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mercoledì 25 giugno 2025

Pier Paolo Pasolini, IL DISTRIBUTORE DI BENZINA - Tratto da "Gridalo" di Roberto Saviano - © 2020 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

 "Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini
IL DISTRIBUTORE DI BENZINA

Tratto da "Gridalo"

di Roberto Saviano 

© 2020 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani



 Dovunque sia il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi.

 Matteo, 24,28


 Il 18 novembre del 1961 un uomo percorre in macchina la strada litoranea che da Sabaudia porta al Circeo. Sono da poco passate le tre quando si ferma a un distributore di benzina. Entra nel bar e ordina una Coca-Cola.

 Il sole è ancora caldo nonostante sia autunno inoltrato, perché al Circeo l’estate di san Martino dura più a lungo.

 Il bar sorge in un’area nuova di zecca resa calpestabile dalla bonifica mussoliniana, che lì ha piantato foreste di eucalipti voraci che hanno svuotato il terreno dagli acquitrini.

 La presenza del mare tutto intorno è talmente forte e le dune di sabbia così ipnotiche da favorire, come in mezzo al deserto, frequenti stati di allucinazione.

 Il bevitore di Coca-Cola posa il bicchiere ormai vuoto sul bancone e inizia a infilarsi lentamente un paio di guanti di pelle nera. A operazione ultimata tira fuori una pistola, apre piano il tamburo, recupera dalla tasca un proiettile e si accinge a caricare. Un raggio di sole si spinge pigro dentro al locale, va a sbattere sulla canna della pistola e rivela allo spaventato barista un altro particolare insolito: il proiettile è d’oro.

 L’uomo punta ora la pistola contro il barista, reclamando l’incasso dell’intera giornata, comprensivo degli introiti della pompa di benzina. Il barista non si perde d’animo, afferra un coltello dal lato della lama, colpisce col manico il rapinatore e lo mette in fuga.

 Il giorno dopo lo vede ricomparire in compagnia di un amico davanti al bar. Stavolta annota il numero di targa.

 C’è da credere che il barista non abbia riconosciuto il suo rapinatore, lo scrittore e cineasta Pier Paolo Pasolini, perché al momento della denuncia presso la locale stazione dei carabinieri, dove si è affrettato ad andare, è in grado di fornire solo il numero di targa, ma non il nome del suo rapinatore. Strano che non l’abbia riconosciuto. Evidentemente non ha un televisore né legge i giornali, perché l’uomo che ha tentato di rapinarlo è da diversi anni al centro di forti polemiche a mezzo stampa. Ha pubblicato libri come Ragazzi di vita e Una vita violenta che hanno provocato fastidi e acuti mal di pancia perché si sono insinuati tra gli umori più neri della prostituzione maschile.

 Un suo film, Accattone, è in uscita proprio in quei giorni nelle sale cinematografiche di tutta Italia, ed è già oggetto di un acceso dibattito. Immorale, indecente, incandescente, compiaciuto della propria colpa… questo rimprovera a Pasolini l’Italia democristiana, ma anche quella comunista.

 A quanto pare la pompa di benzina ha resistito, come un baluardo, non solo all’avanzata delle notizie e dei mezzi di comunicazione sul litorale laziale, ma anche alle voci che circolano negli ambienti della mala romana. Altrimenti il barista sarebbe venuto a sapere che Pasolini è un personaggio in vista, che è spesso al centro di scandali e polemiche, che è già stato accusato di furto e di trascorrere le notti sotto la luna del Campidoglio, sul monte Caprino, dove si vende l’amore dei maschi.

 Ma certo, hai ragione tu. Forse il barista sta mentendo. In realtà sa benissimo tutte queste cose, e anzi parteggia, come il resto degli italiani, a favore o contro Pasolini; sta solo tentando di disegnare uno scenario simile a quelli già ascoltati, ma stavolta al centro vuole mettere se stesso.

 Alla stazione dei carabinieri, però, il barista giura di non averlo riconosciuto sul momento, e che non è in cerca di fama o di denaro né sta tentando d’infliggere l’ennesimo colpo a un uomo che ormai è stato trasformato in un bersaglio.

