Benvenuto/a nel mio blog

Benvenuto nel blog

Questo blog non ha alcuna finalità di "lucro".
Viene aggiornato di frequente e arricchito sempre di nuovi contenuti, anche se non in forma periodica.
Sono certo che navigando al suo interno potrai trovare ciò che cerchi.
Al momento sono presenti oltre 1500 post e molti altri ne verranno aggiunti.
Ti ringrazio per aver visitato il mio blog e di condividere con me la voglia di conoscere uno dei più grandi intellettuali del trascorso secolo.

mercoledì 16 aprile 2025

Leonardo Sciascia, Pasolini e il foglio ingiallito - Tratto da Leonardo Sciascia, Nero su nero.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini e il foglio ingiallito

Leonardo Sciascia

Tratto da Leonardo Sciascia, Nero su nero.

Einaudi 1979

Il foglio ingiallito di cui parla Leonardo Sciascia, lo trovi al link qui sotto: 

Pasolini, Dittatura in fiaba


 Ho cercato ieri – e fortunatamente ritrovato nel disordine in cui stanno le mie cose – il foglio ingiallito del giornale «La libertà» in cui Pasolini pubblicò il 9 marzo del 1951 un articolo sul mio primo libretto. Un articolo su tre colonne: come se di quell'esile libretto egli avesse parlato sapendo quello che avrei scritto dopo, fino ad oggi. S'intitola Dittatura in fiaba. E si chiude con questo concetto, che parlando di me aveva poi ribadito in Passione e ideologia e, l'anno scorso, recensendo Todo modo: «Ma anche questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola». E credo che questo giudizio – e perciò lo riporto – non fosse di entusiasmo ma di limitazione, considerando che lui amava un linguaggio meno puro, più urgente e rovente.

 Comunque, da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all'antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l'ultimo nell'atrio dell'albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi. C'era però come un'ombra tra noi, ed era l'ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell'omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero – e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.

 E voglio ancora dire una cosa, al di là dell'angoscioso fatto personale: la sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori – io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell'ultimo numero del «Mondo», una lettera a Italo Calvino.

   Sul «Figaro» del 4 novembre, in un breve corsivo intitolato Non conforme, André Frossard scriveva di Pasolini: «Ci dicono che questo celebre cineasta italiano, ora morto in condizioni particolarmente sinistre, non ha mai cessato, durante la sua vita, di proclamare il suo nonconformismo. In effetti: leggo la sua biografia, ed apprendo che egli si rifaceva al marxismo, il che è di una originalità folle e quasi scandalosa oggi, soprattutto tra gli intellettuali, soprattutto in Italia, dove non c'è più di un marxista su due elettori. Egli ha ottenuto per due volte il gran premio dell'Ufficio cattolico del cinema, di cui tutti sanno che è pieno di acrobati rivoluzionari la cui reputazione di ardimento è ormai consolidata. Infine, il suo ultimo film, che sarà presentato tra qualche giorno, è un adattamento delle Centoventi giornate di Sodoma di quel caro vecchio marchese de Sade le cui care vecchie manie ispirano due cineasti su tre. Bisogna convenire che è impossibile portare il nonconformismo più avanti di così senza cadere nell'insignificanza, a forza d'esagerazione».

 Queste affermazioni, vere una per una e suscettibili di ironico uso, non lo sono più quando confluiscono nell'ultima: il risultato di insignificanza cui, a forza d'esagerazione, Pasolini sarebbe pervenuto. C'è del conformismo nel proclamarsi marxista, e specialmente in Italia; c'è del conformismo e non c'è alcuna originalità nel continuare ad essere cattolico in un paese cattolico; c'è del conformismo e molta banalità nel manipolare per il cinema le care vecchie manie del caro vecchio marchese de Sade: ma questi tre conformismi messi assieme, e vissuti per come Pasolini li ha vissuti, hanno prodotto un tragico, disperato anticonformismo; un risultato tra i più significanti e duraturi (duraturi nel senso che anche se Pasolini sarà dimenticato in essi ci dibatteremo ancora per molti anni) del nostro tempo. Certo – al di là della quasi generale, generica e indistinta commozione in cui la sua morte ci ha gettati – occorrerà una ferma e seria analisi delle due conformistiche componenti da cui generava l'anticonformismo di Pasolini; e specialmente di quella marxista. E in questo senso si potrebbe anche azzardare una specie di ipotesi di lavoro: che certe verità dette da Pasolini – sul capitalismo, sul consumismo, sulla violenza, sulla classe dirigente italiana (cioè non-dirigente), sull'istruzione pubblica – fossero marxiste in quanto verità, per la capacità e mobilità del marxismo a far propria ogni verità (che è poi l'esatto contrario di quel che certi marxisti intendono e professano per marxismo), e non lo fossero per estrazione, per adesione, per meditazione. E tanto per fare un esempio: niente di meno marxista che affermare, come Pasolini ha affermato, che tra i capi di imputazione al potere democristiano bisognava mettere l'aver esso corrotta la Chiesa, mentre alla più immediata riflessione marxista vien fuori giusto il contrario: che appunto perché figlia di «quella» Chiesa – quella del Decamerone e dei sonetti del Belli – la classe di potere democristiana è corrotta. Ma questo è un discorso che spero si possa fare più in là e più serenamente. Ora voglio soltanto fermare alcune impressioni sull'ultimo film di Pasolini.

