"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
“Non ho tradotto Eschilo: l’ho riscritto
come lo sentivo nel mio sangue.”
L’Orestiade di Eschilo, nella riscrittura di Pier Paolo Pasolini, non è solo una traduzione: è un atto poetico, politico e teatrale.
La sera del 17 giugno 1960, il cielo sopra Siracusa si tingeva di rosso mentre il sole calava dietro le antiche colonne del Teatro Greco. Il pubblico, assiepato sulle pietre millenarie, attendeva in silenzio. Poi, la voce di Agamennone ruppe l’aria, non in greco, ma in un italiano nuovo, arcaico e vibrante: quello di Pier Paolo Pasolini. Era il debutto della sua traduzione dell’Orestiade di Eschilo, affidata alla regia di Vittorio Gassman. Un evento che non fu solo teatrale, ma culturale, politico, poetico. Pasolini non aveva tradotto Eschilo per restituirne la filologia, ma per farlo parlare al presente. Il suo linguaggio, tagliente e lirico, portava in scena il conflitto tra vendetta e giustizia, tra arcaico e moderno, tra sangue e legge. In quella notte siciliana, il mito antico si fece corpo e voce, e il teatro tornò a essere rito.
L’adattamento dell’Orestiade di Eschilo realizzato da Pier Paolo Pasolini per il Teatro Greco di Siracusa nel 1960 rappresenta uno degli snodi fondamentali tanto nell’opera del poeta friulano quanto nella storia del teatro italiano del secondo Novecento. La versione pasoliniana della trilogia eschilea agì da detonatore di innovazione linguistica, drammaturgica e politico-ideologica, aprendosi a ulteriore rilettura attraverso il film-documentario "Appunti per un’Orestiade africana" (1970) e generando un dibattito nel campo della critica, della filologia e della regia teatrale che si prolunga fino ai giorni nostri.
La realizzazione dell’Orestiade pasoliniana si inserisce all’interno di una lunga e prestigiosa tradizione di rappresentazioni classiche presso il Teatro Greco di Siracusa, avviata agli inizi del Novecento allo scopo di restituire un legame vivo tra la cittadinanza e il dramma antico. Nel secondo dopoguerra, queste rappresentazioni divennero un appuntamento di rilievo nazionale e internazionale, con l’obiettivo di attualizzare il patrimonio drammatico greco, aprendolo a nuove letture e sensibilità. Il 1960 vide la precisa volontà dei registi Vittorio Gassman e Luciano Lucignani di operare una svolta netta alle traduzioni e all'estetica registica dominante, rifiutando la “soluzione archeologica” – ossia la semplice riproposizione filologica e monumentale – e la “soluzione estetica”, che privilegiava un classicismo astratto e distaccato dalle implicazioni storiche e politiche dei testi. In tal senso, la collaborazione fra Gassman, Lucignani e Pasolini nacque dalla volontà di non rinunciare a una interpretazione "storica", che concepisse la trilogia di Eschilo come riflesso di passaggi sociali epocali: il transito dalla vendetta privata e arcaica alla nascita della giustizia e della polis democratica.
La monografia "Eschilo e Atene" del filologo marxista George Thomson, che metteva in relazione la trilogia dell’Orestea con l’emergere della democrazia ateniese e con il superamento di una società matriarcale-tribale, fu posta a fondamento dell’operazione siracusana. Nello stesso "Quaderno del Teatro Popolare Italiano" dedicato alla produzione, fu pubblicato uno scambio epistolare tra Lucignani e Thomson che sancì la portata ideologica dell'allestimento: il teatro diventava così il luogo della riflessione collettiva sul passato e sul presente, in chiave fortemente politica. Questo contesto di piena apertura alle voci della modernità e del dibattito sul progresso sociale fu elemento distintivo delle rappresentazioni classiche siracusane del 1960. Pasolini, chiamato a sostituire traduzioni precedenti di Quasimodo, Traverso e Perrotta, era ritenuto – secondo le lettere e i documenti d’archivio dell’INDA – portatore dell’unicità necessaria a quell’unificazione di colore, lingua e tono che la regia auspicava. Una decisione – ribadita dalla “Lettera del traduttore”, poi pubblicata in soglio all’edizione – che segnava la definitiva apertura del canone eschileo ad una nuova epoca artistica e culturale.
