.
Tu sai, tuttavia te l’ho detto, anziano amico, padre
un po’ intimidito dal figlio, ospite
alloglotta potente dalle umili origini,
che nulla vale la vita.
Perciò io vorrei soltanto vivere
pur essendo poeta
perché la vita si esprime anche solo con se stessa.
Vorrei esprimermi con gli esempi.
Gettare il mio corpo nella lotta.
Ma se le azioni della vita sono espressive,
anche l’espressione e azione.
Non questa mia espressione di poeta rinunciatario,
che dice solo cose,
e usa la lingua come te, povero, diretto strumento;
ma l’espressione staccata dalle cose,
i segni fatti musica,
la poesia cantata e oscura,
che non esprime nulla se non se stessa,
per una barbara e squisita idea ch’essa sia misterioso suono
nei poveri segni orali di una lingua.
Io ho abbandonato ai miei coetanei e anche ai più giovani
tale barbara e squisita illusione: e ti parlo brutalmente.
E, poiché non posso tornare indietro,
a fingermi un ragazzo barbaro,
che crede la sua lingua l’unica lingua del mondo,
e nelle sue sillabe sente misteri di musica
che solo i suoi connazionali, simili a lui per carattere
e letteraria follia, possono sentire
– in quanto poeta sarò poeta di cose.
Le azioni della vita saranno solo comunicate,
e saranno esse, la poesia,
poiché, ti ripeto, non c’è altra poesia che l’azione reale
(tu tremi solo quando la ritrovi
nei versi, o nelle pagine in prosa,
quando la loro evocazione è perfetta).
Non farò questo con gioia.
Avrò sempre il rimpianto di quella poesia
che è azione essa stessa, nel suo distacco dalle cose,
nella sua musica che non esprime nulla
se non la propria arida e sublime passione per se stessa.
Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti,
che io vorrei essere scrittore di musica,
vivere con degli strumenti
dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare,
nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto
sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta
innocenza di querce, colli, acque e botri,
e lì comporre musica
l’unica azione espressiva
forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà.
[1966-67]
Da Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie,
vol. I, Garzanti, Milano 1993
Grazie!
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