   Ho visto una volta, per cinque minuti, un film pornografico. A differenza di Catone nell'epigramma di Marziale (tradotto da Concetto Marchesi: «Tu conoscevi il dolce rito della giocosa Flora, / e l'allegria della festa e la libertà della gente. / E allora perché sei venuto a teatro, o severo Catone? / O sei venuto soltanto per questo: per uscirne?»), non sapevo quali sarebbero state le mie reazioni di fronte a un simile spettacolo. Presumevo anzi che mi sarebbe piaciuto, piacendomi la letteratura erotica e libertina. Mi sono invece trovato davanti a dei corpi umani ridotti a una pura e triste meccanica e ho fatto l'immediata constatazione che di pornografico, in un film pornografico, ci sono soltanto gli spettatori. Se fossi rimasto oltre, mi sarei molto annoiato e un po' vergognato.

 Giorni addietro, a Roma, vedendo l'ultimo film di Pasolini mi sono trovato in una condizione del tutto diversa. Questo per dire subito che se sono arrivato a sperare che questo film lo vedano pochi, ci sono arrivato da ben altra parte. Mentre le immagini scorrevano sullo schermo, non mi sentivo pornografo ma vittima. Vittima del dovere di vederlo, vittima dell'attenzione con cui ho sempre seguito Pasolini, vittima – perché non dirlo? – del mio cristiano amore per lui, di un amore che forse sfiora il concetto – cristiano e cattolico – della reversibilità. Ho sofferto maledettamente, durante la proiezione. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non chiudere gli occhi, davanti a certe scene: e nel buio diciamo fisico che si faceva in me, precario conforto a quell'altro, morale e intellettuale, che dilagava dallo schermo, disperatamente e come annaspando cercavo nella memoria immagini d'amore. Poi venne, da una delle vittime – da una di quelle che anche nelle didascalie iniziali, coi loro nomi anagrafici, sono definite vittime –, venne l'invocazione-chiave, l'invocazione che spiega il senso del film e l'impressione che produceva in me: «Dio, perché ci hai abbandonati?». Lo stesso grido di Cristo nel Vangelo di Marco: «Eloi, Eloi, lama sabactani?».

 A questo punto, a spezzare provvidenzialmente l'effetto del film, mi affiorò il ricordo di una battuta di Jean Paulhan quando, testimoniando a favore di Jean-Jacques Pauvert, imputato per la ristampa delle opere di Sade che veniva facendo, alla domanda del giudice: «Dunque lei non crede che le opere di Sade siano pericolose?», aveva risposto: «Pericolosissime: conosco una ragazza che dopo averle lette si è fatta monaca». Questa battuta, meno paradossale di quanto sarà parsa al giudice (nella migliore delle ipotesi: ché è possibile l'abbia intesa a carico invece che a discarico di Pauvert), veniva a porre la questione del film di Pasolini in rapporto alla censura, e il problema stesso della censura, nei termini più esatti e più giusti. Il film di Pasolini è senza dubbio importante: importante come conclusione della sua autobiografia, importante per chi come me sente il bisogno di ricostruire la sua vita, di spiegarsela, di capirla con umiltà e insieme con pietà; di capire la sua scelta, di capire il suo «suicidio». Ma a che serve, per la generalità degli spettatori; a che serve per le masse che lo consumeranno? Lasciando da parte i pochissimi che a vederlo possono sentirsi insorgere delle latenti perversioni o trovare una forma di appagamento a quelle coscienti, i più non ne avranno che nausea ed orrore: e o sentiranno l'impulso di ripagare con la violenza tanta violenza (magari sfasciando il cinema) o sentiranno tanta disperazione e dannazione da trovarsi ad invocare Dio come nel film la vittima, come la ragazza di cui dice Paulhan che si è fatta monaca dopo aver letto Sade.

 Ora, decisamente, tanto per stare alla battuta di Paulhan, è appunto questo che non vogliamo: che le ragazze si facciano monache. Facendo il film che ha fatto, Pasolini ci ha avvertito di questo pericolo. E anche morendo come è morto: di una morte in cui gli elementi «libertari» sono sovrastati e annichiliti dagli elementi «cattolici». Ma noi dobbiamo difendercene. E non dico noi per dire questa società, questo Stato, tutto quello che Vittorini chiamerebbe morte e putredine – che hanno se mai non il diritto di difendersi ma il dovere di dissolversi; ma noi che ormai sappiamo quello che siamo e quello che vogliamo: anche se stretti tra le delusioni storiche nuove e le tentazioni metafisiche vecchie.

Leonardo Sciascia

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

Nessun commento:

Posta un commento