La scelta di Pasolini come traduttore e adattatore rispondeva non solo a una necessità di innovazione linguistica, ma anche a una precisa volontà di valorizzare lo specifico poetico e politico della sua scrittura. Pasolini stesso dichiarerà che, fino a quel momento, la trilogia dell’Orestiade “è probabilmente il pezzo del teatro greco che io amo di più, o perlomeno che ho amato di più”. Nondimeno, la commissione rappresentava una sfida: Pasolini era allora poco esperto di greco e impegnato in numerosi progetti. Fu per esigenza di produzione che, come spiega nella sua “Lettera del traduttore”, si orientò su una traduzione mediata – a partire dalle edizioni francesi di Paul Mazon, inglesi di Headlam-Thomson e italiane di Mario Untersteiner – più che su un diretto rapporto filologico con il testo d’origine. Questa “traduzione creativa” viene descritta dallo stesso autore come un lavoro condotto “nel giro di tre mesi”, grazie a un “profondo, avido, vorace istinto”, il cui scopo era quello di produrre una lingua viva, scenica, efficace e contemporanea. Questo approccio non accademico fu, e rimane, al centro del dibattito critico. La sua traduzione è dichiaratamente “antifilologica”, secondo una visione dove il filologo cerca la copia fedele e lo scrittore, invece, cerca “la necessità poetica”. Tale atteggiamento, ritenuto “barbarico” e “istintivo” da alcuni, ha portato la critica a vedere Pasolini come poeta-traduttore, capace di “vivificare” il testo in modo differente rispetto alla sterile ripetizione del canone classico.
Il metodo traduttivo che Pasolini adotta, e che dichiara apertamente nelle proprie note introduttive, è quello della selezione di significati e toni attraverso la consultazione di diverse traduzioni moderne, e della scelta poetica e interpretativa come criterio ultimo di decisione. Ove le versioni erano discordanti, egli “sceglieva il testo e l’interpretazione che gli piaceva di più”, spesso modificando, espandendo, condensando o parafrasando secondo il bisogno drammaturgico o espressivo.
La base filologica di Pasolini, pur quindi indiretta, è tutt’altro che ingenua. Nei casi cruciali, la versione pasoliniana rivela attenzione alle scelte lessicali, sintattiche e fonetiche; laddove la resa letterale rischia di rendere il testo “arcano” o “inaccessibile”, egli opera delle sintesi che privilegiano il valore simbolico, esistenziale e collettivo, soprattutto nei momenti lirici e corali. Il registro linguistico individuato per la traduzione, infatti, riprende la funzione civile della poesia sperimentata in opere come "Le ceneri di Gramsci", e si cala in una lingua italiana “media”, accessibile, ma non priva di densità poetica e di toni allusivi. Sul piano delle fonti, oltre alle edizioni e traduzioni già citate, è rilevante la costante presenza di elaborazione personale e riscrittura. Alcuni passaggi della trilogia sono veri e propri travisamenti del testo greco, laddove l’interpretazione o la funzione scenica lo richiedono. Diversi studiosi, tra cui Enzo Degani e Federico Condello, hanno segnalato le omissioni, le interpolazioni e le aggiunte che Pasolini introduce al testo della trilogia. Tuttavia, per ammissione della stessa regia siracusana e per molte voci della critica successiva, la “versione pasoliniana” si giustifica pienamente come operazione teatrale e poetica, legittimata dall’intenzione di offrire al pubblico una “Orestiade viva”, comprensibile e attuale.
Uno dei caratteri più incisivi della versione pasoliniana dell’Orestea è la decisa opzione per una lingua "bassa", civile, prosastica, in forme deliberatamente anti-classicistiche. Nella “Lettera del traduttore” e nelle dichiarazioni coeve, Pasolini definisce il greco di Eschilo come “magro”, “primitivo”, “estremamente strumentale”, e dichiara di voler evitare sia lo stile “eletto” che quello troppo espressivo. Il ricorso ad espressioni e lessico del parlato medio, la semplificazione sintattica, l’introduzione di termini attuali, e la perdita di riferimenti arcaici-articolati (tra nomi di dei, genealogie, culti specifici), sono tutte scelte che rispondono a questa precisa poetica. Il linguaggio di Pasolini cerca di produrre un effetto di immediatezza, di discorsività piena, ma mantiene anche (sia nella versione stampata, sia in numerosi passaggi recitati dagli attori) una tensione tra toni “ragionanti” e bagliori di lirismo intenso. Tutto ciò consente al pubblico di accedere più facilmente ai significati profondi del dramma, senza tuttavia rinunciare all’aura tragica e rituale del testo di partenza.