 La denuncia costringe Pasolini ad abbandonare il lido pontino, dove sta portando a termine, insieme all’amico Sergio Citti, la sceneggiatura di un altro film, Mamma Roma. Deve rientrare di corsa in città per permettere ai carabinieri la perquisizione del suo appartamento in via Carini, dove con buona probabilità potrebbe aver nascosto la pistola e il proiettile d’oro.

 “Ma quale proiettile d’oro?” protesti tu.

 “I giudici mica avranno creduto davvero a un racconto tanto inverosimile?”

 Sì, invece, ci hanno creduto.

 In via Carini l’arma non salta fuori, ma la descrizione del barista è troppo vivida per essere ignorata e la pallottola d’oro un particolare troppo surreale per essere inventato.

 Pasolini viene processato per rapina. Sì, hai capito bene. Pasolini viene processato per tentata rapina a mano armata. E condannato. Poi amnistiato e in terzo grado assolto, ma solo per mancanza di prove: la pistola non saltò fuori, e oltre al barista non c’era nessuno che aveva assistito alla scena.

 Il 3 luglio del 1962, quando il processo si apre a Latina, l’avvocato difensore Francesco Carnelutti non rinuncia a sollevare l’argomento dell’inverosimiglianza del tentativo di rapina a ventiquattro carati.

 Davanti alla corte, l’avvocato pone anche un’altra domanda, e la fa pure al paese: perché Pasolini – personaggio noto e benestante – avrebbe dovuto rischiare vent’anni di carcere per rapina a mano armata per duemila lire, cifra per lui irrisoria? E si può credere che il barista non abbia davvero riconosciuto l’avventore-rapinatore al momento della sua entrata nel locale? Il tentativo di rapina raccontato ai carabinieri non potrebbe essere la montatura di un ragazzo in cerca di visibilità?

 I quesiti dell’avvocato appaiono sorretti da una logica, ma l’attenzione dell’opinione pubblica si sposta in fretta su una questione più urgente sollevata dalla stampa: perché l’avvocato s’impegna con tanto zelo nella difesa del suo cliente? È pura deontologia professionale? O, più realisticamente, c’è da immaginare che Pasolini e il suo avvocato siano amanti?

 Un modo perfetto – devi ammetterlo – per spostare il ragionamento dagli argomenti della difesa alla fibra delle persone: l’avvocato di Pasolini è gay? Uno che si dichiara credente, come l’avvocato Carnelutti, può essere gay? Chi dei due avrà sedotto l’altro?

 E mentre l’opinione pubblica si morde la testa su questi interrogativi, il processo va avanti e Pasolini viene infine condannato.

 Sì, hai capito bene: Pasolini, il più grande intellettuale italiano del Novecento, viene condannato per “minaccia con arma”, un’arma caricata con un proiettile d’oro, dentro a un pubblico esercizio che si trova su una strada ad alto scorrimento, nel quale avrebbe potuto entrare chiunque in ogni momento, per giunta a pochi chilometri dalla casa dell’amica Laura Betti, da cui Pasolini deve recarsi di continuo per lavorare.

 Il processo per la tentata rapina al barista del Circeo si chiude così con una condanna a quindici giorni di reclusione, cui si aggiungono una multa di diecimila lire (cinque volte la cifra che Pasolini avrebbe tentato di estorcere) per detenzione abusiva di armi e cinquantamila lire di risarcimento al padre del barista, all’epoca ancora minorenne.

 Ma quali armi se la pistola non fu trovata? E che cosa doveva risarcire se la rapina era stata sventata?

 Non chiedermelo, ti assicuro, i giudici ci credettero. La sentenza dimostrò di avere accolto come fosse vangelo quanto riferito dall’accusa: l’arma c’era, il proiettile d’oro pure, e la rapina fu evitata solo a prezzo di uno strenuo colpo di manico di coltello sferrato dal barista. Un colpo di manico?

 Certo. Per giustificare il fatto che Pasolini non fosse ferito.

 Lo so, anche questo è risibile, che qualcuno impugni un coltello dalla parte della lama.

