"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini, Marxisants
(o meglio neomarxisti)
( Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )
Marxisants? Il francese e il genere di suffisso applicato alla grande radicale, mi lasciano dubitante davanti a questa definizione, usata sia da Roversi (con perplessità) che da Scalia (ironicamente) nel primo numero della nuova «Officina». E io non politico, e scarso lettore di sociologia, non mi dovrei sentire in grado di correggerla. Ma il «marxisants» dei miei amici mi sollecita, anzitutto quasi un punto focale nuovo sulla situazione delle prospettive in sviluppo, progresso o regresso, dopo il XX Congresso del Pcus: prospettive non solo politiche, ma ideologiche, letterarie e metodologiche, sotto il segno di una rinnovazione comunista rientrata, e sotto i segni minori dei vari moti innovativi, interni o esterni: di dissidenti, di marxisants o meglio neomarxisti [vedi «Passato e Presente»], di ex-comunisti, e anche di lealisti, rimasti nel partito di Togliatti [vedi, passim, in certe superfici interne, il nuovo «Contemporaneo»].
Tuttavia una ricostituzione rigeneratrice e semplificatrice del comunismo, a me, osservatore di passaggio e incompetente, non pare preannunciarsi all’orizzonte ideologico: è possibile, dunque, per uno scrittore, ipotizzare, come dato, un neocomunismo ancora nella piena tenebra del farsi, e, di conseguenza, prospettarsi un proprio comportamento e una propria figura nuovi, o comunque le ripercussioni etiche ed estetiche nelle sovrastrutture in cui egli opera?
No, no certamente. Però qualche soluzione, qualche caso, può essere previsto, supposto, prefigurato: l’opposizione marxista deve ora lottare contro una forma nuova di capitalismo, un capitalismo sotto certi aspetti illuminato, e quindi più duro: dunque le norme e le istituzioni che presiedono alla sua lotta, dovranno pure richiedere qualche innovazione.
Non entro nel merito, non ho strumenti per farlo: resta però il fatto, elementare, che il neocapitalismo va assorbendo degli strati di proletari progrediti e riconquistando degli strati di borghesia progressista: questo coincidendo con la fenomenologia, ormai individuata, di quell’aumento dei dislivelli, che, del neocapitalismo, pare essere la caratteristica più cospicua: maggiore ricchezza là dove c’è ricchezza, maggiore miseria là dove c’è miseria.
Le aree depresse italiane, che si spingono fin nel cuore della nazione, con le borgate della periferia della capitale, per esempio, sono già fenomeni in vitro, da laboratorio. Non ho mai visto tanta miseria come recentemente a Napoli, o, come ogni giorno, a Pietralata o a Primavalle, a due passi da San Pietro o dal Parlamento.
A me parrebbe, fruendo della spregiata intuizione, che dati non ne possiedo, che la situazione sia molto peggiore di quanto si immagini o si ammetta: la nazione è vicina a quel baratro in cui le sue zone depresse sono in parte riaffondate. La conseguenza che con semplicità e, certo, con ingenuità ne traggo, è che sempre più il Partito comunista dovrà diventare il «partito dei poveri»: il partito, diciamolo pure, dei sottoproletari.
Questo implica una fondamentale innovazione nel suo organismo: si tratterebbe addirittura di una intera rigenerazione del marxismo, forse, assolutamente inaspettata; tilt improvviso d'una macchina che pareva funzionare così bene: ordine dentro l’ordine nemico.
Il fatto che il comunismo, condotto a questo da una necessità storica in parte imprevedibile e imprevista, debba modificarsi a diventare tout court «il partito dei poveri» non significa che, nella sede ideologico-letteraria, si debba prevedere una specie di nuovo populismo, di nuova maniera umanitaria. Anzi: questo momento di depressione del comunismo, in quanto necessaria e parziale rinuncia a imperniare la propria azione sulla «aristocrazia» operaia e su una tradizione di intelligenza ideologica e filosofica, coincide con la riscoperta — cosciente ed elaborata — da parte dello scrittore, di una sua condizione «eletta», di una sua sostanziale «aristocraticità».