Sul piano stilistico, la versione di Pasolini si distingue anche per la marcata tendenza all’allitterazione, alla ripetizione ossessiva di certi termini-chiave (ad esempio “ossessione”, “angoscia”, “paura”, “pianto”) e all’istituzione di campi semantici opposti, che vanno a sostanziare il celebre “binarismo” tematico della sua opera. Nel corso della trilogia, la narrazione si polarizza spesso in cariche simboliche o esegetiche, esaltando le forze in opposizione – il matriarcale e il patriarcale, l’irrazionale e il ragionevole, il male e la giustizia – fino a concentrarsi sul processo di sintesi e conciliazione conclusivo. Tale gestione linguistica e simbolica è riconosciuta dalla critica come una delle firme più personali di Pasolini: egli travasa, nel testo della trilogia, il suo progetto poetico di conciliazione “dialettica”, di corporeità e civilizzazione, che attraversa anche le sue opere Pilade e Appunti per un’Orestiade africana.
Il confronto puntuale tra la resa pasoliniana e il testo greco di Eschilo, come documentato da numerose analisi (in particolare quelle di Enzo Degani, Federico Condello, Massimo Fusillo e altri), mostra che la versione pasoliniana si caratterizza, oltre che per l’evidente distanza dal testo originale, per interventi creativi, omissioni, trasposizioni e riformulazioni basate sulle traduzioni di Mazon, Thomson e Untersteiner. La critica ha spesso sottolineato che tali elementi producono una “tragedia nuova”, ben più prossima alla visione del mondo, alla poetica e all’estetica di Pasolini stesso che non a Eschilo. Secondo alcuni, ciò comporta una perdita delle sfumature religiose e del senso “arcaico” dell’Orestiade originale e, alla lunga, una riduzione del dramma a parabola ideologica. Tuttavia, come la stessa ricezione teatrale e critica dimostra, questa “ricreazione” testuale ha consentito la sopravvivenza e la rilegittimazione della trilogia nella cultura teatrale italiana e internazionale.
Fin da subito, la versione pasoliniana dell’Orestiade suscitò un vivace dibattito critico che contribuì a costruire una “leggenda dello scandalo” attorno alla produzione siracusana del 1960. In effetti, nonostante la narrazione postuma abbia spesso riferito di uno scontro frontale tra la cultura accademica e quella innovatrice (con i “filologi” schierati contro Pasolini, registi e poeti), le testimonianze coeve e la rassegna stampa confermano che il successo fu ampio e che i giudizi più negativi rimasero isolati. Tra le voci più critiche, spicca quella di Enzo Degani, che già nel 1961 pubblicò una nota stroncatura sull’imprecisione linguistica e l’approccio poco scientifico della traduzione, stigmatizzando l’uso eccessivo delle versioni moderne e della lingua francese, e sottolineando le “confusione di senso” e le aggiunte arbitrarie. Tuttavia, la “lettura filologica” rappresentata da Degani restò una voce isolata, e molte delle recensioni dell’epoca concordarono sulla vivacità linguistica e sulla modernità della resa scenica pasoliniana. Altri filologi e studiosi, come Ettore Paratore e Santo Mazzarino, pur segnalando “rischi di eccessiva modernizzazione”, riconobbero alla versione pasoliniana una qualità scenica che permise agli attori di superare il disagio delle versioni precedenti e di offrire uno spettacolo finalmente accessibile e coinvolgente. La constatazione di Elsa De Giorgi, anch’essa partecipe del convegno inaugurale del 1960, fu che le ricerche di Pasolini “si muovono su basi filologiche e non disdegnano il metodo”; l’operazione fu dunque percepita come rigorosa e innovativa al tempo stesso.
La risposta del pubblico fu entusiasta: la "leggenda dello scandalo" fu smentita dai fatti, con la stampa nazionale e internazionale che parlò di un autentico "trionfo". L’Orestiade del ’60 segnò una svolta, non solo per la qualità dello spettacolo, ma anche per aver riaperto il varco ad altre traduzioni “autoriali”, liberando la scena italiana dalla soggezione a un classicismo inibente e rianimando l’interesse per la tragedia greca presso strati di pubblico nuovi e variegati. Nel tempo, la critica ha sempre più rivalutato l’importanza della riscrittura pasoliniana e l’operazione del 1960 viene oggi letta soprattutto come momento di apertura di nuovi paradigmi nella ricezione e nella rielaborazione del classico, al punto che la versione pasoliniana è divenuta la base di molte delle successive messe in scena della trilogia.