 La sentenza del tribunale fu portata davanti alla Corte di Appello di Roma, la quale, respingendo le richieste sia dell’imputato sia del PM, concedette però a Pasolini l’amnistia. Al successivo passaggio in Cassazione, l’altro avvocato di Pasolini, Giuseppe Berlingieri, lottò per ottenere l’assoluzione con formula piena, ma ottenne solo un’assoluzione per mancanza di prove, lasciando Pasolini con un chiodo piantato dentro la carne.

 Quel giorno Pasolini comprese che l’abito da rapinatore – vero o presunto – gli sarebbe rimasto addosso per sempre. Il dubbio non sarebbe mai caduto.

 Certo, quelle false notizie, quelle continue polemiche finivano per attirare attenzione anche sui suoi film e sui suoi libri, ma il prezzo da pagare era troppo alto, e per lui non più sopportabile. Si trattava ormai di una pressione quotidiana: ogni giorno spuntava una notizia falsa su di lui, ogni giorno lo si accusava delle cose più incredibili: di aver copiato il proprio cognome per darlo a uno dei personaggi dei suoi film, di aver plagiato il proprio romanzo, un romanzo mai edito, perché rimasto sul sedile posteriore di un’auto che era stata rubata, di essere andato in ospedale con un bastone piantato nell’ano.

 Il film Mamma Roma, a cui Pasolini aveva lavorato tanto nell’entroterra del Circeo, alla fine uscì nel settembre di quello stesso anno. Anche stavolta Pasolini fece il pieno di denunce, soprattutto per offesa al comune senso del pudore e della morale. Inspiegabilmente, però, i giudici – questa volta – non lo rinviarono a giudizio.

 Pasolini decise allora d’impegnare quelle energie insperate, quelle che era solito mettere in campo per difendersi nelle aule dei tribunali, nella promozione del film.

 Il giorno della prima, al cinema Quattro Fontane, arriva speranzoso di conquistare il pubblico della capitale, perché la pellicola s’ispira a un noto fatto di cronaca cittadina: la morte in carcere, a Regina Coeli, del figlio di una prostituta romana.

 Il racconto è straziante e la storia è di quelle che a stento, dice Pasolini, si digeriscono senza lacrime.

 Pasolini ha appena finito di parlarne in sala quando, dalle gallerie laterali, un gruppo di picchiatori neofascisti cala in platea e lo assale. Alcuni tra i suoi amici più stretti, tra cui Sergio Citti e Laura Betti, si buttano nella mischia per difenderlo, ma vengono pestati a loro volta.

 Rispetto alla prima romana del film Accattone, però, le cose vanno meglio. Allora gruppi neofascisti avevano oscurato la visione con lanci d’inchiostro sullo schermo.

 Potrei fartela tutta la lista dei processi nei quali fu coinvolto Pasolini. In tutto trentatré. Ma voglio parlarti invece di un solo altro fascicolo aperto contro di lui, l’unico che – insieme a quello che ti ho appena raccontato – mi interessa guardare in filigrana.

 Nel 1969 un allevatore della provincia di Catania denuncia Pasolini per aver provocato la morte di cinquanta pecore di sua proprietà.

 Secondo la deposizione dell’allevatore, alla fine delle riprese del film Porcile, Pasolini ha liberato un numero imprecisato di cani, prima impiegati come comparse. I cani affamati hanno atteso la notte e sono entrati nell’ovile dell’allevatore, facendo strazio delle greggi. Le bestie sono per forza quelle di Pasolini, perché c’è da escludere che egli le abbia riportate a Roma. E per farci cosa, poi, con tutti quei cani?

Vedi, Pasolini era convinto, quando ad attaccarlo era la gente comune – come nel caso del barista del Circeo o del pastore catanese –, che la cosa dipendesse dal fatto che si trattava di gente semplice, scarsamente istruita e quindi suggestionabile, che finiva col fare confusione tra lui e i personaggi dei suoi romanzi. Qualcosa del tipo: se scrivi di droga, probabilmente sei un tossico. Ma questo genere d’innocente giustapposizione non si trasforma mai in persecuzione o vendetta. Quando i pregiudizi arrivano davanti a una stazione dei carabinieri per farsi verbale, lì non c’entra più la confusione tra chi scrive e quello che è stato scritto, lì si tratta di un veleno che è stato iniettato a poco a poco nel corpo della società.

