"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
La nuova gioventù di Pier Paolo Pasolini
La forma che parla
versi come fotografie che il tempo ha ingiallito.
È un libro che lavora come una ferita riaperta e riscritta: una memoria dialettale che diventa autocritica, elegia, poi controcanto politico.
Il volume raccoglie le poesie friulane di Pasolini in tre momenti: “La meglio gioventù” (1941–1953), “La seconda forma de ‘La meglio gioventù’” (1974) come riscrittura/controtesto, e “Tetro entusiasmo” (1973–1974).
La nuova gioventù arriva in libreria nel 1975, è un libro di risposte a se stesso. Il montaggio tra vecchio e nuovo produce una dialettica interna — non un semplice volume di poesie, ma l’ultimo porto in cui la sua voce inquieta decide di fermarsi un momento, prima di riprendere il cammino.
Il volume sembra portare con sé un presagio. Pasolini cammina per Roma, osserva il suo paese trasformarsi, e intanto questo libro gli nasce tra le mani come un oggetto inquieto, un frammento di memoria che non vuole restare fermo. È il suo ultimo approdo poetico, ma lui non lo sa.
Non è una raccolta di poesie, non nel senso consueto. È un quaderno riaperto dopo decenni, un dialogo tra due Pasolini che si guardano da lontano. Da una parte c’è il giovane poeta di Casarsa, che scrive in friulano come si parla a una madre, con la timidezza e la fame di chi cerca un mondo puro. Dall’altra c’è l’uomo maturo, ferito, lucidissimo, che rilegge quelle stesse poesie come si osservano fotografie ingiallite: con amore, ma anche con la consapevolezza che quel mondo non esiste più.
Le poesie friulane de La meglio gioventù riemergono come voci di un tempo sospeso. Pasolini le riscrive, le incrina, le mette alla prova. Ogni verso diventa un ponte tra ciò che era e ciò che è. La “seconda forma” non aggiorna: interroga. Non corregge: giudica. È come se il poeta dicesse al suo io giovane: “Guarda cosa è successo al nostro paese. Guarda cosa è successo a noi.”
Accanto a queste voci antiche, irrompe Tetro entusiasmo, una sezione nuova, tagliente, che sembra scritta con la febbre. Qui Pasolini osserva l’Italia degli anni Settanta come un profeta stanco: vede un popolo che corre verso il benessere, verso la televisione, verso la merce, e intanto perde la propria anima. Vede la modernità come una festa che nasconde un lutto. Vede l’omologazione avanzare come una marea.
Il libro, così, diventa una macchina della memoria. Non si limita a raccogliere poesie: le mette in scena, le fa dialogare, le fa scontrare. Interroga la lingua come si interroga un destino. Fruga nella storia come si fruga in una ferita ancora aperta. Ogni pagina è un atto di resistenza, un tentativo di salvare ciò che resta di un mondo contadino che la modernità sta cancellando.
La musicalità argentina delle prime poesie si trasforma, nella riscrittura, in un ritmo più grave, più spezzato. Il paesaggio friulano, un tempo luminoso e carnale, ora appare come un ricordo in controluce. Il montaggio tra vecchio e nuovo crea una tensione continua: è il tempo stesso a diventare materia poetica.
E mentre Pasolini cammina verso la sua fine, La nuova gioventù si impone come un testamento involontario. Non un addio, ma un ultimo gesto di responsabilità. Un libro che parla ai vinti della storia, ai dimenticati, ai ragazzi che non sanno più da dove vengono. Un libro che resiste all’omologazione culturale come un albero che non vuole piegarsi al vento.
La forma poetica del libro non è un semplice contenitore stilistico: è il luogo in cui Pasolini mette in scena il conflitto tra due epoche della sua vita, tra due Italie, tra due modi di intendere la poesia. La forma diventa quindi drammaturgia, montaggio, autocritica. Non si tratta di un semplice doppio registro, ma di una vera e propria biforcazione poetica:
Il friulano è concreto, sensoriale, radicato nel corpo e nel paesaggio.
L’italiano è più astratto, più concettuale, più “storico”.
L’autotraduzione non è mai neutra: Pasolini la usa per mostrare lo scarto, non per colmarlo. La forma poetica diventa così un campo di tensione linguistica, dove la lingua materna adottiva (il friulano) si oppone alla lingua nazionale come gesto di resistenza.
Pasolini prende le poesie giovanili e le riscrive con un’altra voce, un altro ritmo, un’altra coscienza.
La forma
La forma poetica di La nuova gioventù non è un vestito che Pasolini indossa. È una presenza che gli cammina accanto. A volte lo precede, altre lo segue, altre ancora gli si mette davanti e lo costringe a fermarsi. È viva, inquieta, mutevole. E soprattutto, ricorda.
La forma si presenta subito con due volti. Uno parla friulano, l’altro italiano.
Il friulano è giovane, ha la pelle ruvida di chi vive all’aria aperta. Cammina scalzo, sente la terra, ascolta le voci dei campi. L’italiano invece è più composto, più urbano, più consapevole del proprio ruolo nella storia. Non si oppongono: si guardano. Si studiano. Si traducono a vicenda, ma senza mai coincidere.
Pasolini li osserva come si osservano due figli diversi: uno istintivo, l’altro riflessivo. E capisce che la forma del libro nascerà proprio da questa tensione.
Poi, un giorno, la forma si volta indietro. E vede arrivare il giovane Pasolini. È lui, quello di Casarsa, quello che scriveva versi come si respira. Porta con sé le poesie della prima giovinezza, ancora intatte, ancora luminose. Ma la forma adulta non le accoglie come reliquie: le prende, le sfiora, le incrina. Le riscrive. La riscrittura è un fantasma che ritorna, ma non per spaventare: per chiedere conto. “Che ne è stato di noi?” sembra domandare. E la forma risponde con un gesto doppio: conserva e ferisce, ricorda e giudica.
La forma cammina, e il ritmo cambia. All’inizio corre leggera, quasi danzante. I versi sono brevi, luminosi, pieni di aria. Poi, man mano che la riscrittura avanza, il passo si fa più pesante. La musicalità si spezza, come se il fiato mancasse. Le frasi si allungano, inciampano, si fratturano. È il corpo stesso della poesia che invecchia, che si accorge del mondo intorno, che non può più fingere di essere innocente.
La forma decide allora di costruire un teatro. Mette le poesie giovani da una parte, le poesie mature dall’altra. Le fa parlare. Le fa scontrare. Le fa specchiare. Il libro diventa un palcoscenico dove due epoche della stessa vita recitano insieme. Non c’è un prima e un dopo: c’è un continuo ritorno, un montaggio che taglia, incolla, sovrappone.
E infine, la forma ascolta la voce. O meglio: le voci. Una è quella del ragazzo che crede nella poesia come salvezza. L’altra è quella dell’uomo che vede la modernità avanzare come una marea. La forma non sceglie tra le due: le tiene insieme, come si tengono insieme due mani che tremano.
Alla fine del viaggio, la forma si ferma accanto a Pasolini. Non è più giovane, non è più pura, non è più intatta. Ma è vera. È diventata un atto di resistenza: contro l’omologazione, contro la perdita delle radici, contro la cancellazione delle differenze.
La forma poetica, in La nuova gioventù, non è un modo di scrivere. È un modo di stare al mondo. Oggi, sfogliando il volume, sembra ancora vivo. Sembra ancora interrogare noi, la nostra lingua, la nostra memoria. Sembra chiederci se siamo disposti a rinunciare alle nostre differenze, alla nostra storia, alla nostra voce. E la risposta, forse, è già scritta tra le sue pagine.
Bruno Esposito

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