"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Come leggere Penna
Tratto da Passione e Ideologia, Garzanti
Un esame critico della poesia di Penna, abbastanza esteso, sulla rivista «Paragone» l’abbiamo scritto a proposito della plaquette Una strana gioia di vivere (Scheiwiller, 1956) ora inclusa nelle recenti poesie (Garzanti, 1957, e uno dei premi Viareggio dell’anno): a proposito di queste poesie, dunque, che sono gran parte della produzione di Penna, non ci resterebbe qui che riassumerci: perciò preferiamo fare alcune osservazioni marginali ma nuove.
A dire la verità, tra i suoi lettori, Penna conta un assai maggior numero di amici che di nemici: crediamo che siano pochi coloro che non stimino la poesia di Penna. Pubblicamente, a dirne male, sono stati i fascisti. Ma è famoso il caso dell’elezione del federale di una città emiliana, scelto tra coloro che si facevano più onore in un bordello. Questa mitizzazione della virilità canonica è uno dei
dati psicologici più tipici del fascismo: i piccoli, i colpevoli, gli impotenti, hanno creato il mito di uno… stato grande, conformato e potente. Dell’eros della poesia
di Penna la gente di quest’orbita ghigna, e ne approfitta per fondarvi una nuova patente di apodissi etica di spesso e grasso empirismo, bisognoso sempre di disperate conferme.
Gli altri – quelli che arricciano il naso, pur senza ghignare, o, freddamente, con secca denegazione tratta dai gloriosi effati atti a esprimere l’ineffabile, lo respingono – sono il minimo che si potesse preventivare per un libro come questo di Penna. Del resto, chi non comprende la sensualità altrui, significa che non ha capito o risolto o appagato la propria.
Resta l’aliquota maggiore: coloro che amano Penna, e, indulgenti, sorridono all’oggetto della sua poesia, prescindendone, magari con illuminata saggezza di laici o spirito di veri cristiani. Non è detto però che il loro modo di leggere Penna sia, in tali termini, attendibile. Intanto: questo libro è stato generalmente letto tutto d’un fiato (anche magari non per intero) oppure lasciato sul comodino, perché può essere – e lo è assai spesso – un livre de chevet. In tal caso viene delibato a raterelle serali. Due modi equivoci di leggere Penna, perché in qualche modo troppo affettuosi. Bisogna invece cominciare col non prescindere troppo, e col non essere troppo caritatevoli. È vero che si può dare un eccesso di reazione: e piuttosto che gettare la prima pietra, si preferisca far finta di niente: ma è questa una vera comprensione? Diciamo che non bisogna prescindere troppo, e non essere troppo caritatevoli, non a proposito dell’oggetto dell’eros penniano, no certo: ma a proposito dei fenomeni di questo eros: che sono da una parte ossessivi, e quindi, per definizione, monotoni (sicché, chi legge tutto d’un fiato rischia di trovare, ingiustamente, questa poesia priva di una storia psicologica), e, dall’altra, sono eccessivamente eletti, tendono a precipitare in singoli momenti linguisticamente felici e leggeri, che parrebbero esaurirsi poesia per poesia (altro rischio di vedere in Penna un poeta senza
storia interiore).
Gli uni e gli altri di questi lettori (che possono coesistere in una medesima persona) finiscono col saper dire soltanto del libro di Penna che è delizioso: quasi che per lui fosse lecito sospendere ogni giudizio critico, con quanto di psicologico, ideologico e morale esso comporta dietro l’analisi stilistica, e arrestarsi a una sorta di irrelata coscienza del suo valore. Della sua grazia.
Questo è stato il limite della critica ermetica alla poesia di Penna, e pare sussistere anche oggi.
In realtà a noi sembra che la poesia di Penna sia infinitamente più drammatica e complessa di quanto non sembri: intanto, tanta felicità d’ispirazione, tanta euforia, è dovuta, originariamente, alla scoperta di un eros che – per spontanea rigenerazione dello stupore – rende continuamente meravigliosa l’esistenza: mentre, al contrario, avrebbe dovuto renderla, secondo i canoni sociali e religiosi vigenti e correnti, inaccettabile, orrenda. Ma la gioia – o diciamo piuttosto la joi, secondo l’idealeggiante formula provenzale – o meglio, secondo il termine mistico tout court, l’enthousiasmos – che inonda la vita di Penna e rende estatici e ridenti i suoi versi, spesso come certe inanalizzabili quartine popolari (di cui condivide insieme la normalità linguistica stilizzante, e l’assoluta, gratuita inventività) è una forma della religiosità, o della morale religiosa, che in Penna è rimasta schiacciata o mistificata dalla nevrosi.
L’angoscia che, insieme alla gioia, serpeggia in tutto il libro, il disperato bisogno d’elezione – si guardi, nella fattispecie, l’assoluta elezione linguistica: la carenza di barocchismi (se non limpidissimamente ironici), di dialettismi ecc. – confermano che Penna non è per nulla, nel fondo, come usa dire in tali casi, greco: e che anche il suo male è un male del nostro secolo, un caso di dolore, non di grazia.
Si può dire che tutta la poesia di Penna, derivando da una mancata religiosità (di tipo mistico, s’intende, piuttosto che etico), sia uno sfogo, un transfert di quella mancata religiosità, fattasi, nell’intima confusione, religione dei sensi. Infatti ogni fenomeno dell’eros, ogni sguardo, ogni atto, ogni desiderio, ogni situazione, anche la più imbarazzante ed eccitante, sono – senza mai però tingere nell’astratto – depurati da ogni determinazione temporale, da ogni idiomaticità. Divengono prove: quasi fulgurazioni di tratto in tratto deliziosamente ritornanti nella vita, a dire di un fatto sempre uguale e sempre presente: l’amore dei sensi, con tutti i suoi profondi echi nello spirito sia pur cieco e smarrito.
Da ciò deriva, nella poesia di Penna, un’assoluta mancanza di sensualità – o addirittura, come direbbe un critico novecentesco, di sensuosità. Esse sono in nuce delle parabole, attestanti una verità, folle, a stupenda.
1958
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Curatore, Bruno Esposito
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