 Non erano la semplicità o il degrado culturale ad accusare Pasolini delle cose più inverosimili e ignobili, ma il clima d’odio che era stato creato attorno a lui. Un clima che, infatti, non si limitò a denunciarlo, a processarlo, a diffamarlo, ma che arrivò ad ammazzarlo.

 Sai, l’hanno descritta talmente tante volte la scena del suo omicidio che quando ripenso a quella notte del 2 novembre del 1975 mi sale all’esofago il sapore rancido del pollo che Pino Pelosi mangiò al Biondo Tevere, prima di salutarlo. Mi ronza pure in testa il rumore del cambio dell’Alfa 2000 GT che scivola sulla Cristoforo Colombo fino a raggiungere lo sparuto campetto da calcio all’Idroscalo di Ostia. E ogni volta che ci torno, su quel campetto, al pensiero di tutti gli errori di schedatura e rilevazione che sono stati fatti mi prende la cefalea, mi sale la nausea.

 Tu lo sai – vero? –, tu lo immagini perché furono inanellati così tanti errori?

 Perché al fondo di tutto – della sua morte così come dei suoi processi – c’era il fatto che Pasolini era omosessuale. E allora poco importava che fosse stato Pelosi ad ammazzarlo da solo o insieme ad altri, oppure altri senza Pelosi, e se l’omicidio fosse politico o frutto di pura bestialità… non importa, tanto era un frocio, e un frocio prima o poi uno che gli dà una lezione lo trova sempre.

 “Così ha imparato a conoscerla fino in fondo la fibra di quei balordi di borgata che lui amava tanto!” questo si pensava, così si commentava in Italia il suo omicidio.

 Certo, in quei ragazzi non c’era solo la purezza incontaminata che lui ci vedeva, spesso era gente cotta dal crimine, abbrutita dalla ferocia, disidratata dalla miseria, che a metà degli anni settanta cominciava pure a sperimentare la droga. E, lo sai, nulla come la droga ha la capacità di carbonizzare il tuo stato di percezione. Allora, se ti metti a pestare con violenza su un corpo vivo, è come se quella violenza non fosse tua. Come se tu la stessi spremendo dentro a un videogioco. I videogiochi non c’erano, ma la droga sì, la droga iniziava a esserci, a diventare di massa, a erodere l’orizzonte delle periferie italiane.

 No, Pelosi era pulito quella sera. Pasolini non si sarebbe lasciato slacciare i pantaloni altrimenti, perché lui quel mondo lo conosceva bene. Io parlo di quelli che raggiunsero Pelosi all’Idroscalo… ma certo, non è detto che qualcuno abbia raggiunto Pelosi all’Idroscalo quella notte, magari Pelosi agì davvero da solo come dichiarò subito dopo l’arresto. Per me, vedi, non cambia nulla. Non è la dinamica dell’omicidio che mi interessa, a me interessa quello che accadde prima, il fatto che ogni giorno si producessero su Pasolini fantomatiche storie di premeditati genocidi di pecore, di tentate rapine a mano armata, di improbabili plagi di libri, di ricoveri d’urgenza in ospedale per lesioni all’ano. Denunce buone per accenderci il camino d’inverno, ma che bugia dopo bugia avevano scavato nella testa della gente un cratere talmente profondo che non fu un caso se Pelosi, appena dopo l’arresto, dichiarò quello che tutti volevano sentire: aveva dovuto ammazzare Pasolini perché Pasolini aveva tentato di sodomizzarlo con un bastone.

 Molti anni dopo ritrattò, disse che non era vero niente. Ma sul momento le sue accuse furono ritenute plausibili perché si voleva liquidare quell’omicidio come un regolamento di conti tra froci. Ciò che però non è ancora stato detto su quell’omicidio è che quella notte, all’Idroscalo, Pasolini ci arrivò già morto. Ci arrivò sfinito da quei trentatré colpi di processo. E che su trentatré colpi uno, alla fine, ti sia fatale, non è caso, è statistica.