Con implicati i precedenti non rigidamente e ortodossamente marxisti: gli elementi del classicismo e dell’intellettualismo, raziocinante, se non razionale, come momento assoluto della storia di una grande borghesia liberale.
E qui pregherei i tonti, e i tonti finti, di volermi capire: non intendo parlare di nessun ritorno: ma della restituzione a ragione storicizzante di alcuni dati di fatto che è inutile negare, tacere, o, ormai, drammatizzare. Sul superamento di questi dati in una nuova interezza, superaddita, fideisticamente marxista, salubre, filopopolare, lealista rispetto i canoni comunisti, si è esercitato in questi dodici tredici anni l’impegno degli imbecilli. Compagni di strada di un partito che si fondava su presupposti stalinisti, su una involuzione: e, per definizione, più immobili dei comunisti conformisti stessi.
Quegli elementi, storicamente appartenenti a una cultura antecedente, decadente, e, nella provincia italiana, ermetica, sono rintracciabili a ogni passo, a ogni stilema di questi letterati e marxisti dilettanti. I critici dell’altro versante, così, hanno avuto buon giuoco a confondere le acque prendendo per buone e indicative simili ridicole inserzioni.
Ora i problemi, il tipo di rinuncia mistica, autolesionista, la fenomenologia stilistica, l’ipocrisia sia pure moralmente giustificata, che l’adesione al comunismo come partito del popolo richiedeva fino alla presente maturazione storica, non possono che, e necessariamente, mutare.
Niente rinuncia, niente misticismo, niente ipocrisia: ciò che è va accettato, storicizzato, e quindi modificato attraverso le vie di un pieno e forte razionalismo. Si configura così un interregno, una fase di assestamento della società neocapitalistica da una parte — con le sue nuove, illuministiche e spietate alienazioni — e del marxismo dall’altra, nell’atto di impadronirsi di. un nuovo tipo di «dominato», in una specie di tuffo alle origini.
Al letterato in questo periodo transitorio, si presenta, in concreto, cioè nell’atto della sua operazione prima — quella di inventare, di fare —, una immensa quantità di materiale: la scala fenomenologica è vastissima, in questo mondo complesso e antitetico, pieno di casi estremamente particolari ed estremamente tipici: distribuiti in una società che, in un momento di particolare calma, efficienza e quasi ottimismo, è, al contrario, alle soglie della sua più grande crisi. Tipi di accettazione di tale società come assoluta assimilazione ad essa, tale da escludere, sia pure a vari livelli sociali e culturali, ogni critica, ogni oggettivazione, ogni storicizzazione, con uno sviluppo della personalità a contraddizioni esistenziali (vitalismo nelle classi basse, conformismo in quelle borghesi). E insieme, tipi di non accettazione di tale società, con uno sviluppo della personalità (diciamo del personaggio) secondo un processo storico, a contraddizioni dialettiche... E ancora tipi in cui il progresso interiore di individui storici, pur restando esistenziale, caotico, involutivo, è tuttavia corretto dall’oggettivo esistere di un progresso dialettico, evolutivo, assorbito, anche se schematicamente, dalle ideologie operanti... Credo che mai un mondo così complesso e ricco si sia presentato davanti all’attenzione di uno scrittore in quanto scrittore.
In campo ideologico: è chiaro che non si può sfuggire a delle prefigurazioni, a dei precorrimenti del pensiero che sta maturando lentamente dalle cose, dalle necessità, dalla prassi. Sul piano più alto urge (e questa è la necessità più fortemente sentita da tutti coloro che redigono questa rivista, anzi, la ragione per cui questa rivista è nata) gettare i fondamenti di una nuova metodologia critica: a sostituire l’attuale eclettismo sia pure niente affatto qualunquistico, che fonde la storicizzazione crociana con l’interpretazione marxista, la riesumazione spitzeriana di un’epoca attraverso uno stilema, con la ricerca lukácsiana della società attraverso una particolare espressione artistica, ecc.