La versione pasoliniana dell’Orestiade fu pubblicata per la prima volta a stampa in occasione delle rappresentazioni siracusane del 1960, curata dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA). La stampa avvenne presso lo Stabilimento Tipografico Edit. Urbinate, con una raffinata veste tipografica e un apparato editoriale di rilievo.
Fu subito seguita da una seconda edizione per i "Quaderni del Teatro Popolare Italiano" (Einaudi, 1960), dotata della celebre “Lettera del traduttore”. Negli anni seguenti, il testo venne ripubblicato in diverse occasioni, tra le quali si segnalano:
L’inclusione nei volumi antologici (I Meridiani) delle opere teatrali di Pasolini (ad esempio "Teatro", a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano 2001; "Tutte le poesie", a cura di W. Siti, Milano 2003);
Nuove edizioni per Einaudi (1985, collana "Scrittori tradotti da scrittori") e, più recentemente, per Garzanti (2020), con prefazione di Massimo Fusillo;
Ampio uso e ristampa in antologie per la didattica teatrale e nei volumi della Fondazione INDA, a testimonianza della rilevanza acquisita come testo di riferimento per le rappresentazioni classiche a Siracusa e non solo.
Va inoltre menzionato il ruolo centrale delle pubblicazioni e degli archivi d’epoca (Quaderni INDA, rassegna stampa raccolta dalla Fondazione, materiali video e fotodocumentali) nella trasmissione della memoria della produzione e della versione pasoliniana, custoditi presso la Fondazione INDA e il Centro Studi Pier Paolo Pasolini presso la Cineteca di Bologna.
La produzione dell’Orestiade siracusana del 1960, diretta da Vittorio Gassman e Luciano Lucignani, è entrata a pieno titolo nella storia del teatro italiano.
Regia: Vittorio Gassman e Luciano Lucignani
Scenografia e costumi: Teo Otto, celebre scenografo di tradizione modernista, che introdusse elementi simbolici e tribali, “mascheroni” e una scena spoglia e allusiva, suggerendo una Grecia arcaica e barbarica
Musiche: Angelo Musco
Coreografie e danze: gruppo di Vodu di Haiti, balletto Voudon di Mathilda Beauvoir, elementi che accentuarono il carattere tribale, “primitivo”, arcaico e collettivo dello spettacolo
Cast: Vittorio Gassman (Agamennone, Oreste), Olga Villi (Clitennestra), Valentina Fortunato (Cassandra, Elettra, Atena), Andrea Bosic (Egisto), Arnaldo Ninchi (Pilade), Edda Valente (Pizia)
La rappresentazione fu una delle più complesse e dibattute nella storia delle Rappresentazioni Classiche e attirò spettatori da tutta Italia e dall’estero. Le cronache segnalano una partecipazione “corale” del pubblico, un impatto visivo e emotivo di forte novità rispetto alle precedenti edizioni, sia per le scelte scenografiche che per il registro linguistico. L’operazione ricevette un successo tale da essere definita “trionfo”, sia dagli addetti ai lavori sia dalla comunità accademica. Materiali documentari di grande importanza su questa produzione vengono ancora oggi custoditi presso l’Archivio INDA e la Fondazione Cineteca di Bologna; i convegni accademici del 1960 e degli anni successivi hanno sottolineato il ruolo chiave di questa produzione nella storia culturale italiana e nella memoria del teatro classico.
La versione pasoliniana è diventata uno degli standard per la messa in scena dell’Orestea in Italia, venendo riproposta in molte delle edizioni successive delle Rappresentazioni Classiche di Siracusa, come attestano i dati degli archivi INDA.
Tra le riprese e le rappresentazioni di rilievo si ricordano:
L’edizione 2008, con la regia di Pietro Carriglio e la ripresa della traduzione di Pasolini per tutte e tre le tragedie;
Altri montaggi in teatri italiani e stranieri, spesso riconducibili al filone “politico” e “popolare” del teatro di parola, promosso da registi come Luca Ronconi e Franco Parenti, e all’estero nelle letture interculturali che a loro volta ispireranno laboratori e riscritture contemporanee;
L’influsso diretto nelle opere drammaturgiche di Pasolini stesso (Pilade, Calderón, Affabulazione, Orgia, Porcile), che ne trarranno motivi esistenziali e ideologici.