 Sai, la verità è che esistono solo due tipi di intellettuali: quelli che raccontano la vita osservandola come da dietro a un paravento, e quelli che ci si devono schiantare addosso, perché solo quando sono al tappeto, agonizzanti, allora riescono a descriverla. Pasolini era del secondo tipo: dentro alla vita. Scrivere sì, leggere sì, commentare sì, fare analisi sì, ma solo dall’alba al tramonto, perché – sparito il sole – iniziava il suo corpo a corpo con la vita. Pasolini non ha mai usato la testa per scrivere, ha usato sempre e solo il corpo, più precisamente il corpo a corpo.

 I muscoli ancora ben delineati sul suo cadavere impastato di sangue, riverso sul campetto dell’Idroscalo, sono il marchio più evidente di quel suo combattimento quotidiano.

 Lo raccontano, sai, quelli che lo hanno conosciuto da vicino, che all’alba rincasava randagio, come una bestia selvatica che rientra malandata dentro alla tana: ammaccato, braccato, pestato, lercio di marrana. Un giorno con la coda monca, un giorno senza un occhio, un giorno con la zampa penzola. Una bestia notturna. Uno che non poteva che essere l’abominio di tutti i buoni padri di famiglia. E, infatti, erano proprio gli “uomini medi”, i “buoni padri di famiglia” l’ossessione di Pasolini. Quelli capaci dei crimini più orrendi. I conformisti, i razzisti, gli schiavisti, i qualunquisti che si vantano di vivere nel rispetto delle leggi, dentro a case sicure, con i gerani fioriti sui balconi e i monconi di cadavere chiusi a chiave dentro la ventiquattrore foderata in pelle scura.

GRIDALO CHE NON DIRAI MAI “SE L’È CERCATA”.

 Che l’“uomo medio”, il buon padre di famiglia, sia “un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”, Pasolini lo fa dire a Orson Welles nell’episodio “La ricotta” del film Ro.Go.Pa.G. (1963).

 Il libro che ripercorre per intero la vicenda dei processi di Pasolini è Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di Laura Betti, Garzanti, Milano 1977.

 C’è un libro su Pasolini che – per me – dovrebbe essere imparato a memoria, e che non tratta dei suoi scritti: Umberto Apice, Processo a Pasolini. La rapina del Circeo, Palomar, Bari 2007.

 Apice, tra le altre, riporta la frase pronunciata in aula dall’avvocato difensore di Pasolini, Francesco Carnelutti, che sintetizza il clima creato intorno a lui: “Volete sbranarlo, Pasolini.”

 Apice è anche il primo a capire ciò che con quel processo si voleva affermare, oltre l’aula del tribunale: “Il messaggio era che l’esempio di Pasolini non andava imitato, perché il potere dispone di anticorpi capaci di reagire e di annientare chi ostacola, anche solo con la parola, la libera gestione della cosa pubblica. Ecco il doppio obiettivo perseguito: a) tranquillizzare le fasce della sottocultura e della piccola borghesia: il sovversivo, il diverso, il ‘frocio’ si è ucciso con le sue stesse mani; b) minacciare i non allineati: chi si permette di contrastare la logica generale dello sviluppo e del neocapitalismo, chi pretende che l’economia debba anzitutto rispettare le regole del diritto, chi fa l’accusatore del regime che governa l’Italia, si aspetti di fare la stessa fine di Pasolini. Insomma, si deve capire, o intuire, che il regime è forte: ‘Nessuno si può permettere di chiedere un processo a chi governa l’Italia.’ E, ancora, è come se l’avvertimento dicesse: ‘Tu sei scrittore, regista, intellettuale, ma la tua parola, i tuoi messaggi non valgono niente. Noi ti possiamo accusare delle cose più assurde: il mondo crederà a noi.’ È la logica degli omicidi di stampo mafioso. Il mandante dev’essere riconosciuto, ma non inchiodato alle sue responsabilità: questo servirà agli altri perché imparino la lezione. Il nemico va distrutto, ma con lui deve sparire anche il suo esempio: non devono esserci altri ad imitarlo.”

Roberto Saviano


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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