Può darsi non si arrivi ad altro che a una definizione piena e cosciente di tale eclettismo naturale, fino a fame un mezzo conoscitivo di una realtà a sua volta complessa e stratificata: strumento di transizione per un periodo storico di transizione.
Ma restano, sempre in campo di riflessione ideologica, delle operazioni secondarie, che andranno bene compiute: in primo luogo, direi, il ripensamento dei modi di una riassunzione del sottoproletariato come oggetto di letteratura per strade diverse che non siano il vecchio populismo e il documentarismo, comunque populistico, dell’ultimo dopoguerra. In secondo luogo la definizione dei termini di una lotta, anche pratica, contro il nuovo tipo di alienazione che incombe sull’intellettuale (cfr. le citate pagine di Roversi nel primo numero). È un dato di fatto: noi scriviamo per la borghesia; il colloquio avviene con essa: colloquio angoscioso perché essa non risponde: agisce, rifiuta, impone. E, nel caso che importa, non si tratta più di una borghesia reazionaria o cattolica : ma di una borghesia americanisante — qui si il suffisso funziona —: spietata nel giudizio, quasi protestante o puritana, padrona, severa, confortata nel suo conformismo dall’efficienza del suo lavoro e della sua produzione, del mondo che si sta creando intorno.
A una simile borghesia, è chiaro, il marxismo dà ormai più noia che ansia. Mentre il marxismo si rigenera — e auguriamoci che questo avvenga, dall’interno, ad opera di un forte, libero spirito... marxisant — essa si è rimpadronita del reale: facendone un’entità assoluta, non minacciata da contraddizione (che non sia un male manicheo, un nulla esistenziale, per il momento scongiurato), e quindi metastorica.
È naturale che essa richieda al letterato una forma di «squisitezza»: che tuttavia non sarà più la «squisitezza» di venti anni fa, evasiva verso l’interno, difficile, irrazionale o follemente raziocinante, ma una «squisitezza (per così dire) di relazione», sociologica, aggiornata (si veda, esempio tipico, il successo dell’astrattismo); e d’altra parte, insieme a tale funzione «artistica», da proteggere, da incoraggiare, questa borghesia neocapitalistica, richiederà con sempre maggiore insistenza al letterato una funzione sacerdotale, a concrezione della metastoricità del reale, una figura di guida «spirituale»: che non sarà più quella, magari, di un cattolico estetizzante, ma, mettiamo, quella di un intelligente, spregiudicato e durissimo puritano.
Questa sprovincializzazione, che a me sembra di vedere in atto, certo, specie nelle zone industriali del Nord (mentre, appunto, in quelle depresse, nel Sud, tutto par riaffondare nella più triste, sporca e brulicante cattolica provincia italiana), richiede, da parte del letterato all’opposizione, una più forte, chiara e rigorosa consistenza ideologica: fede, populismo, impegno sono dati superati. Ci sono nella condotta morale e mentale, oltre, naturalmente che nell’opera quotidiana creativa, degli obiettivi immediati più difficili: implicanti un maggiore rispetto per l’avversario, per la sua tradizione così violentemente e in fondo coraggiosamente innovata. Bisognerà convincerlo che lo scrittore non è uno specialista, un tecnico di stile, non è un deputato al sacerdozio, una guida di comportamento etico come concrezione storica del flusso vitale a un modulo: ma che è qualcosa che è in lui stesso, nell’uomo pratico e producente, il meglio di lui, e quindi, in definitiva, lui, nell’atto di pensare, lui, uomo: ivi compreso il più povero della terra più povera, sul punto di essere eliminato, da lui, dal mondo, di non esistere più.
Pier Paolo Pasolini
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