Sostenuta dalla documentazione audiovisiva, dalle ristampe e dall’ampiezza di studio nei convegni recenti (“L’Orestiade di Siracusa cinquant’anni dopo”, 2010) la fortuna del testo pasoliniano è oggi oggetto di rinnovato interesse anche tra gli storici del teatro e gli studiosi delle transposizioni classiche.
La versione pasoliniana dell’Orestea ha avuto un impatto non solo nella ricezione della tragedia greca, ma anche nella ridefinizione dei rapporti fra teatro di parola e teatro d’ideologia, fra classico e moderno. Essa ha permesso di:
Sdoganare la centralità della figura del poeta-traduttore, sottraendo il tragico classico all’esclusivo monopolio del filologo;
Applicare una lettura politica e civile che, ispirata dal marxismo di Thomson e dalla lettura antropologica del mito, ha reso la trilogia un campo privilegiato di riflessione sui conflitti sociali, sulla nascita dello Stato, sulla dialettica fra istinto e razionalità;
Offrire un modello linguistico e scenico per altre esperienze di teatro impegnato, di drammaturgia della resistenza, di laboratorio interculturale (si pensi al parallelismo con la “tragedia popolare africana” di Appunti per un’Orestiade africana).
Sullo sfondo, emerge la forza della “contaminazione pasoliniana”: l’operazione dell’Orestiade ha contribuito alla pratica di re-immaginare i classici come strumenti di riflessione identitaria, sociale e politica, influenzando tanto la produzione drammaturgica diretta quanto l’opera di registi, attori e critici di generazioni successive.
Oltre alla ricezione teatrale e alla fortuna critica, la versione pasoliniana è oggi al centro di un fiorente campo di studi:
In ambito filologico-letterario, si sottolinea la portata paradigmatica della “transmedialità” e della riscrittura poetica;
In ambito filosofico e politico, si riflette sull’uso del classico come “paradigma di rivoluzione” rispetto a questioni di giustizia, diritto e mutamento antropologico nella società contemporanea;
In ambito performativo e teorico, la trilogia pasoliniana entra come punto di riferimento nelle riflessioni sul “teatro di parola”, sulle pratiche di regia moderna, sul teatro come sede di mediazione tra memoria collettiva e urgenza politica.
Il lavoro di studio, archivio e divulgazione condotto dalla Fondazione INDA, dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini presso la Cineteca di Bologna, da atenei e fondazioni in Italia e all’estero, garantisce un costante aggiornamento del dibattito e una nuova centralità del pasolinismo come chiave di lettura dei classici.
L’importanza del lavoro archivistico sulle rappresentazioni del 1960 e sulle versioni pasoliniane è ormai documentata (e spesso accessibile in parte online) dalla Fondazione INDA, attraverso la raccolta di programmi di sala, fotografie, recensioni, epistolari, copioni, interviste e materiali audiovisivi. Altre fonti di primaria importanza comprendono la Cineteca di Bologna – Centro Studi Pier Paolo Pasolini, che custodisce la raccolta delle pubblicazioni, dei materiali audiovisivi, dei dossier critici e delle tesi di laurea relative a tutta la produzione pasoliniana. Questa mole di materiali, unita alla documentazione prodotta le rappresentazioni classiche, rassegna stampa e archivi delle università, costituisce la base imprescindibile per qualsiasi studio futuro, offrendo la possibilità di attribuire certezza storica alle narrazioni spesso “mitizzate” sullo "scandalo" dell’Orestiade del 1960 e sulle modalità di ricezione del testo nella cultura italiana contemporanea.
L’adattamento di Pier Paolo Pasolini dell’Orestea di Eschilo rappresenta molto di più di un esercizio di traduzione: è un laboratorio poetico, politico e identitario, un gesto di ridefinizione profonda del senso e della funzione del tragico nella modernità. La versione pasoliniana, nata da esigenze teatrali e sociali precise, ha saputo superare i limiti del classicismo filologico e instaurare una dialettica ricca e fertile tra poeta, spettatore e mito. Le sue scelte linguistiche e stilistiche, lo spostamento dell’asse interpretativo dal sacro al politico-civile, la forza dell’innovazione scenica e la potenza del dibattito critico a essa successivo fanno dell’Orestiade pasoliniana un caso senza pari nella storia della ricezione del classico.
Bruno Esposito








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